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IL CARCERE NEL CARCERE ( I regimi di detenzione speciale )

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INDICE

CAPITOLO PRIMO

BREVI CENNI STORICI SULL’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA PENITENZIARIA

pag. 1. Introduzione ……… 3 2. Il regime fascista e il regolamento del Codice Rocco …… 3. La legge dell’ordinamento penitenziario 345/1975 ……… 4. La legge Gozzini 663/1986 ……….. 5. Il regolamento 230/2000 ……….

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INTRODUZIONE

I circuiti di sicurezza e il regime di sorveglianza particolari sono strumenti previsti dal diritto penitenziario al fine di garantire il mantenimento dell’ordine e della sicurezza negli istituti penitenziari, e rappresentano regimi “particolari” da adottare nei confronti di quei detenuti che manifestano una spiccata pericolosità, in relazione sia al reato commesso che al comportamento tenuto durante la vita detentiva.

La previsione di siffatti strumenti si fonda sulla annosa questione della funzione della pena, sulla quale si sono scontrati i più autorevoli autori penalisti.

La conclusione a cui possono portare tutte le argomentazioni filosofiche e forse anche politiche sulla questione sembra essere quella di una irriducibilità del concetto di pena/sanzione in un ordinamento come il nostro, dominato da una Carta Costituzionale incentrata sul fondamentale principio di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, che devono essere riconosciuti a prescindere dalla condizione personale del soggetto, ma solamente per il fatto di essere uomo.

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Da un lato infatti, si riconosce la pena come punizione (da cui deriva anche come etimologia), come tentativo di mettere ordine nella società e soprattutto come reazione dello Stato alle devianze del consociato, che con il proprio comportamento illecito e criminale si pone in contrasto con le regole imposte dall’ordinamento e dalla stessa società: lo Stato, infatti, deve riconoscere le condotte criminali, perseguirle e punirle al fine di realizzare la c.d. prevenzione generale, ossia la pressione nei confronti della collettività per prevenire la commissione di ulteriori reati, attraverso la minaccia.

D’altro lato, la comminatoria di una punizione non deve perseguire solamente il fine di una minaccia nei confronti di terzi soggetti, ma deve avere una finalità “più elevata” nei riguardi del condannato medesimo, che non può fungere sostanzialmente da capro espiatorio. Nella fase di applicazione della pena in concreto, il Giudice deve porsi un obiettivo fondamentale che è quello della rieducazione del condannato, così come la Costituzione impone (art. 27 cost.): questa configura un’obbligazione di mezzi e non di risultato per lo stato, il quale non può avere la pretesa di riuscire in un obiettivo che senza ombra di dubbio incide anche sulla sfera interna e più intima del condannato; in altre parole, lo Stato non può addentrarsi fino in fondo nell’animo del soggetto, ma può

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imporsi di utilizzare degli strumenti che permettano di giungere a tale obiettivo, sicuramente uno dei più ambiziosi che il nostro ordinamento può porsi.

Di fronte a questa collisione, tra finalità punitivo-repressiva e finalità rieducativa, si collocano i c.d. detenuti pericolosi, per i quali non è semplice parlare di rieducazione, ma che soprattutto si caratterizzano per una spiccata offensività, tale da mettere a rischio, non solo il proprio percorso rieducativo all’interno del carcere, sul quale abbiamo detto che lo Stato non può intervenire più di tanto, ma anche quello degli altri detenuti nonché la sicurezza dello stesso penitenziario.

L’Amministrazione penitenziaria medesima, nella legislazione regolamentare degli ultimi anni ha sostenuto che per i detenuti di primo livello l’esigenza di sicurezza deve prevalere sulle esigenze trattamentali, ad indicare appunto che tali soggetti devono innanzitutto essere neutralizzati, ed eventualmente, dopo rieducati.

Se tale ragionamento non venisse contestualizzato si potrebbe prospettare un netto contrasto con i principi costituzionali medesimi (art. 27 Cost.) ovvero con i principi dell’ordinamento europeo sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che prevede all’art. 6 il divieto assoluto di prevedere

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trattamenti inumani e degradanti, oltreché sistemi di tortura nei confronti dei detenuti.

Tutto ciò va escluso, se solo si pensa che adottare misure ancora più restrittive per i soggetti caratterizzati da una particolare offensività (sia per il comportamento tenuto che per il reato commesso), ossia sistemi di sorveglianza accentuata o vere e proprie restrizioni ulteriori rispetto a quella ordinaria per un detenuto, non son altro che una delle strade percorribili per giungere all’obiettivo di fondo del sistema penitenziario, ovvero la rieducazione del soggetto delinquente: se per un condannato “ordinario” la via per giungere alla rieducazione è una restrizione altrettanto “ordinaria”, per i detenuti “sorvegliati speciali” dovrà essere adoperato un metodo necessariamente diverso.

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CAPITOLO PRIMO

BREVI CENNI STORICI SULL’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA PENITENZIARIA

1. Introduzione.

Per tutto il periodo precedente alla riforma del 1975, ovvero alla più recente e rivoluzionaria riforma in materia penitenziaria, forse neppure si poteva parlare di “diritto” penitenziario, per il semplice fatto che non vi era nessun diritto da riconoscere: i detenuti erano soggetti da punire, non avevano nessun diritto, appunto, da far valere, o motivo per essere tutelati dallo Stato, proprio da quello Stato che loro stessi hanno leso con la propria condotta criminale.

Tutta questa filosofia di fondo poteva rintracciarsi, fin dai primi del ‘900, in molti aspetti della disciplina penitenziaria: i detenuti non avevano tra loro contatti tali da poter sviluppare un momento sociale di tipo costruttivo, perché di notte dormivano separati (vi era una organizzazione di tipo cellulare, dove ogni cella ospitava un detenuto), e di giorno lavoravano obbligatoriamente (quindi il lavoro non era un momento risocializzante ed educativo, ma un obbligo imposto

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dall’istituto); i detenuti avevano la catena al piede che limitava i loro movimenti, e non erano identificati neppure con il proprio nome, ma semplicemente con un numero di matricola, quasi a voler operare una vera e propria spersonalizzazione dei soggetti. Solo nel secondo decennio del secolo scorso cominciano i primi cambiamenti, anche se sono più dettati dall’esigenza di adottare strumenti più efficienti che dalla loro intrinseca disumanità. Comunque il passo forse più incisivo e radicale è compiuto nel 1922 quando questa branca del diritto passa dal Ministero degli interni al Ministero di Grazia e Giustizia, che è tutt’altro che un mero passaggio di insegne: il “procedimento” detentivo (dal momento di internamento in un istituto di pena, alla esecuzione della detenzione e alla successiva liberazione) comincia a perdere i connotati di un procedimento amministrativo per acquisire, via via in modo sempre più marcato nel tempo, un carattere di giurisdizionalità, che permette quindi di cominciare a parlare di “diritto penitenziario” non solo come una branca del diritto (in senso oggettivo) che si occupa della esecuzione della pena detentiva, ma anche come un insieme di diritti (intesi in senso soggettivo) che spettano ai soggetti nei confronti dei quali la pena viene applicata, i quali mantengono una propria identità, dei propri diritti (oltre ovviamente ai doveri) e l’interesse

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meritevole di tutela di ricevere dall’ordinamento ogni tipo di strumento utile alla sua rieducazione.

Proprio da questo passaggio di impostazione si intuisce la portata dirompente della Costituzione del 1948, la quale, prevedendo che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, impone una visione del tutto mutata rispetto agli anni precedenti.

2. Il regime fascista e il regolamento Rocco del 1930.

Con R.D n° 828 del 5 aprile 1928 la Direzione generale delle carceri e dei riformatori assunse la nuova denominazione di direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena.

Passo importante si ha 2 anni dopo il R.D. con la creazione del nuovo codice penale “Codice Rocco” e nel 1931 del nuovo codice di procedura penale.

Con R.D. n° 787 del 18 giugno 1931 venne approvato, dal Guardasigilli Alfredo Rocco, il nuovo “regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena”, che rimarrà in vigore fino al subentro della legge 354/1975 (legge dell’ordinamento penitenziario).

Il nuovo regolamento è ancora troppo lontano dalle nostre concezioni, tant’è che il detenuto in quell’epoca veniva chiamato con il numero di matricola, facendo notare come la personalità

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fisica e morale del reo era qualcosa di inesistente, addirittura schedare i detenuti attraverso un numero era un obbligo imposto all’amministrazione penitenziaria.

Vi era una rigida separazione tra il mondo carcerario e la realtà sociale: tale concezione si nota anche da come i colloqui con i parenti avvenivano, ovvero tra reti metalliche distanziate e sotto l’ascolto delle guardie penitenziarie, quasi a volersi limitare, oltre che al normale contatto con la persona, anche la visibilità con il parente stesso.

Quindi la parola “rigido”, quella che oggi si trova prevalentemente nei casi di regimi di rigore, durante il periodo del 1930 era alla base dell’istituto carcerario ordinario, in cui si definiva il carcere come istituzione chiusa ( ). 1

Come tutti i regolamenti carcerari, anch’esso era basato sulla dualità della pena intesa come punizione e premio ed elencava dettagliatamente la conseguenza a tutto ciò che non veniva rispettato. Erano vietati e puniti : i reclami collettivi, l’uso di parole blasfeme, i giochi, il possesso di carte da gioco, i canti, il riposo in branda durante il giorno non giustificato da malattie, il rifiuto di presentarsi alle funzioni religiose, il possesso di matite e di giornali a carattere politico, ed era consentito scrivere non più di 2 lettere alla settimana ai familiari stretti, ma non alla

NEPPI MODONA G., Vecchio e nuovo nella riforma dell’ordinamento 1

penitenziario in Carcere e società a cura di M. Cappelletto e A. Lombroso,

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stessa persona, insomma, un immagine di quello che oggi sembrerebbe il nostro carcere duro.

I detenuti erano obbligati ad indossare le divise del carcere (i condannati definitivi avevano vestiti a strisce), dovevano farsi trovare in piedi vicino alla branda quando la guardie entravano nella cella per la conta delle matricole, quindi il detenuto era trattato come se fosse una “macchina” e vedeva scandirsi orari determinati dall’istituto stesso, non solo per attività vere e proprie, ma anche per dormire,l’unico vero mezzo per far passare le giornate all’interno del carcere.

Le punizioni, quelle che oggi sono le c.d sanzioni disciplinari consistevano nel divieto di lavarsi, di radersi, dell’impossibilità di colloqui; addirittura, l’istituto carcerario poteva utilizzare nei confronti del detenuto indisciplinato la camicia di forza o il letto di contenzione, rimedi tipicamente usati nei manicomi per evitare conseguenze dannose verso l’istituto e altri soggetti. Al contrario, i benefici di cui i detenuti potevano godere durante la detenzione erano molto meno dettagliati e si riducevano in sostanza nella possibilità (quasi fosse un premio da meritare) di svolgere una attività lavorativa all’interno del carcere.

Il detenuto durante tutta la sua vita carceraria era sotto controllo, vigilato, schedato come un vero e proprio malato, tant’è che nei suoi confronti veniva creata una “cartella

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biografica” dove venivano indicati e raccolti non solo dati a lui riferibili come comportamenti all’interno dell’istituto, precedenti penali, ma anche eventuali precedenti della famiglia ovvero casi di alcolismo, sifilide, suicidi, prostituzione segnalando anche le condizioni economiche e soprattuto le idee politiche di ogni parente.( ) 2

Importante innovazione portata da Rocco, oltre al codice penale, è stata la creazione del Magistrato di sorveglianza con questa importantissima figura si è compiuto un passo verso la giurisdizionalizzazione di un sistema che prima era basato su principi tipici dell’amministrazione, nonostante questo, la tutela che sembra affacciarsi per la prima volta sull’orizzonte di un soggetto fino a questo momento relegato ai margini della società e quindi anche della disciplina, è puramente formale, quasi vuota, perché il magistrato di sorveglianza svolge il suo lavoro attraverso ordini di servizio, un atto di carattere tipicamente amministrativo.


Successivamente la legge 29 novembre 1941, n° 1405 introdusse il nuovo ordinamento delle carceri mandamentali ( ) 3

distinguendole in due categorie: vi erano le carceri di tipo A istituite nei piccoli centri giudiziari, le quali avevano una ridotta

www.tmcrew.org/detenuti/carcere2.htm 2

ERRA, Carceri, in Enciclopedia del diritto, vol. VI, 1960, pag. 295 - 300. 3

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capienza, e quelle di tipo B che invece erano istituite nei mandamenti, considerate più sicure e capienti rispetto alle altre.
 Vi erano numerose differenze perché nelle carceri giudiziarie centrali il direttore era un funzionario della carriera direttiva dell’amministrazione penitenziaria, mentre nelle mandamentali il direttore è il pretore, cosi come nelle carceri centrali gli agenti di custodia sono dipendenti dal Ministero di grazia e giustizia nelle mandamentali sono custodi e guardine dipendenti dai Comuni. Diversa è anche la gestione delle spese per l’amministrazione dei servizi carcerari, solitamente a carico dello Stato.

La conduzione del carcere, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, fu la stessa di quella in vigore in epoca fascista governata dal regolamento penitenziario del 1931, con la liberazione si constata l’assenza di qualsiasi riforma delle strutture penitenziarie ereditate dal regime fascista e ancora una volta la loro impermeabilità alle vicende della società libera. Iniziò un periodo di crisi globale degli istituti carcerari, le tensioni scaturivano sia dal peggioramento delle condizioni carcerarie, sia dalla delusione di chi sperava in un cambiamento dopo la liberazione (gravi tensioni provocò l’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 che condonò numerosi crimini fascisti). Questo breve arco di tempo è caratterizzato da alcune tra le più

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clamorose rivolte della storia carceraria italiana, una tra queste, la più grave, è quella avvenuta a San Vittore nel 21 aprile del 1946, in cui i detenuti, capeggiati dall’ex milite della Muti e famigerato bandito Enzo Barbieri e dall’ex gerarca Caradonna si impadronirono di tutto il carcere, tenendo prigionieri venticinque ostaggi e armati di mitra e bombe a mano iniziarono un vero scontro sanguinoso con le forze dell’ordine, sedato poi successivamente attraverso compromessi tra questore dell’istituto e i rivoltosi, un atteggiamento criticato dalla federazione comunista milanese. Il 24 aprile i reparti dell’esercito e della polizia (si parla di mille uomini), circondarono San Vittore e con l’ordine del Ministero dell’interno iniziarono a sedare la rivolta di 3400 detenuti, che finì con l’arresa dei rivoltosi e con un bilancio di vittime pari a 8 morti e 60 feriti tra detenuti e forse dell’ordine.

La prima riforma del dopo guerra fu quella avvenuta con la relazione proposta dalla Commissione presieduta dal senatore Giovanni Persico del 1950 dove si affrontavano diversi temi inerenti ai problemi dell’intera istituzione carceraria.

La relazione della Commissione propose l’abolizione dell’isolamento diurno, l’introduzione della musica tra i mezzi rieducativi, il potenziamento del lavoro agricolo, l’abolizione del taglio dei capelli, la facoltà di chiedere e acquistare libri,

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l’abolizione del sistema di chiamare i detenuti con il numero di matricola, e altre innovazioni umanizzanti. Ma si trattava di ritocchi marginali, che ammorbidirono il sistema, lasciandone intatte le strutture portanti e continuando a isolare il carcere dalla società civile .


Il ministero, a questo punto attraverso piccoli passi, in maniera sperimentale, mediante circolari, introdusse alcune modifiche al regolamento Rocco dove si trovò finalmente attuazione nel 1951 delle proposte fatte dalla Commissione del 50.

Vi furono cambiamenti inerenti ai colloqui, la possibilità di leggere e scrivere, l’abolizione del taglio dei capelli e dell’uniforme, venne anche disposto che tutti i detenuti fossero chiamati con nome e cognome. Attraverso queste prime piccole riforme, che sembrano cambiamenti del tutto marginali, rivestono una importanza non da poco, poiché rendono visibile forse per la prima volta qualcosa che poi sarà al centro di tutto le modifiche legislative al sistema penitenziario successive: la consapevolezza che il detenuto non è solo un soggetto da punire perché ha tenuto un comportamento antigiuridico, ma anche e forse prima di tutto una “persona”, che, anche se ristretto nella sua libertà personale, ha diritto a mantenere tutti i diritti fondamentali riconosciuti alla persona, a prescindere dal suo status.

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Fu un primo movimento di apertura, che venne subito bloccato dalle riforme conservatrici che mise in atto il guardasigilli De Pietro nel 1954, una parentesi quella di De pietro che rese infruttuosi gli esiti del progetto preparato dalla commissione ministeriale del 1948. Un ideologia quella della Commissione che venne ripresa nel 1960, in cui si introdusse per la prima volta, grazie al guardasigilli Gonella, un disegno di legge sull’ordinamento penitenziario con il fine di adeguare il sistema penitenziario italiano ai principi stabiliti dalle Regole minime dell’ONU (1955) e introducendo il criterio di individualizzazione del trattamento rieducativo basato sull’osservazione della personalità del detenuto, quello di cui oggi si tratta all’art. 13 della legge 354/1975 definita come “legge dell’ordinamento penitenziario”. Vennero progettate figure nuove come educatori e centri del servizio sociale, introducendo anche il regime di “semilibertà”.

Questo fu un disegno di legge che incontrò non poche difficoltà, infatti decaduto nel 1963, più volte ripreso e rielaborato, ripresentato dallo stesso Gonella all’inizio del 1972 e posto all’esame della commissione giustizia della camera, ma senza successo perché ormai la prassi di quegli anni, era quella di far decadere tutte le proposte ad ogni fine legislatura, tant’è che

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bisogna attendere il 1975 per una vera riforma sia strutturale che di pensiero dell’intero ordinamento penitenziario.

3. La legge dell’ordinamento penitenziario 354/1975.

La legge 26 luglio 1975 n° 354 intitolata “ Norme sull’Ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà” segna un fatto nuovo e di assoluta importanza nella storia penitenziaria italiana, in cui si nota che, per la prima volta tutto ciò che riguarda mezzi e aspetti limitativi della libertà personale, veniva regolato tramite legge formale, ovvero atto emanato dal potere legislativo, quindi molto diverso rispetto a regime poco tempo addietro, dove tutto era regolato dal regolamento rocco del 1931 emesso nell’ambito del potere esecutivo, le cui disposizioni avevano carattere organizzativo ed esecutivo.

Secondo Di Gennaro, l’aver fatto uso della legge formale per regolamentare la materia e l’organizzazione penitenziaria, è dovuto a tre fondamentali ragioni che vanno di pari passo: da una parte vi è il riconoscimento dell’accresciuta importanza degli istituti, visti come luogo di custodia e di recupero sociale degli autori del reato; dall’altra parte si sente la necessità di riservare alla legge le materie che coinvolgono il riconoscimento e la tutela dei diritti soggettivi in coerenza con i nostri principi

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dell’ordinamento giuridico; in fine c’è la volontà di accentrare intorno al nucleo della condizione penitenziaria, una serie di istituti del tutto nuovi, derivanti da altre branche della legislazione precedente che, secondo la nostra dottrina, rientravano nella sfera del diritto penale sostanziale e processuale, come ad esempio le misure alternative alla detenzione.( ) 4

Questa legge rivoluzionaria, fissa determinati principi qualificanti, come l’introduzione del principio della qualificazione del trattamento, dove all’art. 1 della legge si stabilisce che il trattamento deve essere conforme alla tutela della dignità umana e della salvaguardia dei diritti di coloro che , subiscono come conseguenza al loro comportamento la limitazione della libertà personale. Viene inoltre riconosciuta la necessità di determinare, attraverso il centro di osservazione scientifica enunciato dall’art. 30 della legge definito come un istituto in cui viene effettuato da parte del magistrato di sorveglianza, un controllo sulla personalità e pericolosità del reo, in modo da poter individualizzare un adeguato trattamento, al fine di ottenere con l’espiazione della pena, il risultato migliore sullo status deviante del detenuto, portandolo cosi a un totale recupero personale e un totale reinserimento nella società.

DI GIOVANNI, Il nuovo ordinamento penitenziario, 1982, pag. 68. 4

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La norma appena citata offre una ottima spiegazione di ciò che significa il principio costituzionale di pena rieducativa: all’art. 27 della Carta Costituzionale si prevede che, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il significato che si attribuisce alla rieducazione è quello di reinserimento sociale del condannato all’interno della società, perché chi commette un reato è un soggetto emarginato, senza posizioni all’interno della società. Da qui si è posto il problema di reati commessi da particolari soggetti, ovvero i c.d reati economici dei colletti bianchi, che essendo soggetti sicuramente integrati all’interno società, a differenza di altri criminali, delinquono usufruendo della propria posizione di rilievo e allora, a questo punto non si può più parlare di reinserimento sociale, perché essi come già citato, sono gia inseriti nei migliori dei modi all’intero della società.

Bisogna quindi effettuare un allargamento della concezione rieducativa, con riferimento ai concetti finalistici della pena: da una parte quello di “general prevenzione” che da un valore univoco, generale, eterodirezionale alla pena, intesa come rimedio preventivo alla configurazione di reati da parte della collettività, o meglio una pena che si configura come minaccia

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verso i consociati, volta a scongiurare la commissione di reati da parte di altri soggetti.

Dall’altra parte abbiamo la “special prevenzione” riferita in questo caso a quei soggetti insensibili difronte alla prevenzione generale e che commettono, senza alcun ritegno e senza alcuna paura della pena come minaccia, il reato.

Ritornando alle novità importate dalla legge del 75, c’è da dire che, tutto ciò che è stato raccolto attraverso il centro di osservazione scientifica, viene inserito nella cartella personale del detenuto: da notare il cambiamento non solo terminologico, da cartella clinica a cartella personale, dovuto proprio al riconoscimento effettivo per la prima volta nella storia dei diritti dei detenuti, ma anche quello di parlare di umanità all’interno delle mura dell’istituto carcerario. Questi tipi di attività sono inseriti nella legge all’art. 69 comma IV dove si formula l’approvazione del programma rieducativo da imporre al reo tra le competenze del magistrato di sorveglianza.

Ai cambiamenti organizzativi e strutturali, come l’introduzione del Magistrato di sorveglianza e del Tribunale di sorveglianza, si accompagna la c.d giurisdizionalizzazione avvenuta durante questa riforma, visto che viene meno quel carattere centrale che aveva in passato l’amministrazione, scremato via via, in primis con il codice Rocco che ha introdotto il Magistrato di

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sorveglianza che aveva però sempre funzioni di carattere amministrativo, per poi arrivare alla metà degli anni 70 con l’assoluta acquisizione da parte del Magistrato di sorveglianza di v e r i p o t e r i g i u d i z i a r i c o m e c o n t r o l l o e v i g i l a n z a sull’organizzazione degli istituti penitenziari, potere di sovrintendere sulle misure di sicurezza personali, provvedere al riesame della pericolosità del detenuto e di decidere con ordinanza, impugnabile solo per cassazione, su permessi e licenze ai detenuti in base alle loro condotte all’interno dell’istituto, alle modifiche d’apportare all’affidamento in prova determinato dal tribunale di sorveglianza e alla connessione della liberazione anticipata (art.69 o.p.). Accanto al Magistrato di sorveglianza vi è stata anche l’introduzione del Tribunale di Sorveglianza, istituto composto da magistrati di sorveglianza ed esperti in materie rilevanti all’interno degli istituti penitenziari come quelle criminologica e psicologica. Il tribunale decide su gran parte delle misure alternative da concedere al detenuto in base al suo positivo comportamento intramurario ed è competente in secondo grado sui reclami effettuati sulla revoca dei permessi da parte del magistrato di sorveglianza sul detenuto che nn ha rispettato le prescrizioni imposte (art. 70 o.p). Queste misure alternative introdotte con tale legge del 75 , realizzano, in sede di esecuzione penitenziaria, la necessaria

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distinzione tra i diversi tipi di delinquenza che il precedente sistema comprendeva in un solo eguale regime di trattamento. Tali misure come, affidamento al servizio sociale, semilibertà, liberazione anticipata, vengono a concertare una “strategia differenziata“ che tiene conto delle profonde differenze che sussistono difronte ai vari tipi di devianza, che portano l’individuo a delinquere richiedendo così, pertanto, un diverso trattamento, sempre tenendo presente della volontà, e della parziale rieducazione avvenuta prima di concedere le misure, all’interno dell’istituto.( ) 5

La legge dell’ordinamento penitenziario oltre a queste importanti novità, crea anche una nuova disciplina riferita al lavoro carcerario, riconoscendo grande importanza all’attività svolta dai detenuti all’interno dell’istituto di pena, stabilendo che il compenso del detenuto lavoratore non può essere inferiore ai 2/3 del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro, con corresponsione degli assegni familiari per le persone a carico, garantendo anche una tutela assicurativa e previdenziale del lavoratore.

S u c c e s s i v a m e n t e a l l ’ e n t r a t a i n v i g o r e d e l l a l e g g e dell’ordinamento penitenziario del ’75, veniva approvato il 29 aprile 1976, con decreto del Presidente della Repubblica, il

DI GIOVANNI, Il nuovo ordinamento penitenziario, 1982, pag. 78. 5

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relativo regolamento d’esecuzione che entrava in vigore nel 22 giugno 1976.

Esso contiene una serie di disposizioni volte a disciplinare, nella maniera più efficace possibile le materie per le quali la legge determina linee guida essenziali e criteri direttivi.

Per quanto riguarda la materia disciplinare la legge si limita esporre i criteri direttivi per adoperare ricompense in caso di buona condotta e sanzioni disciplinari in caso di resistenza, invece il regolamento di esecuzione indica in maniera più dettagliata quali sono le ricompense concepibili e quali le infrazioni disciplinari, nonché le varie procedure per attivare tali conseguenze. Questo carattere più dettagliato si nota anche dalla diversa articolazione che hanno i due tipi di fonti.

La legge 354 del ’75 si compone di 91 articoli suddivisi in 2 titoli: il primo riguardante il trattamento penitenziario (art. 1-58) e il secondo riguardante l’organizzazione penitenziari (art. 59-91). Ad essa sono allegate quattro tabelle contenenti l’indicazione delle sedi e delle giurisdizioni degli uffici di sorveglianza (tribunale e magistrato di sorveglianza), il ruolo organico della carriera direttiva degli assistenti sociali, categoria nuova inserita proprio con tale legge insieme agli educatori per adulti.

Il regolamento esecutivo della legge invece è formato da 125 articoli divisi in tre parti, dove la prima parte è la più corposa,

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c o m p o s t a d a b e n 1 0 7 a r t i c o l i c h e a n a l i z z a n o p i ù dettagliatamente il trattamento dei detenuti all’interno dell’istituto e la sua organizzazione, rispettando la conformità ai principi di umanità, di rispetto della dignità personale, nonché di ordine e di disciplina sanciti dal rispettivo art. 1 della legge 354 del ’75. La seconda parte che va dall’art. 108 al 118 analizza l’amministrazione e la contabilità della Cassa delle Ammende; la terza parte invece che arriva fino all’ultimo articolo 125 contiene le disposizioni finali e transitorie del regolamento.

4. La legge Gozzini 663/1986.

La riforma dell’ordinamento penitenziario varata con legge 354/1975 ha subito, durante il passare del tempo, con vicende e avvenimenti di rilievo, varie modifiche iniziate con la legge del 12 gennaio 1977 e la legge n° 297 del 21 giugno 1985 che ha introdotto l’art. 47 bis definendo l’affidamento in prova in casi particolari.

Finché non si arriva alla legge Gozzini dell’86 si è trattato solo però di interventi parziali e limitati, aventi nella maggior parte dei casi, carattere di aggiustamenti e pertanto inadeguati a risolvere problemi della vita penitenziaria, sia riferendosi a quelli gia esistenti a livello strutturale, sia a quelli nascenti con la concatenazione di fatti traumatici come il terrorismo e la

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criminalità organizzata, che in concreto hanno bloccato la forza innovatrice della legge dell’ordinamento penitenziario.

L’entrata in vigore della legge Gozzini che ha per titolo “modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla

esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” ha

dato via ad una profonda e rivoluzionaria modifica dell’ordinamento penitenziario introducendo coraggiose soluzioni per l’attuazione del dettato costituzionale relativo ai caratteri e alle funzioni della pena nel nostro ordinamento. Le linee fondamentali della nuova disciplina sono importanti, e hanno portato grandi novità sull’intero regime penitenziario, riconoscendo la necessità di una sorveglianza particolare nei confronti di alcune categorie di detenuti identificati come pericolosi per le esigenze di ordine e sicurezza, introducendo così un istituto sconosciuto all’ordinamento preesistente definito come “regime di sorveglianza particolare”( ). 6

Il progetto Gozzini prevedeva all’art. 1, l’inserimento di tre nuovi articoli all’interno della legge 354/1975, concernenti la disciplina delle carceri a maggior indice di sicurezza, quindi dopo l’art. 14 dell’ordinamento penitenziario, riguardante l’assegnazione, il raggruppamento, le categorie di detenuti e di internati, si prevedeva di inserire l’art. 14 bis che aspirava a tipizzare i casi in

DI GIOVANNI, Il nuovo ordinamento penitenziario, 1982. 6

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cui il Ministro, poteva disporre il trasferimento di alcuni detenuti presso delle carceri di “massima sicurezza” quando si verificavano casi in cui il detenuto aveva comportamenti incompatibili con le esigenze di ordine, disciplina, sicurezza ovvero comportamenti contrastanti con l’attuazione del trattamento rieducativo. Per il trasferimento non si sarebbe fatto solo riferimento al comportamento tenuto all’interno del carcere, ma anche alle condizioni personali e soggettive del detenuto che dimostrava un elevato grado di pericolosità: detenuti che avevano commesso reati in carcere come per esempio l’evasione; soggetti che avevano subito la reiterata irrogazione delle sanzioni disciplinari di isolamento diurno e notturno e dell’esclusione dell’attività comune; soggetti che acquisivano nell’ambiente carcerario una posizione di preminenza sugli altri detenuti; soggetti che conservavano collegamenti con il crimine organizzato all’esterno del carcere e infine detenuti che esaltavano la criminalità diretta a sovvertire l’ordine costituzionale.

Avveniva con la legge Gozzini l’inserimento anche dell’art. 14 ter, che fissava ad un anno la durata del provvedimento imposto tramite l’applicazione dell’art. 14 bis, stabilendo che alla scadenza il Ministro doveva riesaminare il caso su parere del consiglio di disciplina, dando comunicazione di tutto ciò

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all’interessato. Poteva essere disposto un provvedimento di proroga, che doveva essere non superiore a sei mesi e poteva essere sottoposto a controllo da parte del Magistrato di Sorveglianza. A susseguire l’art. 14 ter ci fu il 14 quater che i n d i v i d u a v a n e l l a p r e v e n z i o n e e n e l s u p e r a m e n t o dell’incompatibilità del soggetto con le regole del trattamento, dell’ordine e della disciplina, le finalità delle carceri di massima sicurezza. Tale articolo indicava anche le misure di sicurezza e di controllo che dovevano essere adottate all’interno delle carceri speciali: la limitazione del peculio messo a disposizione dei detenuti; il controllo sulla corrispondenza e la limitazione dei colloqui telefonici e visivi; la sospensione della partecipazione dei detenuti alla preparazione del vitto, alla gestione della biblioteca, all’organizzazione delle attività culturali, ricreative e sportive.

Queste restrizioni avevano il fine di limitare, alla luce di sintomi, possibili comportamenti futuri finalizzati a pregiudicare sicurezza e ordine, infatti il denaro costituisce strumento di preminenza e vantaggio sugli altri detenuti, così come la limitazione dei colloqui andava a spezzare i collegamenti criminali fra carcere e realtà esterna ed invece la limitazione alle attività interne era una semplice prevenzione alla commissione di eventuali attività criminose.

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Con l’art. 3 della legge Gozzini si va ad abrogare l’art. 90 dell’ordinamento penitenziario, che a quelle stesse esigenze di ordine e sicurezza, era servito per rispondere in modo indistinto ed incontrollabile, introducendo l’art. 41 bis, e ribattezzando in maniera simile quello che era l’inciso del vecchio art. 90, rendendone cosi, almeno in apparenza, poco utile l’inserimento di un nuovo articolo. Si nota però come dai “gravi motivi di ordine e sicurezza”, cui si riferiva l’art. 90 o.p., si passa nel delineare i presupposti del decreto di sospensione, all’indicazione di “casi eccezioni di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza”, una formula certo più connotata in termini di consistenza obbiettiva. Per quanto riguarda il limite temporale stabilito per l’efficacia del provvedimento sospensivo corrisponde, nel nuovo art. 41 bis a quello del vecchio art. 90: un “periodo determinato, strettamente necessario” di fronte all’attuale “durata strettamente necessaria” per ristabilire l’ordine e la sicurezza.( ) 7

Oltre a questi primi interventi volti a inserire importanti articoli all’interno della legge dell’ordinamento penitenziario, improntati più sull’inserimento innovativo di un regime di sorveglianza ad hoc per detenuti pericolosi, altri interventi furono effettuati sull’ampliamento della possibilità di adottare

GREVI, L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza: (1986-93), 7

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misure alternative: vengono introdotti i c.d permessi premio, che, ai sensi dell’art. 30 ter o.p. danno la possibilità al condannato di uscire dal carcere per un tempo non superiore a quarantacinque giorni all’anno mediante un provvedimento del Magistrato di sorveglianza. Per l'applicabilità di questa misura è richiesto che il reo sia stato condannato a meno di tre anni di detenzione, o a più di tre anni, ma ne abbia scontati almeno un quarto, oppure che abbia scontato almeno 10 anni se condannato all’ergastolo.

Vi è anche l’affidamento al servizio sociale disciplinato dall’art. 47 o.p. con cui il detenuto condannato a meno di tre anni di detenzione può subire alcune limitazioni alla sua libertà di circolazione o alle sue frequentazioni, essendo però inserito in un programma di riabilitazione che prevede fra le altre cose l'inserimento del mondo del lavoro e la disintossicazione da eventuali dipendenze; introduce l’art. 47 ter che disciplina la detenzione domiciliare applicabile quando restano non oltre due anni di reclusione da scontare (in alcuni casi anche di più), o quando la condanna è limitata all'arresto di qualsiasi durata. La legge prevede di scontare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di dimora, anche pubblico. Questo beneficio si può ottenere nei casi in cui il soggetto detenuto è una donna incinta o che allatta la propria prole ovvero madre di prole di età

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inferiore a tre anni con lei convivente, quando la persona è in condizioni di salute particolarmente gravi che richiedono costanti contatti con i presidi sanitari territoriali, quando il detenuto è di età superiore a 60 anni, se inabile anche parzialmente, quando si tratta di soggetto di età minore a 21 anni per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.

Altra misura disciplinata dalla legge Gozzini è la semilibertà, che può essere attuata se non si è affidati ai servizi sociali e per una pena detentiva non superiore ai sei mesi, ciò consiste nella concessione al beneficiario di passare parte della giornata all'esterno dell'istituto per svolgere attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. In caso di condanna all'ergastolo il carcerato deve aver scontato almeno 20 anni in carcere. Introduce delle modifiche inerenti alle condizioni oggettive per aderire alla libertà condizionale per quanto riguarda l’ergastolo, prevedendola possibile per l’ergastolo solo dopo l’espiazione di 26 anni di pena.

Quindi la legge Gozzini porta importanti novità all’interno dell’ordinamento penitenziario, volte a chiarire e a disciplinare il detenuto particolare, pericoloso che ha un comportamento inadeguato all’interno dell’istituto penitenziario e anche un rapporto inidoneo, con il programma rieducativo, nei confronti

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della realtà sociale, facendo strettamente riferimento a quei detenuti che hanno commesso reati di criminalità organizzata o associazione a delinquere. Novità che risultano importanti proprio per andare a inquadrare e delineare nei migliori dei modi, quello che sarà il nucleo del secondo capitolo , il “regime di sorveglianza particolare”.

5. Regolamento 230/2000.

Il regolamento esecutivo 230 del 2000 tratta al suo interno, sempre a riguardo del trattamento dei detenuti, all’art 30 dell’assegnazione dei detenuti all’interno degli istituti, indicando che i condannati, all’inizio dell’esecuzione della pena, sono provvisoriamente assegnati in uno istituto destinato all’esecuzione della pena e situato nella regione di residenza del reo. All’interno dell’istituto provvisorio vengono attuate le attività enunciate dall’art. 13 della legge dell’ordinamento penitenziario inerenti all’individualizzazione del trattamento che, una volta eseguite, pongono le basi per assegnare in maniera definita il detenuto ad un determinato istituto.

L’articolo successivo ovvero l’art. 31 del dPR 230/2000, enuncia il raggruppamento nelle sezioni, richiamando l’applicazione dell’art. 14 dell’ordinamento penitenziario (assegnazioni, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati ) : “gli

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istituti penitenziari, al fine di attuare la distribuzione dei condannati e degli internati, secondo i criteri indicati nel secondo comma dell’art. 14 della legge, sono organizzati in modo da realizzare nel loro interno suddivisioni in sezioni che consentano raggruppamenti limitati di soggetti.

Gli imputati che non sono sottoposti all'isolamento previsto dal n. 3) del primo comma dell’art. 33 della legge, sono assegnati alle varie sezioni nelle quali l'istituto di custodia cautelare è suddiviso, in considerazione della loro età, di precedenti esperienze penitenziarie, della natura colposa o dolosa del reato ascritto e della indole dello stesso.

Importante è anche l’art. 32 del dPR 230/2000 (Assegnazioni e raggruppamenti per motivi cautelari) che prende in oggetto detenuti particolarmente pericolosi ed enuncia che: ”i detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le suddette cautele.

La permanenza dei motivi cautelari viene verificata semestralmente.

Si cura, inoltre, la collocazione più idonea di quei detenuti ed internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni. Sono anche utilizzate

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apposite sezioni a tal fine, ma la assegnazione presso le stesse deve essere frequentemente riesaminata nei confronti delle singole persone per verificare il permanere delle ragioni della separazione delle stesse dalla comunità”.

Infine l’art. 33 del dPR 230/2000 che tratta del regime di sorveglianza particolare richiamando ed analizzando l’art. 14 bis della legge 354/1975 che affronteremo nel secondo capitolo, andando ad approfondire e chiarire la posizione di questi tipi particolari di detenuti.

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CAPITOLO SECONDO I CIRCUITI PENITENZIARI

1. Introduzione.

Nelle carceri italiane vi è una forte eterogeneità della popolazione carceraria, che deve essere fronteggiata attraverso strumenti predisposti dall’ordinamento in grado di raggruppare i detenuti in base a criteri distributivi razionali.

Tale necessità è ancora più visibile se andiamo non solo a considerare le esigenze di sicurezza, ordine e disciplina all’interno dell’istituto carcerario, ma anche quelle di maggior efficienza del trattamento penitenziario: tutto il diritto penitenziario è incentrato sulla necessità di rieducare il soggetto, o meglio portare a termine quello che è un percorso rieducativo che deve avere effetti sulla personalità del detenuto, quindi dando uno sguardo a qualcosa che va al di la dell’aspetto, cambiamento esteriori del soggetto, anche perché al concetto di rieducazione si affianca, il fine di un miglior reinserimento del soggetto nella reale società; se tanto è vero, è chiaro anche come sia fondamentale differenziare il trattamento del detenuto in base a una serie di criteri come la pericolosità, il tipo di reato

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commesso e il sesso e dare spazio a quello che è il processo di “osservazione scientifica”.

Nel nostro Paese, lo scopo appena delineato è stato perseguito attraverso la predisposizione di un sistema carcerario fondato su circuiti di sicurezza diversificati tra loro in base al grado di restrizioni imposte al detenuto che trova la propria ragion d’essere nel generico riferimento all’ individualizzazione del trattamento contenuta nell’art. 13 o.p, il quale è configurabile come una norma di principio che manca di un contenuto pratico. Occorre precisare che parlare di circuito penitenziario non significa solo classificare i soggetti all’interno della struttura penitenziaria in base al tipo di reato commesso, perché si ha una duplice concezione di “circuito”: una di stampo soggettivo, che si riferisce, appunto al circuito come strumento di classificazione dei detenuti in base ai reati commessi; una di stampo organizzativo, da intendersi come l’organizzazione che quel determinato istituto penitenziario vuole attuare; ad esempio un istituto potrebbe preferire inserire nella propria struttura un polo scolastico, oppure un reparto dedicato a detenuti soggetti a HIV di livello intermedio (vedasi il carcere di Pisa), o ancora centri di prima accoglienza o per minorati fisici.

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2. Il trattamento penitenziario ex art. 13 o.p.

La materia dei circuiti penitenziari è polarizzata quindi, attorno alle norme di cui agli artt. 13 e 14 o.p. le quali prevedono che la popolazione carceraria possa essere raggruppata per categorie omogenee in base a un’attività valutativa/discrezionale dell’amministrazione penitenziaria medesima.

In particolare l’art. 13, comma primo o.p. recita: “Il trattamento

penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della

personalità di ciascun soggetto.” Tale disposizione crea non

pochi dubbi all’interprete che si interroga su quale sia il significato specifico della parola “trattamento” poiché solamente sulla base delle nome della legge penitenziaria non si ricava una definizione soddisfacente.

Dubbio non è invece il valore generale assunto dalla locuzione “trattamento penitenziario” all’interno del primo comma dell’art. 13 o.p che si riferisce sia al trattamento rieducativo dei condannati e degli internati in istituto, sia al trattamento degli imputati. I commi successi sono indirizzati specificatamente ai condannati e internati anche se alcune disposizione come quella dell’ultimo comma, nella parte di riferimento alla collaborazione del soggetto al trattamento, dettano criteri utilizzati analogicamente nei confronti dei non condannati.

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Detto ciò resta il fatto che il contenuto dell’art. 13 o.p. non illumina con chiarezza le finalità e la natura del trattamento “individualizzato” proprio per la difficoltà di operare una netta separazione tra trattamento in senso normativo, inteso come il complesso delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive spettanti al detenuto in dipendenza dello stato di detenzione, e quello in senso penitenziario-criminologico, ovvero l’insieme delle tecniche modificative della personalità del condannato finalizzate alla rieducazione e al reinserimento sociale.

Il problema degli scopi del trattamento rieducativo si intreccia col dibattito sulle finalità della pena detentiva, anche se le scelte del legislatore penitenziario si sono ormai sintonizzate sui canali della rieducazione e risocializzazione. Tale ultimo concetto non è neppure di semplice interpretazione poiché si potrebbe spaziare da una finalità di garantire solamente una condotta puramente esteriore del condannato, a un idea più “interiorizzata” nel senso che sia rivolto a un intervento che coinvolge la sfera più intima del condannato stesso.

A questo punto sorge spontanea la domanda se il detenuto possa autonomamente decidere di sottoporsi al trattamento penitenziario: sul piano normativo sembra incontrovertibile che la sottoposizione all’osservazione della personalità e al trattamento configuri un obbligo di fare per l’amministrazione e

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non come dovere per il detenuto. Su tale assetto è assestata anche la giurisprudenza di legittimità che ha ribadito l’importanza del consenso dell’interessato e la rinunciabilità al diritto di trattamento.

Sul piano fattuale, tuttavia, non può del pari dubitarsi della “coattività intrinseca nel trattamento”( ) divenuto sempre più 8

strumentale agli immediati vantaggi per il detenuto, il quale può godere di benefici e premi proprio in base al suo comportamento.

Come gia detto è lo stesso linguaggio del legislatore a portare “al massimo grado di indeterminatezza” la disciplina del trattamento individualizzato. Questo è rivolto a promuovere, nei confronti dei condannati e internati, un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo alla partecipazione sociale (secondo comma dell’art. 1 del Reg. esecutivo), in modo da raggiungere il c.d obbiettivo finale inteso come il “reinserimento sociale degli stessi” (sesto comma dell’art. 1 o.p).

Il “metodo” attraverso cui raggiungere questo obiettivo è identificato proprio dall’art. 13 o.p., il quale scandisce il tema del trattamento in base a tre step: quello di partenza è rappresentato dalle carenze del soggetto e dalle cause del disadattamento

DELLA CASA, GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, 2015, 8

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sociale, quello di arrivo è costituito dal reinserimento sociale. Il terzo punto, che funge da tramite fra i due apici, è formato dall’osservazione scientifica della personalità e dalla conseguente offerta di interventi, ovvero il fulcro dell’art. 13 o.p.

3. L’osservazione scientifica come strumento di smistamento dei detenuti.

Le modalità attraverso cui realizzare l’osservazione scientifica della personalità prevista dall’art. 13, comma II o.p., che come anticipato permette di trasformare lo status personale del detenuto fino al reinserimento nella società, sono meglio precisate dall’art. 27, comma I Reg. esec.: ”l’osservazione

scientifica della personalità è diretta all'accertamento dei

bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze

fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di

pregiudizio all'instaurazione di una normale vita di relazione”.

Con questa definizione il regolamento sembra avere maggiore aderenza alla realtà rispetto a quanto non faccia la legge.

L’accertamento dei bisogni sarebbe sintomo dell’abbandono di qualunque approccio deterministico, laddove il minor interesse per il dato eziologico lascia spazio ad una rinnovata attenzione “per il modo in cui il soggetto ha vissuto e vive le sue esperienze”. ( Di Gennaro, Breda, La Greca, 92).

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E’ evidente una differenza terminologica tra le norme laddove nell’art. 27 Reg. esec. si fa riferimento ad “eventuali carenze” mentre nell’art. 13 o.p è come se si desse per scontata la necessità di procedere all’osservazione scientifica per rilevare carenze certamente esistenti.Dalla prima delle norme citate emerge come l’intervento trattamentale assolve, in questo caso, una funzione di puro sostegno nei confronti dell’autore del delitto che non riveli segni di disadattamento.( ) 9

L’osservazione è un continuum che segue l’individuo nel suo incessante variare nel tempo perchè l’art. 27 Reg. esec. distingue un momento iniziale (comma II) finalizzato a individuare gli elementi per disporre il trattamento individualizzato da compilarsi nel periodo di nove mesi; successivamente vi è una fase di aggiornamento nella quale il compito dell’osservazione ha la funzione di accertamento, attraverso l’esame del comportamento del soggetto e delle modificazioni verificatesi nella sua vita di relazione, delle nuove esigenze che richiedono una modifica del programma impartito in precedenza (comma III).

Importante obbligo è quello di mantenere la continuità tra osservazione e trattamento nel caso in cui si verifichi il trasferimento del detenuto da un istituto ad un altro. Questo fa

DAGA, Trattamento penitenziario, in Enciclopedia del diritto, vol. XLIV, 9

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notare come osservazione e trattamento proseguono di pari passo in quanto gli interventi trattamenti rilevano ai fini del comportamento e quest’ultimo per l’osservazione scientifica. Malgrado l’osservazione della personalità del condannato si qualificata dalla come “scientifica”, non deve necessariamente svolgersi attraverso specifici strumenti tecnici, potendo invece realizzarsi attraverso schemi liberi che permettano di instaurare un rapporto tra l’osservatore e l’osservato tale da realizzare un corretto canale di comunicazione tra i due. Certo è che viene attribuito un valore scientifico all’attività svolta nel momento in cui l’operatore, che ha raccolto i dati personali del detenuto nel modo che ha ritenuto più opportuno, è un soggetto con una preparazione professionale.

Il centro dove viene svolta l’osservazione scientifica di regola è presso gli stessi istituiti dove viene eseguita la pena e le misure di sicurezza, ciò significa che essa deve essere svolta nel luogo in cui si trova il detenuto, così si trae a conseguenza che i centri di osservazione di cui all’art. 63 o.p, svolgono un ruolo che “non è assorbente, ma solo integrativo”( ) dell’osservazione svolta dai 10

singoli istituti, anche se fino ad oggi non è stato ancora istituito nessuno centro di osservazione.

DI GENNARO, BONOMO, BREDA, Ordinamento penitenziario e misure 10

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Analizzando meglio l’ingresso del soggetto all’interno dell’istituto si evidenzia quella che è stata l’evoluzione dei diritti all’interno del carcere e l’evoluzione della considerazione del detenuto come un vero e proprio soggetto con i propri diritti e doveri, tanto è che al momento dell’arrivo in carcere viene consegnata a ciascun detenuto o internato la Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati, che ha anche il ruolo di mettere a conoscenza il soggetto del trattamento, dei benefici premiali e delle misure alternative alla detenzione.

Il gruppo di osservazione scientifica, non previsto dalla legge dell’ordinamento penitenziario, ma dal regolamento di esecuzione viene individuato col termine gergale “equipe” ed è quell’organo che svolge le verifiche, costantemente aggiornate, delle condizioni del detenuto, senza dimenticare l’importante incarico di compilazione del programma di trattamento.

L’equipe ha una composizione tassativa che vede in primo piano il Direttore il quale, con la sua esperienza professionale, assicura, sul piano dei contenuti, un’adeguata considerazione dei problemi che il soggetto incontra nell’adattamento alla situazione penitenziaria, mentre sul piano della metodologia, garantisce, la “leadership del lavoro di equipe”.

Ad affiancare il Direttore vi sono un educatore, il quale ai sensi dell’art. 82, comma II o.p. deve coordinare la propria attività con

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tutto il personale addetto alle attività rieducative, e un assistente sociale (art. 72 o.p.), ma il gruppo può essere integrato facoltativamente con altre figure importanti come lo psichiatra e il rappresentate della polizia penitenziaria che, con il loro rapporto con il detenuto, aiutano a capire nel migliore dei modi le esigenze del detenuto e di conseguenza ad intraprendere il programma più consono alla sua personalità. Preso in considerazione quanto detto sulla formazione di tale organo, si può definire l’equipe “una formazione pluriprofessionale che svolge i suoi interventi in un’ottica operativa integrata e secondo una metodologia che richiede una continuità e una stabilità del rapporto di collaborazione tra i vari membri che la compongono”.( ) 11

Le indicazioni generali previste per il trattamento confluiscono all’interno della cartella personale del detenuto cioè un documento che segue passo passo tutto quello che accade al soggetto durante l’esecuzione della pena. Oltre ad una parte strettamente formale, la cartella contiene anche una serie di notizie attestanti lo stato e l’evoluzione comportamentale del detenuto, che spaziano dai dati di carattere personale e giudiziario, alla copia del provvedimento che costituisce titolo di custodia (innovazione introdotta dall’art. 23 della legge n°332

DI GENNARO, LA GRECA, BREDA, Ordinamento penitenziario e misure 11

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08.08.1995 che ha aggiunto il comma 1 bis all’art. 94 disp. att. c.p.p), al giudizio espresso ai fini di riduzione di pena per la liberazione anticipata e ai rilievi generali in ordine al trattamento rieducativo.

Importante è precisare che questo tipo di documento non deve essere visto come una sorta di schedatura del detenuto, ma uno strumento tecnico indispensabile per fornire il necessario supporto documentale alle complesse operazioni trattamentali che richiedono un’importante possibilità di comunicazione di trasmissione, fra gli operatori, di dati che non siano vaghi e manchevoli.

Sottovalutata non deve essere l’efficacia garantistica che la stessa cartella detiene, visto che consente il controllo tecnico delle attività degli operatori. Tale strumento è talmente importante che l’art. 26 Reg. esec. prevede che essa debba seguire il detenuto anche nel caso sia sottoposto al trasferimento in altro istituto e che resti custodita nell’archivio dell’istituto precedente; per questo motivo è anche definito “documento itinerante”. Nella riunione, il gruppo di osservazione espleta una valutazione di base del comportamento tenuto dal detenuto che, in quanto finalizzato a imporre una programma di trattamento individualizzato, si incentra su diversi aspetti importanti come la comprensione del vissuto del soggetto, della percezione che

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attualmente egli ha della proprio situazione, delle sue intenzioni e della sua disponibilità nei confronti delle possibilità offerte dal sistema penitenziario. Effettuate queste valutazioni nei confronti del detenuto, viene impartito il programma, ma il lavoro svolto dall’equipe non si arresta alla predisposizione iniziale del programma, ma continua con riunione periodiche finalizzate ad esaminare sviluppi e reazioni del detenuto nei confronti del programma.

Una volta formulato, il programma deve essere approvato dal Magistrato di Sorveglianza che, qualora ravvisi nel programma stesso elementi che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell’internato, lo dovrà restituire, con osservazioni, al fine di una nuova formulazione (art. 69 comma V o.p). Importante è stata l’introduzione del nuovo reclamo giurisdizionale ex art 35 bis o.p da parte della legge n° 10 del 2014, che ha apportato delle modifiche all’art. 69 o.p prevedendo la possibilità di un giudizio di ottemperanza per i provvedimenti adottati dal Magistrato di sorveglianza, allargando, quanto meno sulla carta, l’area del controllo giurisdizionale sui provvedimenti e sulla mancata adozione degli stessi da parte dell’amministrazione penitenziaria.

A seguito della riunione da parte dei responsabili del programma, e con la formulazione dello stesso, avviene

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l’assegnazione definitiva del condannato ad un determinato istituto ( art. 30 comma 3-4 Reg. esec.).

A tal fine si ha riguardo alla corrispondenza tra le indicazione del trattamento contenute nel programma individualizzato e il tipo di trattamento organizzato dagli istituti ai sensi dell’art. 115 Reg. esec., il quale disciplina la “differenziazione degli istituti” rifacendosi ai criteri adottati dall’art. 14, comma II o.p inerente all’assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati, i quali fanno notare il passaggio dalla presenza eterogenea di soggetti all’interno dell’istituto all’accorpamento omogeneo di detenuti nelle singole sezioni. Da segnalare che “le disposizioni ricordate non trovano ancora riscontro nell’effettiva organizzazione degli istituti, dove i soggetti sono inseriti in modo del tutto casuale e senza alcun criterio logico di assegnazione”.( ) 12

4. I circuiti detentivi penitenziari: la classificazione nelle circolari DAP.

Sulla base delle indicazioni individuate dall’art. 13 o.p. vengono creati i c.d. circuiti penitenziari, ovvero insiemi di “entità di tipo logistico”, rappresentati da interi istituti, ovvero sezioni di

CANEPA, MERLO, Manuale di diritto penitenziario. Le norme, gli organi, 12

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istituto, ai quali vengono assegnati i detenuti in ragione del loro livello di pericolosità o in considerazione di peculiari esigenze trattamentali o umanitarie.

Tali strutture sono tendenzialmente distribuite sull’intero territorio nazionale, in modo da conferire al provvedimento amministrativo di assegnazione, meglio definito come “classificazione”, un carattere di stabilità nel tempo, anche nel caso in cui sia necessario un trasferimento del detenuto in altro istituto.

Importante innanzitutto è analizzare la differenza tra regime penitenziario e circuito penitenziario. Il primo infatti, consiste in un insieme di regole trattamentali che si applicano, in virtù di una previsione normativa a determinati detenuti in presenza di presupposti legittimanti. L’applicazione di un regime incide in maniera significativa sui diritti dei detenuti previsti dall’ordinamento penitenziario, si pensi per esempio alla rilevante riduzione dei colloqui visivi e telefonici per i condannati sottoposti al regime ex art. 41 bis o.p., oppure alle restrizioni alla ricezione dei pacchi o alla detenzione di oggetti che vengono imposte con il provvedimento di sorveglianza particolare ex art. 14 bis o.p.

Il circuito penitenziario invece non comporta alcuna deminutio nella titolarità dei diritti del detenuto, potendo soltanto

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implicare l’allocazione in sezioni particolarmente sicure, la sottoposizione a maggiori controlli o l’adozione di speciali cautele nella fruizione degli istituti trattamentali.

A seguito dei gravissimi delitti compiuti dalla criminalità organizzata siciliana negli anni 90, ed in esito alle critiche che avevano accompagnato il regime di detenzione indifferenziata che aveva contribuito ad alimentare, negli anni 70, la diffusione del violento dissenso carcerario all’interno degli istituti, fu fortemente avvertita l’esigenza di evitare le influenze negative tra i detenuti, per prevenire il pericolo che gli appartenenti al crimine organizzato potessero svolgere attività di proselitismo nei confronti dei delinquenti comuni, oppure si potessero avvalere dello stato di soggezione di questi ultimi nei loro confronti.

Con il c.d “raggruppamento” dei detenuti in circuiti si mira da un lato a calibrare sforzi di controllo e vigilanza in proporzione alla pericolosità, evitando così il dispendio di energie, mentre dall’altro lato si tutelano i detenuti di minore spessore criminale non collegati alle associazioni esterne ed esperti a rischi come sopraffazione e proselitismo.

Le vigenti circolari ministeriali in materia di circuiti penitenziari, disciplinano l’esercizio del potere discrezionale inerente la gestione dei detenuti e internati, secondo criteri

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individuati dagli artt. 13 e 14 o.p., dove il primo tende all’individualizzazione del trattamento e il secondo prevede che la popolazione carceraria sia assegnata e raggruppata per categorie omogenee. Questi due termini “ individualizzazione e r a g g r u p p a m e n t o o m o g e n e o ” s e m b r a n o e s s e r e u n a subordinazione al successo del programma risocializzante sul detenuto, anche perché con tali istituti si va ad evitare un influenza nociva reciproca tra detenuti eterogenei.

La previsione di questi circuiti penitenziari che garantiscono elevati livelli di sicurezza fa capo non solo alla legge dell’ordinamento penitenziario, ma anche all’art. 32 d.P.R n° 230 del 2000 prevedendo che “i detenuti e gli internati che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le suddette cautele”.

4.1 L’ex circuito E.I.V.

Detto questo, uno dei circuiti era quello denominato E.I.V. ovvero “elevato indice di vigilanza”, introdotto dalla circolare D.A.P n° 3479 del 9.07.1998 e dedicato ai detenuti per delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico mediante attività violenta. All’interno di

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questo circuito vi erano quei soggetti ai quali veniva revocato il regime di cui all’art. 41 bis o.p., quindi condannati già ritenuti organicamente inseriti ad associazioni mafiose o di stampo mafioso. Questi non erano i soli soggetti ad essere sottoposti a tale trattamento, perché ad esso venivano assegnati detenuti che, indipendentemente dal titolo detentivo, secondo quanto disposto dall’art. 32 d.P.R n°230 del 2000, avevano esercitato un comportamento allarmante durante la detenzione, per esempio autori di tentativi di evasione, di violenza grave commesso verso altri detenuti o operatori penitenziari, o comunque attività che andavano a ledere la sicurezza penitenziaria, tant’è vengono definiti come “soggetti ad elevata pericolosità individuale ed intramuraria”.

Per ragioni di ottimizzazione del trattamento e delle sicurezza attiva e passiva, è stata proposta l’abrogazione del circuito E.I.V. con una nuova distribuzione della popolazione detenuta dell’alta sicurezza.

Per i detenuti assegnati al c.d circuito E.I.V. che hanno commesso attività sopra citate contrarie alla sicurezza attiva e passiva, si è evidenziata una disomogeneità rispetto alle tipologie di detenuti proveniente dall’area della criminalità organizzata, tanto è che non sono soggetti che hanno aderito a logiche collettive finalizzate ad obbiettivi criminali comuni, ma

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anzi hanno posto in essere attività criminale espressione di spiccata individualità.

Per questa motivazione, pur permanendo l’opportunità di una gestione particolarmente accorta, è stato sconsigliata la detenzione in promiscuità con la popolazione carceraria sottoposto all’alta sicurezza.

4.2 Circuito Alta Sicurezza: le varie tipologie.

Altro circuito è quello dell’alta sicurezza delineato dall’ultima circolare n° 6069 del 2009 che è stato organizzato prevedendo al proprio interno una differenziazione di sottocircuiti con medesime garanzie di sicurezza e opportunità trattamentali. Il circuito dell’alta sicurezza è pensato per quei soggetti particolarmente pericolosi, raccogliendo anche i presupposti per l’ormai abrogato circuito E.I.V. Viene suddiviso in tre gradi di pericolosità, distinguendo quindi un A.S. 1, A.S. 2 e A.S. 3. Il primo sottocircuito individuato con l’acronimo A.S. 1 è dedicato al contenimento dei detenuti ed internati nei cui confronti sia stato dichiarato inefficace il decreto di applicazione del regime ex art. 41 bis o.p. ovvero quando è stato applicato il regime del c.d “carcere duro” e successivamente revocato. E’ opportuno, secondo i principi generali, che tali soggetti, i quali hanno rivestito ruoli di primaria importanza nelle

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