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Il disastro italiano nel Mediterraneo: dalla “Notte di Taranto” alla sconfitta di Capo Matapan.

Analisi delle principali battaglie che hanno caratterizzato il confronto tra corazzate e portaerei nel Secondo Conflitto

4.1 Il disastro italiano nel Mediterraneo: dalla “Notte di Taranto” alla sconfitta di Capo Matapan.

Come accennato nella parte introduttiva, questo capitolo è dedicato all’esposizione di eventi bellici di grande interesse storico e all’analisi di azioni navali che hanno coinvolto navi da battaglia e portaerei. In primis analizzeremo l’attacco effettuato dalla Mediterranean Fleet ai danni della flotta italiana nella base di Taranto.

Nel ristrutturare la forza navale britannica per poter far fronte alla nuova situazione risultante dall’ingresso dell’Italia in guerra, l’Ammiragliato destinò la portaerei H.M.S. Eagle alla flotta del Mediterraneo agli ordini dell’ammiraglio Andrew Cunningham. Nonostante la flotta italiana fosse priva di navi portaerei, la posizione della penisola al centro del Mediterraneo, rendeva possibile operazioni in una vasta zona sotto la protezione degli aerei della Regia Aeronautica basati a terra.

L’ammiraglio Cunningham disponeva invece solo di diciotto “Swordfish” della Eagle da opporre all’intera forza aerea italiana. Questi furono in un secondo tempo incrementati da tre caccia “Gladiator” che tennero validamente testa alla Regia Aeronautica fino all'arrivo della portaerei H.M.S. Illustrious. In quel momento inoltre, non era possibile fare alcun assegnamento sull'appoggio aereo dalla fortezza di Malta, poiché i piani operativi dell'anteguerra davano l’isola perduta già all’inizio di un’eventuale ostilità con l’Italia, perciò non era stato tenuto in conto un consolidamento difensivo della fortezza.

I capi di Stato Maggiore delle Forze Armate italiane furono informati per la prima volta il 9 aprile 1940 che Mussolini aveva deciso che sarebbe entrato in guerra al fianco della

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Germania al momento più opportuno. Il capo di Stato Maggiore della Regia Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari, replicò alle intenzioni di dichiarazione di guerra di Mussolini con un memorandum, dove mise in evidenza le difficoltà che sorgevano dalla sfavorevole posizione geografica dell'Italia rispetto ai Choke Points del Mediterraneo e sottolineando l'impossibilità di compiere qualsiasi azione di sorpresa entrando in una guerra già in uno stadio avanzato.55

Cavagnari suppose che la Gran Bretagna e la Francia avrebbero potuto o mantenere il dominio delle due estremità del Mediterraneo e attendere così l'esaurimento dell'Italia, o adottare una strategia più aggressiva che conducesse a scontri tra le flotte avversarie con perdite sostanziali da entrambi i lati. Qualora avessero adottato la prima alternativa, sarebbe stato difficile poter svolgere operazioni offensive con forze di superficie e, per quanto riguarda la guerra sottomarina, erano da prevedersi scarsi risultati perché il traffico mercantile nel Mediterraneo sarebbe stato virtualmente inesistente. Il risultato della seconda alternativa sarebbe presumibilmente stato altrettanto sfavorevole alla Marina italiana poiché, nel corso delle battaglie navali, la Francia e l’Inghilterra avrebbero potuto rimpiazzare le perdite subite mentre l’Italia non ne sarebbe stata in grado.

Poco tempo dopo l’ingresso italiano in guerra la situazione mutò improvvisamente: il 22 giugno 1940 la Francia si ritirò dal conflitto a seguito della disfatta contro l’Esercito tedesco. Di conseguenza gli inglesi dovettero implementare la loro forza nel Mediterraneo occidentale per sostituirsi all’alleato sconfitto. Fu creata così la “Forza H” con comando a Gibilterra. Anche la flotta basata ad Alessandria d’Egitto fu potenziata come riportato in precedenza dall’arrivo della nuova portaerei Illustrious e della corazzata Valiant. A partire da questo momento gli inglesi iniziarono a riesaminare gli eventuali piani d’attacco alla base italiana di Taranto.

Il 13 settembre 1940 il generale d’armata Rodolfo Graziani, che comandava le truppe italiane in Africa settentrionale, sferrò un’offensiva con l’obiettivo di invadere l’Egitto e ciò tenne impegnata la flotta britannica per coadiuvare l’esercito difensore. Tuttavia, una volta raggiunta Sidi Barrani, Graziani dette ordine di fermarsi e iniziare i trinceramenti.56

55 R. Bernotti, Storia della Guerra nel Mediterraneo (1940-43), Roma, Vito Bianco Editore, 1960,

p. 37.

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La Mediterranean Fleet ebbe modo così di rivolgere la sua attenzione verso altre questioni urgenti, tra cui l’attacco alla flotta italiana nella base di Taranto57.

Ogniqualvolta se ne presentava l'occasione, gli equipaggi di volo delle due portaerei, Illustrious e Eagle, effettuavano un intenso addestramento, includendo voli notturni, per allenarsi alla rischiosa impresa alla quale, sicuramente, tra breve sarebbero stati chiamati. Per la metà di ottobre, il contrammiraglio Lumley Lyster, comandante delle portaerei britanniche nel Mediterraneo e pianificatore dell’attacco alla base pugliese, fu finalmente in grado di riferire a Cunningham, che egli li considerava sufficientemente bene addestrati e fu deciso che l'attacco doveva avere luogo nell'anniversario di Trafalgar, il 21 ottobre. Tuttavia uno sfortunato contrattempo, verificatosi a bordo dell'Illustrious, rese necessario un rinvio. Giù nell’hangar della portaerei, si stavano applicando agli “Swordfish” alcuni serbatoi supplementari al fine di poter utilizzare gli aerei su obiettivi posti ad una maggiore distanza. Questi velivoli avevano un raggio di azione limitato a 450 miglia, che era insufficiente poiché era necessario che l'attacco venisse sferrato da una posizione in cui la portaerei fosse difficilmente scoperta.

Per tale motivo si stavano fissando con strisce metalliche al sedile dell'osservatore di ogni aerosilurante, serbatoi da 270 litri di carburante aggiuntivo. Ciò significava che bisognava fare a meno del mitragliere e che l'osservatore stesso, oltre a stare gravemente scomodo, correva il rischio di venire inzuppato dalla benzina che poteva fuoriuscire dal tubo eccessivamente pieno del serbatoio, mentre l'apparecchio accelerava per il decollo.

Uno degli addetti a questo lavoro scivolò improvvisamente e cadde. Nel perdere l'equilibrio, urtò con il cacciavite che teneva in mano un paio di contatti elettrici scoperti nell'interno della cabina dell'aereo. La scintilla fece incendiare un po' di benzina che sgocciolava da un serbatoio non perfettamente asciutto e provocò un incendio che si propagò rapidamente ai velivoli vicini. La squadra anti-incendio si precipitò all'opera, gli estintori dell'impianto di annaffiamento furono attivati e le fiamme furono domate in pochi minuti; tuttavia, nonostante fosse stato di breve durata, l'incidente ebbe gravi conseguenze58.

57 Ivi, p. 26. 58 Ivi, p. 29.

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Due “Swordfish” distrutti ed altri cinque furono danneggiati dall'acqua salata. Apparve subito evidente che, anche con un incessante lavoro, non sarebbe stato possibile approntare i due gruppi di aeromobili preventivati per la data prescelta.

Contemporaneamente le forze inglesi nel Mediterraneo furono impiegate a supporto della Grecia, garantendo subito rifornimenti di carburante per la base di Suda a Creta: era, infatti, di grande interesse per la Gran Bretagna intervenire al fianco della Grecia, sia per evitare che gli italiani finissero per controllare il Mar Egeo, mettendo così in pericolo la sicurezza di Alessandria d'Egitto, sia per scoraggiare la Turchia ad entrare nel conflitto come alleata dell'Asse.

Per quanto riguardava la Regia Marina invece, era chiaro che lo sforzo bellico italiano in Grecia e l’intensificato flusso di trasporto merci verso l’Albania, rendevano indispensabile il concentramento delle forze navali nella grande base di Taranto.59

Questa concentrazione di forze italiane non passò inosservata alla ricognizione aerea inglese fatta il 27 ottobre 1940. Furono individuate cinque corazzate, tre incrociatori pesanti e sei incrociatori leggeri e un numero non precisato di cacciatorpediniere.

Sfortunatamente per la Royal Navy, la Eagle non era operativa al 100% a causa di un problema al sistema di rifornimento del carburante e sarebbe stata impossibilitata a prendere parte all’operazione “Judgement” (l’attacco alla base navale di Taranto); perciò fu deciso di trasferire cinque “Swordfish” sulla H.M.S. Illustrious che contava quindi ventiquattro aerosiluranti e dodici caccia tra cui quattro nuovi “Fulmar”. Tra il 9 e il 10 novembre due “Swordfish” precipitarono in mare per delle avarie, riducendo così il numero dei velivoli a ventidue; mentre la mattina del giorno seguente si verificò un problema analogo che fece perdere un altro aereo alla squadra d’attacco.60 Il comandante delle operazioni di volo a

bordo dell’Illustrious, capitano di fregata James Roberson, si mise subito all’opera per ricercare le cause di queste anomalie avvenute in circostanze insolite. Con il suo team Roberson si rese conto che il carburante non era pulito ma mischiato con acqua di mare e detriti sabbiosi e che sulle pareti interne dei serbatoi era presente una strana muffa. Da lì, si risalì al denominatore comune di questi incidenti, ossia l’inquinamento di una stazione rifornimento dell’hangar, probabilmente legato alle operazioni anti-incendio effettuate in precedenza. Risolto il problema, non c’erano più intralci per l’operazione “Judgement”

59 R. Bernotti, Storia della Guerra nel Mediterraneo (1940-43), cit., p. 102. 60 B. B. Schofield, La notte di Taranto, cit., p. 34.

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Il porto di Taranto, situato nella parte più settentrionale del golfo omonimo, si trova nel tallone dell’Italia, a circa 520 miglia da Malta. Era la base principale della flotta italiana ed era dotata di tutte le strutture necessarie per dare assistenza ad ogni tipo di nave. Comprendeva un porto interno, noto come Mar Piccolo, completamente circondato dalla terra, al quale si poteva accedere attraverso uno stretto canale ed un vasto porto esterno detto Mar Grande. Quest’ultimo era delimitato da una diga che si estendeva da punta Rondinella sino all'isola di San Pietro e da lì, proseguendo sino all'isolotto di San Paolo, demarcava il lato settentrionale dell'ampia entrata larga 1.187 metri. Verso Sud, la diga di San Vito si estendeva in direzione Nord-Ovest per 1.609 metri da un punto a terra e per 1.206 metri verso Nord-Est dal capo dello stesso nome.61

L’Alto Comando italiano era ben consapevole della possibilità di un attacco al porto ed aveva preso abbondanti precauzioni per proteggere le navi che vi si trovavano. Tali precauzioni includevano ventuno batterie di cannoni da 102 millimetri, di cui tredici erano a terra ed otto installate su pontoni galleggianti. Vi erano anche ottantaquattro mitragliere pesanti e centonove leggere disposte per coprire l'intera area del porto. Sebbene forse sufficienti in numero, queste batterie erano costituite da armi antiquate e non idonee per il tiro di sbarramento notturno. I ventidue proiettori erano moderni, ma soltanto due di essi erano collegati con gli avamposti aerofonici di ascolto, i quali erano stati installati in posizioni adatte nella zona circostante l'area del porto. Un’illuminazione supplementare doveva essere fornita da due proiettori per ogni nave. Dei 12.800 metri di rete protettiva parasiluri necessaria per proteggere le navi ormeggiate nel Mar Grande, soltanto 4.200 metri erano stati messi in opera. Altri 2.200 metri erano a terra in attesa di essere sistemati. La ragione per cui ciò non era stato fatto, era dovuta alle obiezioni di alcuni ufficiali superiori della Regia Marina, i quali ritenevano che le reti potessero intralciare i movimenti delle navi nell'entrata e nell'uscita dal porto. Per completare questo imponente apparato di difese era stato installato uno sbarramento di circa novanta palloni, ma per un caso fortuito, il cattivo tempo, durante la prima settimana di novembre, ne aveva distrutto sessanta e soltanto ventisette erano in posizione la notte dell'attacco.62 Dieci erano ormeggiati a zattere a

occidente di una diga interna detta diga della Tarantola che si protendeva dentro il Mar Grande per 2.400 metri e, per circa la stessa distanza, verso Nord-Est dalla diga di San Vito. Altri dieci erano ormeggiati a terra in una fila che si estendeva verso Nord-Est dalla estremità

61 Ivi, p. 36.

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della diga della Tarantola e gli ultimi sette erano ancorati a zattere nel centro della porzione settentrionale del Mar Grande su una linea che correva a Nord-Est verso la riva settentrionale del porto. Vi era tuttavia una grave lacuna nelle difese, che era la mancanza di qualsiasi apparato fumogeno.

L’11 novembre le seguenti navi della flotta italiana erano ormeggiate nel porto di Taranto. Nel Mar Grande le due nuove corazzate con cannoni da 381 millimetri Vittorio Veneto e Littorio e le quattro corazzate rimodernate con cannoni da 320 millimetri Conte di Cavour, Giulio Cesare, Caio Duilio e Andrea Doria. Erano anche presenti gli incrociatori armati con cannoni da 203 millimetri Zara, Fiume e Gorizia e i cacciatorpediniere Folgore, Baleno, Fulmine, Lampo, Alfieri, Gioberti, Carducci e Oriani. Nel Mar Piccolo, alle boe, vi erano gli incrociatori con cannoni da 203 millimetri Trieste e Bolzano e i cacciatorpediniere Granatiere, Alpino, Bersagliere e Fuciliere mentre, ormeggiati di poppa alla banchina, gli incrociatori con cannoni da 203 millimetri Pola e Trento nonché gli incrociatori con cannoni da 152 millimetri Garibaldi e Duca degli Abruzzi e i cacciatorpediniere Freccia, Strale, Dardo, Saetta, Maestrale, Libeccio, Grecale, Scirocco, Camicia Nera, Geniere, Lanciere, Carabiniere, Corazziere, Ascari, Da Recco, Usodimare e Pessagno. Nel Mar Piccolo vi erano anche cinque torpediniere, sedici sommergibili, quattro dragamine, una nave posamine, nove cisterne, navi appoggio e navi ospedale, oltre ad alcuni rimorchiatori e mercantili.63

Le navi erano ormeggiate in una maniera considerata adatta a garantire la migliore protezione contro il tipo di attacco ritenuto più probabile. Le ripetute visite degli aerei da ricognizione britannici non erano passate inosservate ed erano considerate un indizio di imminenti attacchi aerei. Di conseguenza, al cadere dell'oscurità, le navi avevano assunto un assetto di completo approntamento, con metà del personale agli armamenti principali e i cannoni antiaerei con l’intero personale operativo. Nell’eventualità di un allarme tutti gli uomini di guardia avevano l'ordine di mettersi ai posti di combattimento.

Il comandante della base era l’ammiraglio di squadra Arturo Riccardi, uomo che prendeva le sue responsabilità molto seriamente.64 Aveva considerato a pieno il rischio di un attacco

aerosilurante contro le navi che si trovavano nel Mar Grande, ma faceva ingenuamente affidamento sul fatto di poter ricevere un sufficiente preavviso sull'avvicinarsi degli aerei

63 Ivi, p. 37.

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nemici. Era convinto che una portaerei, nel giungere a distanza di attacco, sarebbe stata certamente avvistata dalla ricognizione aerea prima di raggiungere la posizione da cui avrebbe potuto lanciare i suoi velivoli. D’altro canto, l'Esercito italiano, che era responsabile delle batterie antiaeree, era meno fiducioso circa la sicurezza della base e sarebbe stato lieto di vedere la flotta trasferita a Napoli. L’ammiraglio Campioni era tuttavia riluttante a rinunciare ai vantaggi strategici di Taranto, che gli davano la possibilità di tagliare i rifornimenti con i quali, nonostante i suoi sforzi, gli inglesi riuscivano a tenere Malta in efficienza.

Il piano iniziale dell’attacco su Taranto, come era stato concepito dal contrammiraglio Lyster, fu notevolmente modificato quando gli inglesi si resero conto, attraverso fotografie fatte dai ricognitori aerei, della presenza dello sbarramento di palloni, delle reti parasiluri, del minor numero di aerei disponibile per la mancanza della Eagle ed infine per la perdita di altri tre “Swordfish”, come è stato precedentemente riportato. Nella sua stesura finale il piano era il seguente: l'Illustrious e la sua scorta di incrociatori e di cacciatorpediniere, dovevano far rotta per un punto X per 270° a quattro miglia da punta Kabbo (Cefalonia) in modo tale da giungervi alle 20.00 dell’11 novembre. Quest’ora era stata scelta per ridurre al minimo il rischio di attacchi di forze di superficie avversarie, che paradossalmente, veniva considerato maggiore di quello dell'intercettazione della ricognizione aerea la quale, come già descritto in precedenza, non riuscì quasi mai ad avvicinarsi alla flotta inglese.65

Dal momento che dei trenta “Swordfish”, precedentemente previsti, ne erano disponibili soltanto ventuno, questi furono disposti in due gruppi rispettivamente di dodici e nove aerei, sei dei quali, per ogni gruppo, erano armati con siluri e gli altri con bombe. Il primo attacco di dodici velivoli sarebbe stato lanciato appena raggiunta la posizione X, scelta in modo tale che gli aerei non avessero da percorrere una distanza superiore alle 400 miglia.

Dal momento che lo sbarramento di palloni e le reti parasiluri riducevano il numero delle posizioni favorevoli allo sgancio, gli aerei da bombardamento sarebbero stati dotati di bengala. La seconda ondata di nove velivoli sarebbe stata lanciata ad un’ora di distanza dalla prima, cioè alle 21.00. Si confidava di poter iniziare il recupero della prima ondata all’01.00 circa del giorno 12 novembre a distanza di venti miglia per 270° da punta Kabbo.66

65 Ivi, p. 38. 66 Ivi, p. 39.

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L’attacco era pianificato minuziosamente, tenendo conto che la Luna sarebbe stata a tre quarti della sua grandezza massima e alle ore 23.00 si sarebbe trovata su un azimut di 197° e ad un’altezza di 52°. La prima ondata sarebbe arrivata da Sud-Ovest, sei velivoli avrebbero illuminato la zona d’attacco con i bengala prima di procedere al bombardamento degli incrociatori e dei cacciatorpediniere ormeggiati nel Mar Piccolo. Per non lasciare nulla al caso, gli inglesi nel pomeriggio immediatamente precedente l’attacco, inviarono in ricognizione un velivolo “Sunderland” che confermò la presenza della flotta italiana nella base e che non c’era nessun segno di imminente partenza, anzi si era aggiunta alle altre una sesta corazzata.

Era stato ipotizzato che la profondità media di ancoraggio delle navi italiane era di quindici metri e i siluri in dotazione per l’attacco erano del tipo “Mark XII” da 457 millimetri e velocità regolata a trenta nodi, con profondità d’impiego impostata a dieci metri. Erano tra i primi siluri ad avere i famosi acciarini “Duplex” che si differenziavano dai semplici acciarini ad urto, grazie all’attivazione anche tramite influenza magnetica.67

A tutti gli aerei era stato assegnato un numero di identificazione; quelli dell'Illustrious portavano la lettera L, mentre quelli presi in prestito dalla Eagle erano contraddistinti dalla lettera E. Prima dell’attacco, ogni pilota e un team di specialisti ispezionavano gli aerei di loro competenza, controllavano i comandi, esaminavano attentamente il sistema di sgancio del siluro e si accertavano che tutto l'equipaggiamento fosse in piena efficienza.

Un problema aggiuntivo nella pianificazione dell’attacco era dato dal rischio di non ritrovare più la portaerei una volta portato a termine il raid. Fortunatamente per i piloti, ad aiutarli c’era la grande massa scura dell’isola di Cefalonia in prossimità della portaerei, una volta ottenuta l’isola come riferimento avrebbero potuto intercettare più facilmente il segnale guida di rientro verso la Illustrious.68 Tuttavia bisognava tenere in considerazione che la

portaerei avrebbe potuto essere attaccata dalle forze avversarie, e che non ci fosse nessuno ad aspettare il rientro dei piloti.

Nel frattempo a Taranto, già alle 19.55 un posto di ascolto aerofonico segnalò il rumore di velivoli in una zona a sud del porto. L’informazione fu passata al Comando dove non suscitò molto interesse perché si pensò che fosse probabilmente un altro aereo della ricognizione. Circa dieci minuti dopo, tuttavia, un certo numero di altre stazioni aerofoniche cominciarono

67 Ivi, p. 41.

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a mandare rapporti di rumori sospetti e così fu informato il comandante della piazza che ordinò di suonare l’allarme. Il personale addetto andò ai pezzi mentre la popolazione civile corse nei rifugi antiaerei. Una batteria apri il fuoco, ma presto tacque e i posti di ascolto riferirono che il rumore dei motori degli aerei stava scemando. Sembrava che l’intruso se ne fosse andato. Poco dopo fu suonato il cessato allarme. Tre quarti d'ora dopo giunsero altri rapporti di rumori sospetti dalle stazioni aerofoniche del lato orientale del golfo e fu dato di nuovo l’allarme. La causa di tutto il disturbo non erano ancora gli aerosiluranti in arrivo ma il velivolo da ricognizione “Sunderland”, che stava eseguendo la sua importante missione di pattugliare il golfo e di sorvegliare qualsiasi movimento da parte della flotta italiana.69

Ancora una volta i rumori minacciosi si affievolirono e la calma scese di nuovo sulla città di Taranto e sulle navi oscurate che erano all'ormeggio nel suo grande porto. Alle 22.25 i telefoni del Comando cominciarono di nuovo a squillare e, venticinque minuti dopo, gli abitanti furono avvisati del pericolo con un terzo allarme. Il rumore degli aerei proveniente da Sud-Est si intensificò.

Immediatamente dopo la situazione si palesò chiaramente, le batterie della zona di San Vito iniziarono a sparare, mentre traccianti rossi e arancione solcavano il cielo notturno. Era