• Non ci sono risultati.

Il diritto all’informazione alimentare e il diritto all’autodeterminazione in tema di scelte alimentari come declinazione

Sala Dante, Palazzo incontr

IL DIRITTO AL CIBO COME DIRITTO (ANCHE) CULTURALE

6. Il diritto all’informazione alimentare e il diritto all’autodeterminazione in tema di scelte alimentari come declinazione

del diritto al cibo come diritto (anche) culturale

Alla luce delle considerazioni svolte è possibile riconoscere l’esistenza di significati accessori che accompagnano la valenza propriamente nutrizionale del cibo. In tutte le società il sistema alimentare si organizza anche come un codice culturale portatore di valori aggiunti13. Sembra, quindi, possibile

ricondurre il cibo nel concetto sia di cultura sia di patrimonio storico della Nazione, che l’art. 9 della Costituzione pone come oggetto rispettivamente di una funzione promozionale e di tutela da parte della Repubblica. Come logico corollario, da tale opzione interpretativa può discendere la riconoscibilità di un consumo culturale del cibo. L’alimentazione è sì un bisogno biologico, ma la risposta a tale bisogno spesso si realizza come una risposta culturale e sociale. In altri termini, il quadro delle motivazioni posto alla base della scelta alimentare può andare oltre alla semplice risposta al bisogno biologico della nutrizione e connotarsi di profili culturali. Tra i significati culturali che assume la scelta alimentare può inscriversi, ad esempio, la finalità di sostenere i prodotti di un certo territorio al quale il consumatore si sente particolarmente legato oppure

IL DIRITTO AL CIBO COME DIRITTO (ANCHE) CULTURALE 176

quello di sostenere le realtà produttive del proprio territorio. In tale prospettiva, alla connotazione culturale che qualifica il cibo sembra possibile accostare la qualificabilità del diritto all’alimentazione come diritto culturale, declinabile in termini di diritto ad una corretta e completa informazione alimentare, idonea a consentire l’autodeterminazione del consumatore in materia alimentare. Sapere esattamente dove e chi fa ciò di cui ci nutriamo sembra quindi poter arricchire il contenuto del diritto al cibo.

A questo proposito occorre segnalare, in prospettiva, dal mio punto di vista, critica, il regolamento dell’UE n. 1169/2011 sulla nuova etichettatura dei cibi, entrato in vigore il 13 dicembre 2014. Tale provvedimento ha di fatto eliminato l’obbligo, presente nel d.lgs. n. 109/1992, di indicare sulle etichette dei prodotti alimentari preconfezionati “la sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento”. La normativa europea, infatti, impone l’obbligo di indicare solo il responsabile legale del marchio, che non indica necessariamente lo stabilimento nel quale è stato elaborato il prodotto. Secondo l’art. 39 del regolamento, gli Stati membri possono adottare, seguendo la procedura di notifica prevista dall’art. 45, disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie; tuttavia tale facoltà è circoscritta a determinati tipi o categorie specifiche di alimenti e deve essere giustificata da uno dei motivi indicati nella stessa norma:

a) protezione della salute pubblica; b) protezione dei consumatori; c) prevenzione delle frodi;

d) protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, delle indicazioni di provenienza, delle denominazioni d’origine controllata e repressione della concorrenza sleale.

La possibilità di richiedere informazioni obbligatorie aggiuntive è quindi sottoposta ad un duplice limite, di carattere oggettivo e teleologico. Ad esso si accompagna l’ulteriore limitazione contenuta nel 2° comma dell’art. 39, secondo il quale “In base al paragrafo 1, gli Stati membri possono introdurre disposizioni concernenti l’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti solo ove esista un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza. Al momento di notificare tali disposizioni alla Commissione, gli Stati membri forniscono elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni”. La libertà degli Stati membri di introdurre informazioni obbligatorie complementari a quelle indicate nel regolamento sembra significativamente circoscritta. A questo proposito, occorre segnalare che in data 10 settembre il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge di delegazione europea 2015 che all’art. 4 contiene la delega per il ripristino dell’obbligo di indicare lo stabilimento in etichetta. L’obbligo di indicazione della sede dello stabilimento riguarderà gli alimenti prodotti in

Francesca Polacchini 177

Italia e destinati al mercato italiano. Allo stesso tempo dovrà essere attivata la notifica della disposizione alla Commissione e agli Stati membri. L’Italia potrà adottare le disposizioni previste solo tre mesi dopo la suddetta notifica, purché non abbia ricevuto un parere negativo dalla Commissione. In caso di parere negativo, la Commissione avvierà la procedura d’esame, assistita dal Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali.

7. Conclusioni

L’approccio culturale al cibo teorizzato dalle scienze sociali consente di arricchire, proprio tramite il riferimento al cibo, il concetto di cultura e di patrimonio storico di cui all’art. 9 della Costituzione e consente anche di ricondurre il cibo all’interno di quei beni che, secondo le parole della Corte costituzionale, lo Stato deve tutelare perché rappresentano una “testimonianza materiale di cultura sia per il loro valore culturale intrinseco sia per il riferimento alla storia della civiltà e del costume anche locale”14. L’osservazione

e lo studio delle dinamiche connesse all’alimentazione dimostrano infatti come la stessa sia fortemente legata a processi storici che hanno creato assetti culturali-comportamentali riconducibili a un vero e proprio costume alimentare che qualifica l’identità culturale di un Paese.

L’opzione esegetica volta a ricondurre il cibo all’interno dell’art. 9 della Costituzione sembra inoltre trovare conforto nella decisione del Comitato Intergovernativo della Convenzione sul Patrimonio immateriale dell’UNESCO di iscrivere all’unanimità la dieta mediterranea all’interno del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Tale Convenzione sembra poter operare come elemento di integrazione in via interpretativa del contenuto normativo dell’art. 9 Cost., in conformità anche a quanto chiarito dalla Corte costituzionale in tema di eterointegrazione della portata precettiva delle disposizioni costituzionali in tema di diritti da parte delle Convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia (sentenza n. 388/1999).

LA TASSAZIONE NUTRIZIONALE TRA DIRITTO AD UNA SANA

Outline

Documenti correlati