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Gli scontri navali nel Pacifico: dall’attacco a Pearl Harbor alla Battaglia del Golfo di Leyte.

Analisi delle principali battaglie che hanno caratterizzato il confronto tra corazzate e portaerei nel Secondo Conflitto

4.3 Gli scontri navali nel Pacifico: dall’attacco a Pearl Harbor alla Battaglia del Golfo di Leyte.

Molti storici ammettono che l’idea di attaccare di sorpresa la flotta americana del Pacifico, alla fonda nella base di Pearl Harbor nell’arcipelago delle Hawaii, maturò negli ambienti della Marina nipponica dopo la riuscita incursione condotta nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940 da venti velivoli britannici partiti dalla portaerei Illustrious contro il porto di Taranto e le navi ivi ormeggiate. Del resto questo episodio, causò alla Marina italiana la definitiva eliminazione di una nave da battaglia (la vetusta Conte di Cavour) e la temporanea messa fuori uso di altre due corazzate (tra cui la modernissima Littorio).142

Il piano di attacco alle Hawaii era opera del comandante supremo della flotta giapponese, ammiraglio Isoroku Yamamoto, un militare colto e politicamente aperto che doveva la sua ascesa da umili origini (era stato adottato dalla famiglia Yamamoto) unicamente alle sue capacità individuali. Aveva studiato due anni all’Università di Harvard e più tardi era stato addetto navale per la Marina nipponica a Washington; conosceva quindi molto bene gli Stati

142 A. Santoni, Storia generale della guerra in Asia e nel Pacifico (1937-1945) vol. I, Modena, Stem

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Uniti e, come molti dei suoi colleghi della Marina, apparteneva a quella fascia di persone che sono aperte verso il modo di vivere e di pensare dell’occidente; era comunque un convinto nazionalista. Appare quanto mai certo che, conoscendo a fondo la potenza e la mentalità americana, egli all’inizio era fortemente contrario a una guerra contro gli Stati Uniti. Era convinto che né un successo iniziale giapponese nel Pacifico né l’occupazione delle Hawaii o di San Francisco avrebbero potuto assicurare una vittoria giapponese. Ma in un sistema politico autoritario non poteva certo combattere contro i mulini a vento e infine dovette chinare il capo davanti ai sostenitori della guerra. Evidentemente non aveva mai creduto in una vittoria giapponese, ma forse, come molti altri, in una pace di compromesso, dopo grandi successi iniziali nel primo anno di guerra e una vittoria tedesca sul teatro europeo. Yamamoto supponeva di poter piegare con una serie di vittorie ininterrotte gli U.S.A. e la Gran Bretagna nei primi dodici-diciotto mesi di conflitto, ma riteneva fermamente che il protrarsi della guerra per due o tre anni avrebbe vanificato ogni velleità di vittoria per il proprio paese.143

Già prima della prima guerra mondiale, cioè all'incirca dal 1909, la Marina giapponese si era posta il problema di un conflitto con quella americana, ma ipotizzando solo scontri in acque vicine al Giappone. A partire dal 1939 il Comando Supremo della Marina dovette prendere in considerazione piani a più ampio raggio, come ad esempio un attacco simultaneo da parte delle flotte britannica, americana e olandese. Il concentramento della flotta americana del Pacifico alle Hawaii rappresentava per la Marina nipponica un pericolo di non poca importanza, come giustamente riteneva Roosevelt, anche se nel 1941 era ancora dubbio se gli americani possedessero i mezzi logistici per avviare un attacco contro il Giappone partendo dalle Hawaii, tanto più che, come sappiamo, tra aprile e maggio del 1941 una parte di questa flotta era stata distaccata nell’Atlantico.144

Lo stazionamento della flotta americana del Pacifico a Pearl Harbor, era un argomento su cui il presidente Roosevelt era “ipersensibile”. Tatticamente la base delle Hawaii era uno scomodo quartier generale, questo perché era logisticamente distante dal continente e costringeva a dover perlustrare un’area di 360° anziché di 180° come nel caso di uno stazionamento sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Secondo i calcoli politici del presidente Roosevelt, Pearl Harbor avrebbe esercitato una forte pressione sul Giappone sufficiente a scoraggiare eventuali ambizioni espansionistiche nel Pacifico. Molti vertici

143 P. Herde, Pearl Harbor, Milano, Rizzoli, 1986, p. 395. 144 Ivi, p. 396.

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della U.S. Navy tuttavia fecero una forte opposizione a questa scelta di Roosevelt. Lo stesso ammiraglio James Richardson, comandante della flotta del Pacifico fu sostituito d’ufficio (secondo alcuni fu una decisione presa dallo stesso presidente) il 1° febbraio 1941 per aver esternato il suo forte malumore per la scelta di spostare la base della flotta nell’arcipelago delle Hawaii. Il suo sostituto il viceammiraglio Husband Kimmel fece tesoro dell’esperienza del suo predecessore e sebbene fosse anche lui non completamente favorevole a mantenere la flotta a Pearl Harbor evitò di fare rimostranze, anche se in diverse occasioni si confrontò con Roosevelt criticandone le scelte.145 La preoccupazione americana per la difesa di questa

importante base era anche influenzata dai risultati di un’esercitazione svolta nel 1938, durante la quale la portaerei U.S.S. Saratoga finse un attacco a sorpresa contro le Hawaii.146

Con un’inversione di tendenza rispetto agli abituali piani difensivi giapponesi riguardanti operazioni navali contro gli Stati Uniti, Yamamoto iniziò sin dalla primavera del 1940 l’elaborazione di un piano d’azione preventiva contro la flotta americana di Pearl Harbor. Dopo la decisione del 2 luglio 1941, resa definitiva il 6 settembre, di non aggredire le province costiere sovietiche, rinunciando così ad alleggerire le pressioni esercitate dai russi sulla Germania, ma di attaccare i territori britannici e olandesi del Sud-Est asiatico, ricchi di materie prime come il petrolio e la gomma fondamentali per l’industria del Sol Levante. Di conseguenza i giapponesi collocarono al centro delle loro riflessioni strategiche la cosiddetta operazione “Hawaii”, che avrebbe fornito loro la necessaria protezione per la conquista dei citati giacimenti di materie prime.147

Yamamoto rimasto impressionato dall’importanza che aveva assunto l’aviazione nel teatro di guerra europeo, considerando inoltre la limitata capacità di intervento degli incrociatori e delle navi da battaglia giapponesi, egli aveva riposto tutte le sue speranze nella flotta aerea della Marina. A partire dal novembre del 1940, dopo una serie di colloqui con il ministro della Marina Oikawa, i piani di attacco studiati dall’ammiraglio Yamamoto assunsero un aspetto più concreto.

Lo Stato Maggiore della Marina giapponese, guidato dai membri più conservatori, era ancorato alla strategia tradizionale delle battaglie navali e lo stesso Stato Maggiore di Yamamoto aveva molte perplessità sullo svolgimento del piano preparato dall’ammiraglio; di conseguenza non era facile sgombrare il campo da tutti questi pregiudizi. Ciononostante

145 Ivi, p. 368.

146 A. Santoni, Storia generale della guerra in Asia e nel Pacifico (1937-1945), vol. I, cit., p. 125. 147 P. Herde, Pearl Harbor, cit., p. 397.

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Yamamoto non si arrese, per quanto molti ammiragli argomentassero a favore di una strategia di impiego della flotta solo nel versante asiatico del Pacifico, per poi eventualmente adescare la U.S. Navy in una battaglia risolutiva davanti alle coste giapponesi, come trentasei anni prima a Tsushima. L’ammiraglio Yamamoto ribatté efficacemente affermando che l’intervento in guerra degli Stati Uniti sarebbe stato comunque inevitabile e che era di capitale importanza eliminare la flotta nemica del Pacifico altrimenti gli americani avrebbero potuto scegliere comodamente il momento più favorevole per iniziare le ostilità. Infine Yamamoto era convinto che la flotta americana sarebbe stata impiegata attraverso attacchi sul fianco esposto delle linee di rifornimento delle armate imperiali impegnate nei i territori dell’Indocina francese, delle Filippine, dell’Indonesia e del Golfo di Tonchino; perciò sarebbe stato improbabile cercare una battaglia navale sulla falsa riga di Tsushima.148 Le

chiare argomentazioni di Yamamoto fecero breccia alla fine sul muro di pregiudizi eretto dagli anziani ufficiali teorici del cannone e della corazzata, spostando il pensiero militare strategico del Giappone dalla vecchia dottrina difensiva a quella offensiva-preventiva. L’elaborazione dettagliata del piano operativo fu affidata all’allora viceammiraglio Takijiro Ohnishi che collaborò con il capitano di fregata Minoru Genda, un esperto aviatore. I primi progetti furono pronti alla fine dell'aprile 1941.149

Due particolari difficoltà erano emerse. Una era di natura strategica: l’attacco doveva essere eseguito di sorpresa, ma c'era la possibilità di essere scoperti durante l’avvicinamento da navi nemiche o appartenenti a paesi neutrali. L’altra difficoltà era di natura tecnica: i fondali di Pearl Harbor erano molto bassi e non permettevano un attacco tradizionale con aerosiluranti, poiché i siluri andando troppo in profondità si sarebbero incagliati. In ogni caso fu deciso di organizzare un attacco combinato con siluri e bombe, sia sulla flotta che sulle basi aeree. Per evitare una dispersione delle forze aeree, non dovevano essere prese di mira le attrezzature portuali, i depositi di combustibile e strutture analoghe. Ciò si dimostrò poi un grave errore strategico dei giapponesi perché in questo modo consentì la riparazione delle unità danneggiate direttamente lì senza così dover perdere tempo a rimorchiarle verso il continente.150

Il problema tecnico di approntare siluri idonei venne risolto solo alcuni mesi dopo e precisamente, come attestano sia il capitano di fregata Genda che il parigrado Mitsuo

148 A. Santoni, Storia generale della guerra in Asia e nel Pacifico (1937-1945), vol. I, cit., p. 127. 149 P. Herde, Pearl Harbor, cit., p. 397.

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Fuchida, nel novembre del 1941. La soluzione fu quanto mai semplice: venne diminuita la penetrazione in profondità dei siluri tradizionali mediante l’applicazione di particolari alettoni posteriori e fu data ai piloti la possibilità di una maggiore precisione nel colpire il bersaglio. Né l’ammiraglio Stark, capo di Stato Maggiore della Marina statunitense, né il comandante in capo della flotta del Pacifico, ammiraglio Kimmel, previdero che i giapponesi avrebbero potuto risolvere questo problema, poiché, come d’abitudine, gli americani ne sottovalutarono le capacità tecniche. Pertanto le navi da guerra dislocate a Pearl Harbor non furono protette da reti parasiluro. Ma i giapponesi, usando i siluri modificati e volando a bassa quota durante il lancio, riuscirono a piazzare numerosi colpi, nonostante il basso fondale. Solo pochi siluri andarono a conficcarsi nel fango del porto militare.151

Il superamento delle difficoltà per l’attuazione del piano richiese parecchi mesi di lavoro senza considerare che era difficile inquadrare l'operazione “Hawaii” nel concetto strategico generale di un attacco nel Sud-Est asiatico. Inoltre, si temeva che i servizi d’informazione americani, britannici e sovietici o il servizio radiogoniometrico americano avrebbero potuto scoprire in tempo una tale concentrazione di portaerei e di unità pesanti, per quanto Yamamoto intendesse prendere tutte le precauzioni possibili. Ma anche prescindendo da ciò, esisteva comunque il pericolo che navi nemiche o di potenze neutrali scoprissero il massiccio spiegamento di unità navali dirette verso le Hawaii.

Per di più, malgrado le esercitazioni eseguite, non si riteneva ancora risolto il problema del rifornimento in alto mare, data la tempestosità del Pacifico settentrionale. Poiché la flotta giapponese era progettata per compiti difensivi, la maggior parte delle navi e degli aerei possedevano un limitato raggio di azione. Le statistiche meteorologiche indicavano che sulla rotta del Pacifico settentrionale, nei mesi di novembre e di dicembre, si avevano in media solo sette giorni adatti al rifornimento, in special modo quello dei piccoli serbatoi dei cacciatorpediniere. Questa rotta settentrionale era l’unica adatta all’avvicinamento, essendo poco trafficata e consentendo alla flotta giapponese di restare fuori del raggio d'azione dei ricognitori americani di Midway e delle Aleutine. Inoltre gli americani non si aspettavano assolutamente che i giapponesi attaccassero da questa direzione. Se la squadra navale fosse stata avvistata, o se il rifornimento in alto mare non fosse riuscito, non solo sarebbe fallita l’operazione “Hawaii”, ma si sarebbero sottratte importanti unità navali al teatro di guerra vero e proprio, quello del Sud-Est asiatico. Siccome alcuni esperti giapponesi

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sopravvalutavano il raggio d'azione dei ricognitori americani si temeva addirittura la possibilità di avvistamento da parte dell’aviazione americana.152

Se invece la squadra fosse stata scoperta nelle acque hawaiane, il pericolo per le portaerei sarebbe stato estremo: il Comando Supremo rischiava di perdere l’intera flotta di portaerei sin dalle prime battute della guerra. Ma al di là del luogo esatto, la scoperta del convoglio navale avrebbe comunque condannato al fallimento i negoziati che il delegato Nomura stava conducendo a Washington. Evidentemente alcuni alti ufficiali della Marina giapponese, legati da vincoli d’amicizia ai loro colleghi americani, speravano ancora in una felice conclusione delle trattative diplomatiche.

Di conseguenza il 1° dicembre Tojo, Yamamoto e Nagano concordarono di interrompere immediatamente l’impresa e di richiamare le navi qualora all’ultimo minuto gli americani avessero accettato l’accordo presentato da Nomura. Tutti questi argomenti indussero sia l’ammiraglio Kimmel a Pearl Harbor che i politici e i militari a Washington a non credere nella possibilità di un attacco giapponese alle Hawaii.

A metà ottobre Yamamoto fece il tentativo decisivo per far approvare il suo piano d’attacco dal Comando Supremo della Marina. Egli asserì che la flotta americana alle Hawaii rappresentava una minaccia continua per il Paese ed era una spina nel fianco per qualsiasi attacco nel Sud-Est asiatico. Inoltre, dato che la supremazia della flotta americana su quella giapponese sarebbe durata ancora per molto tempo, l’unica possibilità di vittoria per il Giappone consisteva nell’infliggere fin dall’inizio delle ostilità un colpo così duro alla flotta americana da impedirle di riprendersi facilmente. Queste valutazioni, come sappiamo, circolavano da tempo nella Marina giapponese. A quel punto il capo di Stato Maggiore Nagano rinunciò a opporsi ulteriormente alla proposta di Yamamoto. Così, mentre le relazioni tra il Giappone e gli Stati Uniti peggioravano sempre più, l’attacco a sorpresa contro Pearl Harbor divenne parte integrante dei piani di guerra giapponesi.153

Nel corso di manovre conclusive, svoltesi in ottobre e agli inizi di novembre, i giapponesi provarono ripetutamente le manovre d’attacco necessarie per aggredire le Hawaii. In quell’occasione essi fecero tesoro dell’attacco britannico contro la flotta italiana nel porto di Taranto del novembre 1940. Il vice addetto per la Marina Takoshi Naito, che aveva visitato

152 Ivi, p. 399. 153 Ivi, p. 400.

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Taranto dopo l'attacco ed era in grado di fornire informazioni di prima mano, era giunto a Kagoshima, dove Yamamoto aveva installato il suo quartier generale.

A metà novembre i velivoli vennero caricati sulle portaerei. Per non destare sospetti, le navi salparono singolarmente o in piccoli gruppi da vari porti tra il 17 e il 19 novembre e si diressero, con rotte diverse, verso le fredde e semideserte isole Curili. Lì, nascoste persino agli occhi dei giapponesi, tutte le unità di squadra si radunarono fino al 21 novembre nella baia di Tankan. Comandante in capo in mare era il viceammiraglio Chuichi Nagumo, uno specialista di siluri, al quale era stato affidato il comando per ragioni di anzianità anche se era notevolmente scettico nei confronti dell’operazione e non aveva avuto mai esperienze con l’aviazione militare della Marina. La flotta d’attacco era formata da sei portaerei, dalle più anziane, la Akagi e la Kaga, alle più moderne, la Soryu, la Hiryu, a cui si aggiungevano le “gemelle terribili” Zuikaku e la Shokaku.154 L’armamento delle ultime due unità era stato

completato solo nell'agosto 1941. Queste sei navi erano pressoché tutte le portaerei che i giapponesi avevano a disposizione; le prime quattro furono affondate rapidamente dai bombardieri americani durante la battaglia delle Midway, ai primi di giugno del 1942, battaglia che segnò la sorte della flotta giapponese.155

Per proteggere le portaerei e assicurarne il rifornimento durante il viaggio verso le Hawaii, vennero a far parte del convoglio gli incrociatori da battaglia Hiei e Kirishima, gli incrociatori pesanti Tone e Chikuma, l’incrociatore leggero Abukuma, nove cacciatorpediniere, tre sommergibili che dovevano perlustrare le acque da attraversare e sette tra navi cisterna e navi da rifornimento. Di questa gloriosa flotta solo un cacciatorpediniere sopravvisse alla guerra; tutte le altre navi furono affondate tra il 1942 e il 1945.

Per ingannare il servizio radiogoniometrico americano, a tutte le unità navali fu ordinato il silenzio radio, mentre, per depistare i servizi di sicurezza americani, nelle acque territoriali giapponesi furono intensificate le comunicazioni radio e i permessi a terra. Inoltre alcuni cacciatorpediniere che scortavano abitualmente le portaerei vennero inviati nelle acque del Sud-Est asiatico con l’ordine di tenersi in costante contatto radio tra di loro e con Tokio, per cui la difesa navale americana suppose che anche le portaerei si trovassero in quelle acque. Contemporaneamente due cacciatorpediniere e una nave cisterna partirono dalle acque territoriali giapponesi per tenersi pronte a bombardare Midway.

154 Per una fotografia della portaerei Zuikaku vedi in appendice l’allegato 23. 155 Ivi, p. 401.

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Oltre ai tre sommergibili che scortavano direttamente la squadra erano partiti dalla base di Kure altri ventisei sommergibili di tipo “I”. questi erano diretti per le Aleutine, per le Fiji e per le Hawaii con compiti inizialmente di ricognizione e successivamente di attacco alle navi in uscita o in avvicinamento al porto.

La flotta salpò dalla baia di Tankan il mattino del 26 novembre, l’attacco era previsto per le ore 08.30 locali di domenica 7 dicembre. Il tempo favorì la navigazione; una spessa coltre di nuvole ostacolava l’avvistamento. Inoltre la rotta scelta era tale da trovarsi al di fuori del raggio d'azione dei ricognitori americani di stanza nelle Aleutine e Midway. Malgrado la scarsa visibilità e il mare mosso, le operazioni di rifornimento furono eseguite senza eccessive difficoltà. Delle portaerei, soltanto la Shokaku e la Zuikaku avevano combustibile sufficiente per intraprendere l’intero viaggio di andata e ritorno senza dover fare rifornimento invece, i cacciatorpediniere erano obbligati a fare rifornimento ogni giorno. Durante la navigazione le navi osservarono il silenzio radio e ciò rese molto difficile mantenere la squadra unita, specialmente di notte. Il convoglio si limitò a ricevere i messaggi radio provenienti dal Giappone, tra i quali le ultime notizie del servizio di spionaggio di Honolulu, e le informazioni meteorologiche. Il 3 dicembre le unità raggiunsero il 43° N e il 178° W e presero la rotta Sud-Est per giungere la sera del 6 dicembre (7 dicembre in Giappone) al 31° N e 158° W, esattamente a nord dell’arcipelago delle Hawaii. 156

Durante lo spostamento verso l’obiettivo, Nagumo ricevette un messaggio in codice: “Niitaka Yama nobore” ossia “Scalate il Monte Niitaka” che era confermava l’ordine di attacco alla base americana delle Hawaii.157

Le ultime notizie sulla situazione esistente a Pearl Harbor furono trasmesse a Nagumo la sera del 6 dicembre circa 11 ore prima che partissero gli aerei. Le informazioni confermavano ancora una volta che la ricognizione americana in loco era insufficiente, che non vi era traccia di palloni frenanti (simili a quelli della base navale di Taranto) e che non erano installate reti parasiluro a protezione delle navi. Secondo i dati di Nagumo la Pennsylvania, l’Arizona, la California, la Tennessee, la Maryland, la West Virginia, l’Oklahoma, la Nevada e la Utah era attraccate nell’isolotto interno alla baia chiamato Fort Island. All’ammiraglio venne comunicata l’assenza delle portaerei Lexington, Enterprise e Saratoga ossia i bersagli più importanti per il raid aereo, ed infatti diversi studiosi

156 Ivi, p. 406. 157 Ibidem.

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concordano sul fatto che questa sfortunata coincidenza non permise ai nipponici di infliggere un colpo decisivo alla Flotta del Pacifico.158

La prima ondata era costituita da 183 velivoli agli ordini del capitano di fregata Mitsuo Fuchida. Gli aerei erano ripartiti in quaranta aerosiluranti tipo “Kate”, quarantanove bombardieri tipo “Kate”, cinquantuno bombardieri in picchiata tipo “Val” e quarantatré caccia tipo “Zero”. Questa squadriglia partì alle 06.00 del mattino da circa 370 miglia a nord dell’isola di Oahu. La seconda ondata, suddivisa in cinquantaquattro bombardieri tipo “Kate”, ottantuno bombarbieri in picchiata “Val” e trentanove caccia “Zero”, decollò alle 07.15. 159 Sulle portaerei rimasero trentanove caccia “Zero” in caso di un eventuale

controffensiva americana contro la flotta.

Le prime operazioni furono effettuate da sommergibili tascabili sviluppati dal Giappone come armi segrete, questi potevano essere rilasciati da un sommergibile di tipo “I” e agire autonomamente con equipaggio limitato a due uomini. Alle 03.57 dal dragamine americano Condor partì un segnale di allarme diretto al cacciatorpediniere Ward circa la presenza di un natante proprio nei pressi dell’ingresso del porto. Alle 06.40 dopo una lunga ricerca anche il Ward aveva localizzato una torretta simile a quella di un sommergibile, nascosta tra una nave in avaria e il suo rimorchiatore. A quel punto il cacciatorpediniere iniziò l’attacco con le bombe di profondità colpendo l’obiettivo. Solo a quel punto il Ward trasmise un radiomessaggio alla postazione di controllo. Un secondo sommergibile fu affondato dallo stesso cacciatorpediniere dieci minuti più tardi, tutti questi segnali che facevano presagire una puntata giapponese alla base hawaiana furono comunicati troppo tardi ai comandi