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DIRITTI DELL’UOMO

1. L’art. 3 Cedu: il divieto di trattamenti inumani o degradanti.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è da tempo pronunciata sulla reale portata dell’art. 3 della Convenzione, che reca uno dei principi fondamentali delle società democratiche, ossia il divieto di tortura e trattamenti disumani.

Indubbiamente, vi sono, anche al giorno d’oggi, delle difficoltà da parte degli Stati europei legate alla lotta alla criminalità organizzata, e negli ultimi tempi, anche al terrorismo, con ciò dovendo far fronte a detenuti potenzialmente pericolosi non solo per sé stessi e per la popolazione carceraria, ma anche, più in generale, nei confronti della intera società civile, che, soprattutto negli ultimi mesi, è stata scossa da eventi internazionali disastrosi.

Tuttavia, l’art. 3 della Cedu, laddove prevede che “nessuno può

degradanti”, non ammette alcuna limitazione, a differenza della

maggior parte delle disposizioni della Convenzione.

Addirittura, mentre in caso di guerra o altro stato di pericolo pubblico, tutti i diritti tutelati e previsti dalla Convenzione possono essere derogati mediante misure da parte degli Stati membri per il tempo strettamente necessario a risolvere lo stato di pericolo, il par. 2 dell’art. 15 Cedu, non autorizza alcuna deroga all’art. 3, configurando tale disposizione come facente parte di un “nucleo duro” di diritti di cui l’uomo non può essere mai privato senza che ciò non comporti una perdita della stessa dignità umana.

Premessa la fondamentale importanza rivestita dalla norma in questione, merita soffermarsi sull’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo circa i caratteri di un trattamento penitenziario disumano: in altre parole, ci si deve domandare fino a quale limite l’Amministrazione Penitenziaria possa spingersi nella compressione dei diritti del detenuto pericoloso, senza incorrere nella violazione dell’art. 3 Cedu.

Per la Corte Europea, perché un trattamento possa ricadere nell’ambito dell’art. 3 Cedu, deve raggiungere un minimo di gravità, la cui valutazione non si sofferma solamente alle considerazioni oggettive legate al tipo di misura applicato, ma deve avere riguardo all’insieme degli elementi del caso,

valutando questioni oggettive come la durata del trattamento, ma anche questioni soggettive, come le conseguenze fisiche e mentali che ne sono derivate al detenuto, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima. Alla base di questa valutazione, la Corte precisa che debba essere utilizzato un canone particolarmente rigido, ossia il carattere disumanità deve essere provato “al di là del ragionevole dubbio” ( ). 43

Un criterio particolarmente appropriato per determinare la violazione dell’art. 3 Cedu, pare essere quello di valutare se le limitazioni imposte dall’Amministrazione penitenziaria abbiano ingenerato nel detenuto sensazioni di paura, di angoscia e di inferiorità per le umiliazioni ricevute ( ). 44

Bisogna tenere conto, tuttavia, che, affinché un trattamento possa dirsi degradante, deve provocare sofferenze e umiliazioni che vadano oltre quelle che comporta inevitabilmente una data forma di trattamento o di pena legittima: non bisogna, infatti, dimenticare che il detenuto viene privato della libertà personale in conseguenza del suo comportamento antisociale proprio perché esso si è posto consapevolmente in contrasto con l’ordinamento giuridico, quindi è inevitabile che gli venga inflitta un certo grado di privazione.

Cfr. sent. Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978. 43

Cfr. Kuala c. Polonia, n. 30210/1996. 44

Ciò che richiede l’art. 3 Cedu, in definitiva, è individuabile nel dovere da parte dello Stato di assicurarsi che la detenzione del reo avvenga in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e non ecceda i limiti di una normale afflizione punitiva ( ). 45

2. I regimi speciali di detenzione e l’art. 3 Cedu.

Spesso l’esclusione di un detenuto dal resto della popolazione carceraria e il suo inserimento all’interno di celle isolate e/o maggiormente controllate, si rende necessario ai fini di una migliore prevenzione del rischio di evasione, dell’aggressione nei confronti degli altri detenuti e del contatto con l’ambiente del crimine organizzato.

La Corte, a riguardo, ha specificato che tale forma di detenzione non configura, per ciò solo, una forma di trattamento inumano o degradante ( ). 46

Tali forme “rafforzate” di detenzione configurano certamente una ipotesi di prigione nella prigione, poiché il livello di controllo si rende più penetrante e di conseguenza anche la (già limitata) libertà di movimento viene ulteriormente ristretta;

Cfr. Ocalan c. Turchia, 11 febbraio 2014. 45

Cfr. Ramirez Sanchez c. Francia, n. 59450/2000. 46

ovviamente vi devono essere presupposti specifici per l’applicazione di un tale regime, che devono essere delineati il più chiaramente possibile dalla legge per evitare forme di arbitrio e derive del potere impositivo dello Stato.

Importante, in ambito di compatibilità dei regimi speciali con l’art. 3 della convezione, è evidenziare che può essere creato un parallelismo tra regimi speciali (ex art. 41 bis e art. 14 bis o.p.) e i circuiti dell’alta sicurezza.

Va evidenziato che il divieto previsto all’art. 3 CEDU deve essere rispettato, non solo nell’ambiente più restrittivo in assoluto, il c.d. carcere duro, ma anche in merito ai circuiti delle stesse sezioni previsti all’interno dell’istituto penitenziario.

Soprattutto quando si parla di “alta sicurezza” si fa riferimento a detenuti a cui è stato applicato il c.d “carcere duro” poi successivamente revocato, in seguito al miglioramento comportamentale ottenuto.

Quindi in questo caso, si può affermare che il circuito dell’alta sicurezza e il regime speciale ex art. 41 bis sono come due linee rette che si intersecano nella categoria di detenuto, ma poi si allontanano visto il riferimento uno alla sottoposizione al carcere duro e l’altro alla revoca di quest’ultimo.

Il fatto che ci sia un punto di intersezione fa capire la compatibilità dei principi applicabili, finanche con riferimento all’art. 3 Cedu.

In altre parole e per concludere si potrebbe affermare che, se in alcuni casi non è stata rilevata una incompatibilità tra i regimi speciali e l’art. 3 della CEDU, a fortiori anche l’applicazione di un circuito di sicurezza sarebbe astrattamente compatibile con il divieto di trattamento inumano.