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ANALISI E CONFRONTO TRA LA FUNZIONE TATTICA E STRATEGICA DELLE GRANDI CORAZZATE E DELLE PORTAEREI NEL CORSO DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

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UNIVERSITÀ DI PISA

ACCADEMIA NAVALE

Corso di Laurea Magistrale in Scienze Marittime e Navali

TESI DI LAUREA

IN STORIA CONTEMPORANEA E NAVALE

ANALISI E CONFRONTO TRA LA FUNZIONE TATTICA E STRATEGICA DELLE GRANDI CORAZZATE E DELLE PORTAEREI NEL CORSO DELLA

SECONDA GUERRA MONDIALE LAUREANDO: GM Domenico de Lucia

RELATORE Prof. Agg. Marco Gemignani

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3 INDICE

INTRODUZIONE………...p. 4

CAPITOLO I

La politica navale internazionale tra le due guerre

1.1 I trattati navali di Washington e Londra……….p. 6 1.2 Le idee risolutive per la supremazia marittima in ambito nazionale………..p. 8

1.3 Le proposte e gli sviluppi cantieristici delle flotte militari all’estero………..p. 11 CAPITOLO II

La nascita dell’aviazione navale e il problema aeronavale italiano

2.1 Il pensiero militare italiano dal primo dopoguerra alla fine della Seconda Guerra

Mondiale………...p. 22 2.2 La portaerei nella Regia Marina: idee e progetti………p. 25

2.3 I siluri arrivano dal cielo: gli aerosiluranti come arma aggiuntiva……….p. 27 2.4 La Regia Aeronautica e la cooperazione aeronavale………..p. 30

CAPITOLO III

Portaerei e corazzate a confronto

3.1 Le caratteristiche belliche delle grandi corazzate………p. 34 3.2 Le peculiarità delle navi portaerei………...p. 38

CAPITOLO IV

Analisi delle principali battaglie che hanno caratterizzato il confronto tra corazzate e portaerei nel Secondo Conflitto Mondiale

4.1 Il disastro italiano nel Mediterraneo: dalla “Notte di Taranto” alla sconfitta di Capo Matapan………...p. 43

4.2 La caccia alla Bismarck………..p. 73 4.3 Gli scontri navali nel Pacifico: dall’attacco a Pearl Harbor alla Battaglia del Golfo di

Leyte……….p. 88

CONCLUSIONI………...p. 113

APPENDICE……….p. 115 BIBLIOGRAFIA………..p. 131

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INTRODUZIONE

La seguente tesi di laurea ha l’obiettivo di analizzare e confrontare ad ampio spettro il ruolo delle grandi navi da battaglia e delle navi portaerei durante il Secondo Conflitto Mondiale e nel periodo immediatamente precedente.

Il lavoro cerca di stimolare la riflessione sul tema proposto attraverso lo studio delle caratteristiche tecniche, delle scelte politico-navali, delle potenzialità tattico-operative e strategiche delle due tipologie di navi, nonché ripercorrendo alcune delle principali battaglie che dal Mediterraneo al Pacifico hanno messo in luce la differenza tra i due mezzi.

Nei vari capitoli è preso in esame un tema diverso: il capitolo I cerca di sintetizzare il ventennio tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, mettendo in evidenza la relazione tra il contesto politico in evoluzione a quel tempo e le scelte costruttive in ambito navale che ne furono strettamente influenzate. Si procede analizzando le idee risolutive per raggiungere la supremazia navale, le quali ebbero un forte riflesso proprio sulle tipologie di unità prese in esame in questa tesi.

Nel capitolo II invece, sono oggetto di studio gli aspetti dottrinali e strategici del pensiero militare italiano in campo marittimo. Sempre in questo capitolo vengono analizzate le principali motivazioni del diniego della Regia Marina allo sviluppo della nave portaerei, le caratteristiche degli aerosiluranti, che nel corso del Secondo Conflitto Mondiale si rilevarono un’arma vincente e viene infine presa in esame la travagliata relazione tra la Regia Marina e la neonata Regia Aeronautica, le lacune cooperative tra le due Forze Armate e le problematiche che conseguentemente si verificarono in guerra.

Il capitolo III si focalizza sulla descrizione accurata delle peculiarità delle due tipologie di navi: le corazzate sviluppate dall’idea che l’artiglieria navale fosse l’arma definitiva negli scontri in mare e le portaerei nate dalla lungimirante idea di una cooperazione tra lo strumento aereo e navale.

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Nel capitolo IV vengono analizzati alcuni dei principali eventi che hanno coinvolto, in maniera diretta o indiretta, le corazzate e le portaerei. Il primo evento rilevante che si è scelto di descrivere è l’attacco nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940 alla città di Taranto e alla flotta là ormeggiata. Rimanendo sempre nel teatro dello scontro nel Mediterraneo, l’attenzione si sposta sulla battaglia di Capo Matapan e sulla sconfitta delle forze italiane davanti alle coste greche. Altresì, tra gli scontri navali nell’Atlantico è oggetto di analisi la sorte della grande corazzata tedesca Bismarck, affondata dopo un lungo inseguimento delle forze britanniche e raggiunta solo grazie alla presenza decisiva della portaerei H.M.S. Ark Royal e dei suoi “Swordfish”.

Alla fine del capitolo invece, l’attenzione si sposta nel teatro del Pacifico, dove chi scrive cerca di sottolineare il ruolo e l’importanza che le portaerei ebbero in questo campo, dall’attacco giapponese alle Hawaii alla grande battaglia navale nel golfo di Leyte.

La tesi si conclude con uno spunto riflessivo sull’attualità e sul futuro delle portaerei, che negli ultimi anni sono diventate strumenti navali di cardinale importanza ma nel contempo costosissime, e facilmente affondabili da altre minacce insidiose come quella subacquea.

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CAPITOLO I

La politica navale internazionale tra le due Guerre

1.1 I trattati navali di Washington e Londra.

Il disarmo fu uno dei grandi temi della politica internazionale a cavallo tra le due guerre mondiali; alla sua realizzazione si impegnò per più di un decennio la Società delle Nazioni, tra i cui fini c’era quello di ridurre gli armamenti nazionali ad un livello compatibile con la sicurezza entro i propri confini e all’osservanza degli obblighi internazionali imposti da un’eventuale azione comune. Tuttavia l’intenso lavoro diplomatico di questa organizzazione non ebbe risultati pratici.

Sul finire del 1921 gli Stati Uniti (che non erano membri della Società delle Nazioni) promossero una conferenza per raggiungere una riduzione degli armamenti navali.

L’accordo riguardava solo le cinque principali potenze navali dell’epoca (ossia gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Giappone, l’Italia e la Francia) onde evitare di scatenare una nuova corsa agli armamenti sul mare che avrebbe spossato notevolmente le finanze pubbliche (cosa che preoccupava decisamente il governo di Washington)1.

La conferenza iniziò a Washington il 12 novembre 1921 e si concluse con l’omonimo trattato il 6 febbraio dell’anno seguente. Il trattato sanciva una gerarchia tra le nazioni e assegnava la possibilità di costruire naviglio pesante in rapporti ben specifici di tonnellaggio tra gli stati2.

U.S.A. e Gran Bretagna potevano costruire 525.000 tonnellate di nuove navi da battaglia, il Giappone 305.000 tonnellate e la Francia e l’Italia 175.000 tonnellate di questo tipo di unità.

1 G. Bernardi, Il disarmo navale fra le due guerre mondiali (1919-1939), Roma, Ufficio Storico della

Marina Militare, 1975, p. 7.

2 Per una fotografia della conferenza sul disarmo navale a Washington vedi in appendice l’allegato

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A seguito degli accordi di Washington l’Inghilterra fu raggiunta dagli U.S.A. perdendo lo storico primato in campo navale; tuttavia si era garantita un rapporto di forze di 3 a 2 rispetto alla somma del nuovo naviglio delle altre due Potenze europee: Italia e Francia.

Francia e Italia uscirono dalla conferenza in maniera decisamente opposta: Parigi infatti era stata declassata in confronto alle altre Potenze navali, Roma invece che si era presentata alla conferenza puntando solo timidamente ad un avvicinamento alla Francia, ottenne molto di più; un importante pareggio su livelli gestibili dalle finanze italiane3.

Se da un lato il Trattato di Washington aveva quindi evitato il braccio di ferro tra le prime tre Potenze navali del pianeta, dall’altro contribuì ad alimentare un clima di tensione tra Italia e Francia che influenzò le loro scelte politiche e navali nei successivi anni.

La conferenza navale di Washington si concluse senza un accordo sul naviglio leggero e subacqueo.

Ancora una volta il governo americano si fece promotore attraverso un’iniziativa che nel 1927 portò alla conferenza di Ginevra, a cui però né Italia né Francia aderirono. La conferenza fu un totale fallimento, soprattutto a causa della grande divergenza di vedute sul tema degli incrociatori da parte delle due Potenze anglofone.

Il governo britannico allora, nel 1930, a seguito di un preliminare accordo con quello statunitense, promosse una nuova conferenza a Londra per dirimere le questioni irrisolte a Ginevra da lì fino alla fine del 1936 (anno della scadenza del trattato di Washington). Alla conferenza, questa volta, parteciparono tutte e cinque le Potenze firmatarie del trattato di Washington, tuttavia la situazione di tensione politica (in particolare quella italo-francese) non permise di raggiungere accordi sostanziali. Fu allora, che su proposta italiana, si decise di non chiudere la conferenza ma bensì di aggiornarla, sperando in un futuro clima più disteso in grado di appianare la disputa franco-italiana.

La situazione a cavallo tra il 1935 e il 1936 era mutata al punto da compromettere i delicati assetti internazionali che con fatica erano stati raggiunti fino a quel momento. Durante gli incontri preliminari alla seconda conferenza di Londra, i nipponici si convinsero che non gli

3 E. Bagnasco-A. De Toro, Le navi da battaglia classe Littorio (1937-1948), Parma, Albertelli, 2008,

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sarebbe stata concessa la parità con le Potenze anglofone e così già il 29 dicembre 1934 denunciarono unilateralmente il trattato di Washington e ripresero piena libertà di manovra. Inoltre Italia e Gran Bretagna avevano inasprito le loro relazioni diplomatiche a seguito della Guerra d’Etiopia.

Dunque, il contesto in cui si svolse la seconda conferenza navale a Londra nel dicembre 1935, permise il raggiungimento di un accordo solo tra Francia, Inghilterra e U.S.A. e dopotutto le limitazioni furono più che altro fittizie, poiché su pressione americana era stata inserita una “clausola di escalation” che elevava i limiti di dislocamento e armamento se il Giappone o l’Italia si fossero rifiutati ancora di firmare la convenzione dopo il 1° aprile 1937 (cosa che avvenne nel caso giapponese).

Conseguentemente fallì in principio il progetto di accordo per la riduzione dell’armamento navale e ciascuna Potenza divenne libera di realizzare la flotta che reputava più conveniente ai propri bisogni, ergo fu la fine della cosiddetta “vacanza navale”.

1.2 Le idee risolutive per la supremazia marittima in ambito nazionale.

Durante gli anni Venti lo Stato Maggiore della Regia Marina prese in esame un programma navale pluriennale di costruzioni per garantire un rinnovamento e un incremento della flotta in modo sistematico e organico.

A tale scopo furono effettuati vari studi; fu però solo nel febbraio 1929 che lo Stato Maggiore della Marina formulò un documento per fissare i punti cardine del rinnovamento della flotta e affrontare eventuali esigenze complementari (ad esempio una cooperazione aeronavale o l’idea di una portaerei sperimentale).

Il documento in questione affrontava il problema del mantenimento delle corazzate già esistenti e quello della costruzione di nuove.

In realtà il contesto visto in precedenza ebbe una fortissima influenza sulle scelte politico-navali, basti pensare che tra gli argomenti a favore del mantenimento delle vecchie unità si annoverava quello della posizione italiana quale quarta Potenza navale in funzione del possesso di navi da battaglia.

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Gli argomenti a sfavore erano invece di carattere tecnico: le corazzate classe “Conte di Cavour” e classe “Duilio” erano state varate rispettivamente nel 1911 e nel 1913, ossia erano di concezione decisamente superata4.

Incideva inoltre il fatto che mantenerle o ammodernarle rappresentasse un pesante onere finanziario che si sarebbe riflesso anche riducendo i fondi per il rinnovamento del naviglio leggero. Mantenerle appariva evidentemente come un’illusione di forza.

Il pensiero invece verso l’adozione di nuove grandi navi da battaglia da parte dei vertici della Regia Marina era senza dubbio favorevole.

Uno dei principali problemi di fondo nell’impreparazione della Regia Marina all’alba della Seconda Guerra Mondiale fu lo sviluppo della flotta senza una logica programmazione in relazione non solo al tessuto economico-infrastrutturale nazionale, ma in relazione al contesto geografico e alle relative potenzialità operative delle unità.

Lo sviluppo della flotta fu principalmente dettato dall’orgoglioso desiderio di ribattere, volta per volta, le contemporanee realizzazioni navali della Francia, che rappresentava da diversi anni la principale antagonista marittima nel teatro mediterraneo.

Questa politica diede fatalmente origine a una flotta poco equilibrata: con unità da 10.000 tonnellate e cannoni da 203 millimetri, giustificabili in una Marina dalle caratteristiche oceaniche come quella francese, ma che nel Mar Mediterraneo erano meno utili a parità di spesa (di un numero magari maggiore) di navi da 7.000 tonnellate con cannoni calibro 152 millimetri.5

Nel dicembre 1932 la Francia iniziò la costruzione di una nave da battaglia da 23.000 tonnellate (poi aumentate) in risposta alla “corazzata tascabile” tedesca Deutschland che, nonostante rispettasse i limiti del trattato di Versailles, con i suoi cannoni da 280 millimetri svalutava tutti i precedenti incrociatori pesanti.

Fu allora che come risposta ai francesi la Regia Marina avviò il programma di ricostruzione e ammodernamento delle vetuste corazzate Conte di Cavour e Giulio Cesare.6

Nello stesso periodo, si arenarono le trattative di accordo sul riarmo navale tra Roma e Parigi, e quest’ultima, maggiormente impensierita dal riarmo tedesco in atto, scelse di includere nel

4 Per una fotografia della corazzata Conte di Cavour vedi in appendice l’allegato 2.

5 A. Santoni, Storia e politica navale dell’età contemporanea, Roma, Ufficio Storico della Marina

Militare, 2003, p. 184.

6 Per una fotografia della corazzata Conte di Cavour dopo i lavori di ammodernamento vedi in

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suo programma navale del 1934 una seconda unità gemella della Dunkerque chiamata Strasbourg.

L’Italia, nonostante gli attriti con la Potenza transalpina, da un punto di vista politico aveva dimostrato tutte le migliori intenzioni per il raggiungimento di un accordo navale con la Francia e in un quadro internazionale era tutta responsabilità di quest’ultima il fallimento delle trattative.

Fu così che il capo di Stato Maggiore e sottosegretario di Stato alla Marina, l’ammiraglio di squadra Domenico Cavagnari, convinse il Duce a concretizzare i progetti di due navi da battaglia molto più armate e potenti con un dislocamento standard previsto da 35.000 tonnellate.

Il 28 ottobre 1934, con una solenne cerimonia, furono impostate le corazzate Littorio e Vittorio Veneto rispettivamente nei cantieri navali Ansaldo a Genova e San Marco Cantieri Riuniti dell’Adriatico a Trieste7.

Da questo momento in poi tutto scivolò verso un’inevitabile corsa agli armamenti navali: Parigi, infatti, considerò la risposta italiana spropositata, replicando con l’impostazione delle due grandi corazzate Richelieu e Jean Bart tra il 1935 e 1936.

Di conseguenza la Regia Marina iniziò il processo di riammodernamento delle vecchie corazzate Andrea Doria e Caio Duilio.

Infine nel biennio 1937-1938 la Regia Marina previde la costruzione di altre due corazzate da “35.000”: le navi da battaglia Roma e Impero; compiendo il massimo sforzo per il potenziamento della flotta che l’economia italiana potesse permettersi al tempo. Di queste ultime due unità solo la corazzata Roma entrò in servizio.

Sono chiare a questo punto la politica navale e le scelte costruttive della Regia Marina, diverse volte influenzate più dalle contingenze internazionali che da un criterio di oggettivo sviluppo del massimo potenziale bellico delle proprie navi, in funzione soprattutto della posizione italiana nello scacchiere mediterraneo.

A titolo di esempio: non si tenne conto, quando si decise di ammodernare le vecchie corazzate, che le nuove costruzioni navali avrebbero inesorabilmente svalutato le classi

7 Per un’immagine della corazzata Littorio vedi in appendice l’allegato 4, mentre per una fotografia

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“Conte di Cavour” e “Duilio” una volta ricostruite (cosa evidente fin dalle prime esperienze di guerra).

Inoltre in un frangente di difficoltà finanziaria per l’Italia, specie riguardo alle importazioni di materie prime, le forniture per le vecchie corazzate avrebbero interferito negativamente con quelle delle ben più importanti “Littorio” e infine che gli oneri per ricostruire queste unità sarebbero stati pari a quello della realizzazione di una nuova unità della classe. Le risorse e le energie destinate al rifacimento di queste unità, presto rivelatesi di seconda linea, sarebbero state meglio destinate alla costruzione di naviglio leggero o per accelerare il completamento di tutte le quattro grandi e moderne navi da battaglia.8

Dunque la Regia Marina concentrò i propri sforzi principalmente nel braccio di ferro con la Francia.

Rilevante fu, che tra la maggioranza dei vertici gerarchici italiani si fosse diffusa la convinzione che l’arma risolutiva, chiave degli scontri navali, fosse il cannone, il quale raggiungeva la sua massima espressione nelle corazzate.

1.3 Le proposte e gli sviluppi cantieristici delle flotte militari all’estero.

Per quanto riguarda le Marine estere, il dibattito tra le due Guerre Mondiali portò ad una evoluzione del pensiero strategico.

Era ancora saldamente chiaro che il compito principe di una forza navale fosse garantire il controllo dei mari, supportare l’esercito e mantenere aperto un canale logistico. Ma se il fine non era variato, erano variati i mezzi e le modalità per il suo raggiungimento.

Uno dei temi messo sotto i riflettori fu quello dell’aviazione navale.

Negli Stati Uniti e in Giappone il problema fu risolto non costituendo un’Aeronautica indipendente. Ciò consentì alle due Marine di sperimentare a lungo l’impiego dell’aereo da navi portaerei, in modo da trovarsi, all’inizio della guerra, non solo con un nucleo di queste

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unità efficienti ma, soprattutto, con idonei velivoli imbarcati e in possesso di tattiche adeguate per il loro impiego.

Mentre la U.S. Navy e la Marina Imperiale giapponese si mossero immediatamente verso questa direzione, la Royal Navy riuscì ad ottenere che l’aviazione imbarcata appartenesse ad essa e non alla R.A.F. solo nel 1937, decisamente in ritardo per crearsi una mentalità aeronavale e per avere aerei idonei e performanti.

È probabile che se la Regia Marina si fosse scontrata con un’aliquota della U.S. Navy o della Marina nipponica al posto della Marina britannica, sarebbe sopravvissuta allo scontro solo poche settimane e non per tre anni9.

Tuttavia nonostante le limitazioni accennate fin ora, le portaerei inglesi nel Mediterraneo si rivelarono uno strumento decisivo che fece la differenza tra la squadra navale italiana e quella britannica.

È pur vero che tutte le Marine mondiali, anche quelle dove l’aereo stava assumendo un ruolo importante, continuarono a costruire corazzate.

Questo tipo di nave da battaglia era ancora considerato durante il ventennio tra le due guerre come la Capital Ship delle squadre navali.

Questo fatto era da ricondursi all’incapacità delle portaerei di sopportare uno scontro a fuoco, persino con gli incrociatori, non essendo spesso provviste di corazzatura difensiva. Questo aspetto fu tanto evidente, che le portaerei vennero generalmente armate con cannoni da 203 millimetri, proprio per avere una certa possibilità di vittoria in uno scontro contro gli incrociatori avversari.

Alla fine della Grande Guerra la Marina britannica, quella che più di tutte aveva impiegato l’aviazione imbarcata, si trovò in una posizione di vantaggio rispetto alle altre Marine oceaniche avendo accumulato esperienza bellica in questo campo.

A sostegno di quanto appena riportato, basti pensare che tutte le altre Marine mondiali, nei primi anni Venti, ponevano in cantiere o trasformavano navi esistenti in portaerei, che servivano soprattutto come navi sperimentali.

9 A. Flamigni, Evoluzione del potere marittimo nella Storia, Roma, Ufficio Storico della Marina

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Al contrario l’Inghilterra, già nel gennaio 1918, impostò una nave: la H.M.S. Hermes, quale prima unità progettata effettivamente come portaerei.

Gli inglesi utilizzarono progetti studiati attraverso modelli nelle gallerie aerodinamiche per avere la migliore soluzione al problema dell’eliminazione dei gas combusti. Grazie a questi studi riuscirono a capire che la soluzione più congeniale prevedesse la sistemazione di condotti del fumo verticali, riuniti in uno o due fumaioli disposti lungo una struttura laterale chiamata “isola laterale” comprendente anche la plancia.

In questo modo si evitavano i pericolosi vortici prodotti dall’aria calda a centro nave, si lasciava il ponte di volo libero per la sua intera lunghezza e l’isola laterale offriva un riferimento ai piloti in fase di atterraggio, facilitando l’esatta percezione del ponte di volo che altrimenti non si sarebbe potuta avere in modo altrettanto soddisfacente.

Tuttavia la soluzione ad “isola” non era esente da inconvenienti: primo tra tutti comportava un peso eccentrico rispetto al piano di simmetria della nave. Per compensare un simile squilibrio bisognava sistemare dal lato opposto all’isola la maggioranza dei macchinari ausiliari, dei depositi combustibile e delle casse d’acqua.

Queste soluzioni furono messe in atto sia sulla Eagle che sulla Hermes che entrarono in forza alla squadra navale rispettivamente nel 1920 e nel 1923.10

Nel 1935 la Marina di Sua Maestà iniziò la costruzione di una nuova portaerei, progettata come tale, a cui furono applicati tutti i perfezionamenti derivanti dall’esperienza degli anni precedenti: la H.M.S. Ark Royal.

La nave aveva un dislocamento di 22.000 tonnellate e una lunghezza massima di 244 metri, era difesa da 16 cannoni navali antiaerei da 114 millimetri disposti su impianti binati, otto complessi di mitragliere, l’apparato motore garantiva una velocità massima di 30 nodi e poteva imbarcare una sessantina di velivoli.11

Tra il 1937 e il 1941 la Gran Bretagna costruì nei suoi cantieri navali le successive quattro unità portaerei della classe “Illustrious” e nel 1944 le due unità della classe “Implacable”. Per quanto attinente alle navi da battaglia o ai grandi incrociatori, la Royal Navy manteneva in forza alla flotta le vetuste corazzate della classe “Queen Elizabeth” (superstiti della Prima

10 L. Accorsi, La Nave Portaerei, Roma, Aeronautica-Stabilimento Fotomeccanico, 1948, p. 20.

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Guerra Mondiale) e l’incrociatore da battaglia H.M.S. Hood considerato uno dei gioielli della Marina britannica.

L’Inghilterra, al termine della Grande Guerra, tentava di mantenere una ormai, sempre più sottile, superiorità navale nei confronti delle Marine emergenti come quella giapponese o soprattutto, quella americana; perciò l’Ammiragliato britannico iniziò lo studio di grandi navi da battaglia armate di calibri fino a 457 millimetri e incrociatori da battaglia con cannoni da 406 millimetri.

Lo sviluppo di questi studi fu modificato profondamente a seguito degli accordi navali di Washington; gli inglesi infatti, dovettero effettuare una serie di compromessi e revisioni progettuali che portarono alla nascita della H.M.S. Nelson e H.M.S. Rodney (varate entrambe nel 1925).

All’alba della Seconda Guerra Mondiale furono varate le moderne corazzate della classe “King George V” che rappresentarono le migliori navi di questa categoria a servire la flotta inglese.12

Erano caratterizzate da un precipuo dislocamento fissato a 35.000 tonnellate, armate con le inconfondibili torri britanniche quadrinate calibro 356 millimetri che, anche se di calibro modesto rispetto a quelli avversari, erano capaci di ottime prestazioni e affidabilità. Le navi si presentavano compatte e leggere, capaci di velocità massime di 29 nodi e ampia autonomia.

Per i nipponici la grande importanza riposta nelle portaerei e nell’aviazione navale si concretizzò soprattutto tra il 1927 e il 1930 con la costruzione delle portaerei Kaga e Akagi, ottenute dalla trasformazione di una corazzata e di un incrociatore pesante.

Queste due portaerei, in grado di imbarcare oltre sessanta velivoli, rappresentarono un traguardo ingegneristico importantissimo per l’Impero del Sol Levante.

Il Giappone lavorò con altre nazioni nello sviluppo delle forze aeronavali: dal 1921 al 1923 collaborò nella missione inglese “Sempill”, consistente in una azione di supporto e sviluppo delle forze aeronavali presso la base di Kasumigaura.

Al termine di questo periodo i giapponesi appresero conoscenze e competenze approfondite in ambito aeronavale, ma a dimostrazione della lungimiranza e della fiducia crescente in

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questo nuovo ambito, svilupparono tattiche e mezzi negli anni successivi decisamente superiori a quelli britannici.

Tra il 1935 e il 1937 entrarono in servizio gli incrociatori classe “Mogami”, che segnarono un altro importante passo in avanti nella difesa antiaerea: infatti questa classe era equipaggiata con ben cinque torri trinate da 155 millimetri, capaci di raggiungere i 55° in elevazione. Ciò avrebbe consentito l’ingaggio di bersagli sia di superficie che aerei.13

Il pericolo dello sviluppo di mezzi e tattiche di attacco aeronavale non fu mai sottovalutato dalla Marina nipponica; essa infatti, previde la dotazione per le nuove unità di protezione antiaerea.

Come tutte le altre grandi flotte mondiali, la flotta del Sol Levante non rinunciò alla costruzione di grandi corazzate: gli studi effettuati portarono alla creazione di ben ventitré progetti diversi e solo nel marzo 1937, a seguito di lunghe sperimentazioni fu elaborato il progetto definitivo di una nave da battaglia da oltre 60.000 tonnellate di dislocamento, ampia autonomia, velocità di punta di 27 nodi, armamento su nove pezzi da 460 millimetri, una corazzatura capace di resistere a proietti dello stesso calibro e controcarene tali da permettere di sopportare esplosioni di siluri con una testa in guerra da 300 chilogrammi.

L’8 agosto 1940 fu varata la prima di queste unità: la Yamato che entrò in servizio il 16 dicembre 1941. La sua gemella, la Musashi venne varata il 5 agosto 1942; mentre la terza unità della classe, la Shinano fu convertita in una portaerei.14

Il Giappone, nel 1939 iniziò anche degli studi per il progetto di una nuova classe di super corazzate per la Marina Imperiale giapponese, che avrebbe dovuto succedere alla classe “Yamato”. Il progetto, noto come “A150” era quasi completo nel 1941, quando a seguito della battaglia delle isole Midway, si capì che la realizzazione avrebbe richiesto uno spropositato numero di risorse, impedendo così di soddisfare le richieste per altri tipi di navi. Ergo il progetto fu cancellato, senza che nessuno dei due esemplari previsti fosse impostato. Il progetto tuttavia, era ritenuto estremamente ambizioso: le navi avrebbero avuto un dislocamento compreso tra le 60.000 e le 70.000 tonnellate e cannoni da 510 millimetri.

13 M. Stille, Imperial Japanese Navy heavy cruisers 1941–45, London, Bloomsbury Publishing,

2012, p. 32.

14 M. Stille, Imperial Japanese Navy battleships 1941-45, Oxford, Osprey Publishing, 2008, pp.

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Purtroppo aleggia una certa vaghezza su questi dati, in quanto i nipponici distrussero tutti i disegni e i progetti di queste unità alla fine della Seconda Guerra Mondiale

Proprio come il Giappone anche gli Stati Uniti nel periodo tra le due guerre, avevano riposto grande fiducia nello sviluppo dell’aviazione navale vedendone con ottima lungimiranza il suo ruolo chiave nella supremazia marittima.

Gli americani furono pionieri in questo campo, tra il 1920 e 1922 trasformarono in portaerei la carboniera Jupiter rinominata Langley. Essa segnò un importante traguardo ingegneristico-navale essendo dotata di un ponte di volo completamente sgombro, con i fumaioli sistemati all’esterno e abbattibili orizzontalmente. Il principale neo di questa nave era la velocità che non superava i 16 nodi.

Anche i due grandi incrociatori da battaglia U.S.S. Saratoga e U.S.S. Lexington impostati nel biennio 1920-1921 furono prontamente riconvertiti, riducendo il loro dislocamento da 43.500 tonnellate a 33.000 tonnellate standard, rimuovendo le quattro pesanti torri binate da 406 millimetri e la relativa corazzatura.15

Rispetto alla Langley le due portaerei Saratoga e Lexington riuscivano a mantenere velocità di punta superiori a 30 nodi: garantendo così il principio fondamentale dell’interoperabilità con il resto della flotta di superficie, senza doverne limitare la velocità in formazione. Nel 1931 fu impostata la portaerei U.S.S. Ranger con un dislocamento di 14.500 tonnellate, capace di raggiungere i 29 nodi e dotata di un ponte di volo lungo oltre 200 metri.

Grazie all’esperienza maturata con la Ranger la U.S. Navy nel 1934 iniziò la costruzione delle due navi portaerei classe “Yorktown”.

Queste erano veri e propri gioielli cantieristici dell’epoca: per rispettare il limite dei trattati navali il dislocamento venne mantenuto a 20.000 tonnellate, garantendo ottima corazzatura difensiva, un apparato motore capace di generare velocità massime di 32 nodi, otto cannoni da 127 millimetri e la possibilità di imbarcare circa 80 velivoli.

Con la U.S.S. Wasp messa in cantiere nel 1936 e la U.S.S. Hornet varata nel 1940 terminarono le realizzazioni statunitensi di questa categoria di navi prima del loro ingresso nel Secondo Conflitto Mondiale.

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Per quanto riguarda invece le grandi navi da battaglia, la Marina statunitense aveva interrotto la costruzione della classe “Colorado” in ottemperanza agli accordi navali di Washington del 1922.

Durante il quindicennio che intercorse tra il Trattato di Washington e quello di Londra del 1936, la produzione di questa tipologia rimase a tutti gli effetti congelata, favorendo indirettamente la sperimentazione di altre navi e allontanando gli U.S.A. da quello che Samuel Eliot Morison definì: “Big gun club”16.

La situazione, in effetti, cambiò al termine della “vacanza navale”, quando gli U.S.A. iniziarono a essere preoccupati per il riarmo giapponese in Estremo Oriente.

Nel biennio 1937-1938 furono impostate rispettivamente la USS North Carolina e la sua gemella USS Washington, esse raggiungevano il peso di 36.000 tonnellate a vuoto,

montavano nove cannoni da 406/45 ed erano fornite di una buona difesa antiaerea. Corazzatura e velocità avevano raggiunto un ottimo compromesso.

Preoccupati di una eventuale, se pur lontana, minaccia tedesca nell’Atlantico, gli ingegneri statunitensi svilupparono sulla base dei progetti della classe “North Carolina” una seconda classe di corazzate a cavallo tra il 1939 e il 1940: la classe “South Dakota”.

Le quattro corazzate USS South Dakota, USS Indiana, USS Massachusetts e USS Alabama condividevano con la classe precedente moltissime caratteristiche come ad esempio il calibro massimo dell’artiglieria, ma ne miglioravano molti altri aspetti come la corazzatura e le forme idrodinamiche.

Questa classe fu l’ultima partorita dai cantieri navali americani prima del conflitto, ad eccezione della USS Alabama che venne varata nel febbraio del 1942, ossia quando gli Stati Uniti erano già entrati in guerra a seguito dell’attacco a Pearl Harbor del dicembre precedente.

Nel corso della Seconda Guerra Mondiale gli americani diedero fondo a tutte le loro capacità ingegneristiche, scientifiche, siderurgiche e industriali nel tentativo di ridurre il gap con il Giappone all’inizio delle ostilità: tale sforzo fu incredibilmente fruttifero e permise la

16 S.E. Morison, The Two-Ocean War: A Short History of the United States Navy in the Second

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realizzazione di progetti impressionanti come la bomba atomica, o in ambito navale le portaerei classe “Essex” o le supercorazzate classe “Iowa”.17

Quest’ultima classe di navi da battaglia è considerata dalla storiografia contemporanea la migliore di sempre, superando anche le rivali giapponesi della classe “Yamato”.

La classe era composta dalla capoclasse USS Iowa, dalla USS New Jersey, dalla USS

Missouri e dalla USS Wisconsin; tutte varate a cavallo tra il 1942 e il 1943. Dotate di nove cannoni calibro 406/50 su impianti trinati erano dei veri e propri mostri lunghi

270 metri e dal dislocamento superiore alle 57.500 tonnellate a pieno carico. Le otto caldaie a vapore da 212.000 cavalli garantivano prestazioni impressionanti: 33 nodi di velocità massima e 9.500 miglia a velocità di crociera di 25 nodi. La corazzatura principale raggiungeva i 307 millimetri, mentre le torri d’artiglieria si inspessivano anche fino a 440 millimetri. Al termine della guerra gli Stati Uniti mantennero in servizio queste navi per altri quarant’anni.

La Francia invece aveva iniziato tardivamente lo sviluppo di una flotta con portaerei integrate, per cui le due unità della classe “Joffre”, di cui fu messa in cantiere nel 1938 solo la capoclasse omonima, non entrarono mai in servizio, questo poiché allo scoppio delle ostilità la Joffre si trovava ancora sullo scalo mentre la gemella Painlevé non era ancora stata impostata.18

Tutt’altro discorso invece fu fatto per le navi da battaglia: la Marina francese infatti, iniziò negli anni Trenta diversi progetti importanti, spinta principalmente dal timore del riarmo tedesco e dal gioco di forze con la Regia Marina.

Alimentata da questo particolare clima, iniziò una pericolosa spirale di riarmo navale della potenza transalpina che portò all’impostazione nel 1934 della classe “Dunkerque” e nel 1935 delle “Richelieu” come risposta alle “Littorio” italiane.

La Richelieu fu l’unica nave da battaglia ad essere quasi completamente ultimata, mentre la gemella Jean Bart era ancora in fase di allestimento quando la Francia capitolò.

Il Terzo Reich commissionò la classe di portaerei “Graf Zeppelin” nel novembre 1935 e i lavori di costruzione iniziarono l’anno successivo, tuttavia i lavori furono interrotti nel 1939

17 Per un’immagine della corazzata Iowa vedi in appendice l’allegato 7. 18 L. Accorsi, La Nave Portaerei, cit., p. 36.

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principalmente a causa dell’influenza di Göring, che non vedeva di buon occhio intrusioni nella sua aviazione.

Una caratteristica di questa unità era il potente armamento di artiglieria, comprendente 16 cannoni da 150 millimetri, 10 da 105 millimetri e 22 cannoni antiaerei; la corazzatura prevista era integrata da controcarene esterne contro le esplosioni subacquee. 19

Il piano di riarmo navale tedesco prevedeva un numero di grandi navi da guerra che non poteva competere con quello della Gran Bretagna o della Francia. La Germania puntava piuttosto a costruire unità qualitativamente all’avanguardia.

Le prime navi ad entrare in servizio furono le corazzate “tascabili” classe “Deutschland”, che vincolate dai trattati di Versailles, avevano un dislocamento e un armamento molto più modesto delle vere corazzate.

Come riportato poc’anzi, la Germania puntava soprattutto alla qualità delle proprie navi e in questo caso tali unità seguivano una filosofia riassumibile nella frase: “Più potente di qualunque nave più veloce, più veloce di qualunque nave più potente”; ossia il perfetto connubio tra velocità, armamento e corazzatura.

Nel 1936 fu impostata, nei cantieri navali di Amburgo, la corazzata Bismarck e varata pochi mesi prima della guerra. Si trattava di una nave (come la sua gemella Tirpitz) da 45.000 tonnellate standard, lunga 251 metri, con velocità massima di 30 nodi e ampia autonomia. La Kriegsmarine la dotò di quattro torri binate da 380 millimetri ognuna delle quali pesava ben 1.056 tonnellate.

L’armamento secondario si articolava su sei torrette binate con calibro 150 millimetri e la componente antiaerea era divisa in sedici cannoni calibro 37/83 millimetri e 32 mitragliere calibro 20/70 millimetri. Per completare la flotta di superficie, furono varati tra il 1937 e il 1939 gli incrociatori pesanti classe “Admiral Hipper”, ma dei cinque previsti solo tre furono completati. Anche in questo caso la Germania si distinse per la superba qualità di queste navi.

Tutte queste unità erano parte di un più imponente progetto di sviluppo della flotta tedesca, i cui vertici, fin dal 1930, avevano svolto lunghe discussioni circa la linea da seguire nell'ambito delle costruzioni navali. Alla fine furono individuati due possibili scenari:

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realizzare un’imponente flotta di superficie, dotata di corazzate, portaerei e incrociatori con elevato tonnellaggio, tale da permettere di scontrarsi in condizione di parità con le Marine britannica e francese per il controllo degli oceani. Oppure vertere verso una vasta flotta di sommergibili e poche unità di superficie con dislocamento minore ma di maggiore velocità, tali da eludere il prevedibile blocco dei porti tedeschi da parte dei britannici ed attaccare il traffico mercantile nemico.

Sebbene il comandante della Kriegsmarine, il grandammiraglio Erich Albert Raeder optasse per la seconda opzione, soprattutto perché era di più rapida realizzazione e rappresentava una notevole minaccia per il Regno Unito (nazione notoriamente dipendente dai traffici mercantili), sul finire del 1938 lo Stato Maggiore della Marina optò infine per la prima, una scelta pienamente condivisa anche da Hitler.

Nel gennaio 1939 il Führer firmò un nuovo ed ambizioso piano di costruzioni navali, denominato Piano Z. Il piano prevedeva di aggiungere alle già esistenti unità navali tedesche: sei corazzate della progettata classe “H”, navi da 60.000 tonnellate di dislocamento ed armate con 8 cannoni da 400 millimetri; quattro portaerei della classe “Graf Zeppelin”, due già in costruzione ed altre due progettate; tre incrociatori da battaglia della classe “O”, unità con un peso previsto di 35.000 tonnellate armate con 6 cannoni da 380 millimetri, essenzialmente una versione migliorata delle già realizzate unità della classe “Scharnhorst”; dodici corazzate tascabili della progettata classe “P”, degli ibridi tra incrociatori e corazzate con 23.000 tonnellate di dislocamento ed armate con 6 cannoni da 280 millimetri, in questo caso il progetto prendeva spunto delle corazzate tascabili “Deutschland”; sei incrociatori pesanti della classe “Admiral Hipper”, navi da 18.000 tonnellate di dislocamento ed armate con 8 cannoni da 203 millimetri, da aggiungersi alle cinque unità in via di completamento; sei incrociatori leggeri della progettata classe “M”, navi da 8.500 tonnellate armate con 8 cannoni da 150 millimetri; ventidue “Spähkreuzer”, dei cacciatorpediniere di grosse dimensioni e talvolta classificati come esploratori, ulteriori 50 cacciatorpediniere e 200 sommergibili.

Inoltre, il piano progettava di incrementare l'organico della Kriegsmarine fino a 200.000 uomini, oltre a prevedere la realizzazione, in collaborazione con la Luftwaffe, di versioni imbarcabili dei caccia “Messerschmitt Bf 109” e dei bombardieri in picchiata “Junkers Ju 87”.

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Per realizzare l'imponente piano era stata stimata una spesa di 33 miliardi di marchi, mentre il suo completamento non era previsto prima del 1946. Tuttavia, il 28 aprile 1939 la Germania si ritirò unilateralmente dall'accordo navale anglo-tedesco, facendo presagire un'imminente guerra tra le due nazioni; il 3 settembre seguente, con la dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Regno Unito e Francia, il Piano Z venne accantonato: invece di costruire le poderose corazzate da esso previste, la priorità venne invece data alla realizzazione di sommergibili, più rapidi e meno costosi da produrre. Bisogna precisare che fino a quel momento, il Piano Z era a malapena agli inizi: due delle corazzate della classe “H” e due degli incrociatori leggeri della classe “M” erano stati da poco impostati, ma la costruzione delle prime venne interrotta nel novembre del 1941, mentre quella dei secondi venne fermata già a metà del settembre del 1939.20

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CAPITOLO II

La nascita dell’aviazione navale e il problema aeronavale

italiano

2.1 Il pensiero militare italiano dal primo dopoguerra alla fine della

Seconda Guerra Mondiale.

“La prima congettura che si fa del cervello di uno signore, è vedere gli uomini che lui ha d’intorno.”21

La dottrina strategica della Regia Marina, maturata nel lungo intervallo tra le due Guerre Mondiali, era basata su una linea di pensiero difensiva attiva.

Il cosiddetto Mare Nostrum non era nostro che a parole, la Gran Bretagna con il suo grande arsenale di Malta e le sue basi a Gibilterra, Cipro, Haifa, Alessandria e Suez ne dominava gli accessi e i principali “choke points”.

La Francia con le sue basi strategiche di Tolone, Mers el Kebir (Orano) e Biserta era in posizione dominante nel bacino occidentale del Mediterraneo e con le sue forze navali dislocate a Beirut, poteva coordinare i suoi sforzi con quelli britannici.

La Grecia e la Jugoslavia non erano nazioni simpatizzanti del Regno d’Italia e potevamo fornire preziose basi, molto ben dislocate, ai nostri possibili avversari.

L’impero africano, non ancora pacificato, era di fatto isolato e non in grado di resistere con le sue sole risorse, inoltre le sue coste nel Mar Rosso e nell’Indiano erano minacciate dalle basi francesi e inglesi di Gibuti, Aden e Porto Sudan.

Spagna e Portogallo, ambedue in sintonia politica con l’Italia, non erano in grado di intervenire in nostro favore e l’atteggiamento della Turchia non era chiaro, ma appariva fortemente influenzato dalla politica britannica e dalla necessità di una sua neutralità legata al possesso degli stretti che collegavano Mediterraneo e Mar Nero.22

21 N. Machiavelli, Il Principe, Novara, Edipem, 1980, p. 87.

22 P. Ramoino, Una storia strategica della Marina Militare Italiana, supplemento a “Rivista

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I vertici gerarchici puntarono all’atteggiamento più conveniente per una Marina che in effetti non era in grado di competere con le forze navali alleate nel Mediterraneo.

L’obiettivo tuttavia, non era far restare la flotta da guerra inerte nei porti, ma disputarsi il dominio del mare con il nemico senza affrontarlo in una battaglia decisiva in condizioni ritenute svantaggiose, cercando invece di approfittare di ogni occasione proficua per attaccarlo in circostanze favorevoli.

Uno dei principali propugnatori di questa filosofia di guerra fu l’allora contrammiraglio Giuseppe Fioravanzo, stimatissimo negli ambienti della Marina.

Il contrammiraglio statunitense Alfred T. Mahan, considerato uno stratega al pari di Clausewitz in ambito navale, sosteneva invece che il principio fondamentale di tutta la guerra navale è insito nel fatto che la difesa è assicurata solo dall’offesa.

La strategia italiana si riassume nel concetto di “fleet in being” similmente a quella attuata dalla Marina tedesca nella Grande Guerra.

In effetti tale strategia portò alla conservazione di tutte le navi da battaglia, ad eccezione delle corazzate Roma che, equipaggiata con rudimentali contromisure per la lotta aerea, fu affondata con risibile facilità da un aereo dell’ex alleato, con la morte di 1.352 marinai; e Conte di Cavour, che fu seriamente danneggiata durate l’attacco inglese a Taranto e rimase ai lavori fino alla data dell’armistizio, passando sotto il controllo dei tedeschi e venendo nuovamente colpita dagli attacchi aerei Alleati su Trieste capovolgendosi definitivamente, venendo radiata e demolita nel secondo dopoguerra.

Un altro dei protagonisti di quest’analisi, il cui pensiero strategico influenzò fortemente la Regia Marina, fu l’ammiraglio Domenico Cavagnari.

Nella riunione dei vertici militari, che si tenne il 13 agosto 1935, presso il capo di Stato Maggiore Generale, maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, al fine di esaminare le eventuali contromisure per fronteggiare la situazione di estrema tensione venutasi a creare con la Gran Bretagna, Cavagnari non fece mistero della netta inferiorità della Marina italiana rispetto a quella inglese.

Tale gap tra le due Marine, unito alle deficienze dell’Arma aerea appena nata, avrebbe reso un possibile scontro con la Gran Bretagna molto drammatico.23

23 R. Bernotti, Storia della guerra nel Mediterraneo (1940-43), Roma, Vito Bianco Editore, 1960,

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Sebbene anche a posteriori questo pensiero si rivelò lucido e plausibile, Cavagnari attribuì le responsabilità di questa situazione alla mancanza da parte italiana di valide navi da battaglia.

In quel contesto, Cavagnari avanzò l’idea che la costruzione di navi corazzate avrebbe avuto una capacità dissuasiva nei confronti del nemico; applicando un concetto molto famoso in ambito di strategia navale: ossia il precedentemente citato “fleet in being”. Cavagnari, inoltre, volle fortemente la creazione di un organo centrale di controllo delle operazioni della flotta in mare, ed è per questo che il 1° giugno 1940, nacque Supermarina (Supremo Comando della Marina).

Il compito primario di questo organo era promuovere e dirigere a livello strategico le operazioni belliche e aveva ai suoi ordini l’intero apparato della Regia Marina.

Per fare un’analogia, poteva essere visto come il cervello che guidava la flotta, rimanendo fuori dai teatri operativi.24

Tuttavia l’accentramento decisionale insito nel ruolo di questo organo direttivo, fece sì che Supermarina intervenne continuamente e pesantemente sulla condotta del comandante in mare che, in teoria, decide da solo e autonomamente in base alla situazione in cui si trova. Di fatto, invece, l'ufficiale in comando era ridotto a mero esecutore di ordini, cui era affidata solo la parte tattica dell’azione.

Al contrario nella flotta britannica lo spirito offensivo dei comandanti in mare era una costante, ad esempio l'ammiraglio comandante della flotta nel Mediterraneo dirigeva le operazioni “sul posto”, muovendosi con larga autonomia da Londra.

Altro principio basilare dell’ammiraglio Cavagnari, fu il deciso rifiuto della nave portaerei, ritenuta “una nave inutile”, facendo sua la tesi sostenuta da quasi tutti i vertici della Regia Marina.

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2.2 La portaerei nella Regia Marina: idee e progetti.

L’Italia è una grande penisola che si estende al centro del Mar Mediterraneo, la sua posizione privilegiata ne garantisce il controllo sui mari adiacenti e fa di essa una gigantesca portaerei inaffondabile. Era questa l’idea che si era fatta strada nelle file degli alti comandi italiani. La guerra sfatò quest’assurdità.

La supremazia aerea sul Mediterraneo sarebbe stata appannaggio esclusivo della Regia Aeronautica, ed era principalmente per questo motivo che si optò per non costruire navi portaerei prima dell’inizio del conflitto.

L’11 agosto 1925, Mussolini, non ancora Duce onnisciente, si presentò al Comitato degli ammiragli dicendo di essere lì per imparare; dimostrando in tal modo di non essere prevenuto sul tema in oggetto, ossia la portaerei. In questa sede tuttavia, tra gli ammiragli presenti nove su dieci, si espressero con un parere decisamente contrario.

Solo il generale del Genio Navale Giuseppe Rota si mostrò favorevole, proponendo anche un suo personale progetto, tuttavia fu tacitato dalla massa dei dissenzienti.25

Se nel 1925 era possibile addurre come giustificazione alla rinuncia di una nave portaerei, anche la ristrettezza di un eventuale bacino operativo, nel 1935, con l’impresa in Etiopia, veniva meno questa pretesa.

Infatti la Regia Marina nel biennio 1935-1936 si interessò molto all’idea di una “flotta d’evasione oceanica” capace di trasportare con sé la componente aerea che le basi terrestri non erano più in grado di assicurare al di fuori del Mediterraneo.

Quando questa necessità svanì (anche per la parziale distensione dei rapporti diplomatici con Londra), cessarono parallelamente le fugaci aspirazioni di un potere aereo imbarcato, tanto è vero che nel agosto 1936 lo stesso capo di Stato Maggiore della Regia Marina, l’ammiraglio Cavagnari bocciò nuovamente e perentoriamente ogni ipotesi al riguardo26.

Cavagnari non era l’unico scettico tra i capi della Regia Marina.

Altri importanti ammiragli condividevano il suo diniego all’idea di sviluppare progetti per costruire navi portaerei, tra questi si possono citare gli ammiragli Virgilio Spigai, Angelo Iachino e Luigi Sansonetti, (al tempo rispettivamente capitano di corvetta, contrammiraglio, capitano di vascello) i quali raggiunsero in guerra, posizioni di vertice che favorirono ulteriormente l’influenza delle loro idee in merito a questo argomento.

25 A. Santoni, Storia e politica navale dell’età contemporanea, cit., p. 190. 26 Ivi, p. 191.

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Fu solo a guerra iniziata e successivamente all’attacco alla flotta italiana a Taranto, che Mussolini e i capi della Regia Marina iniziarono a capire l’importanza strategica di una nave come la portaerei. Fu proprio lo stesso Duce, a prendere l’iniziativa, sollecitando la conversione del transatlantico Roma in una nave portaerei.

L’ordine, impartito il 20 gennaio 1941, fu ottemperato soltanto nel luglio successivo, a causa di alcune obiezioni tecniche sollevate dalla Regia Marina, mentre lo Stato Maggiore dell’Aeronautica aveva espresso la sua disponibilità a studiare la questione.

Fatalmente, il tempo perduto non fu recuperato, cosicché la Marina italiana entrò in guerra senza portaerei e non poté mai schierarne una dal momento che la conversione del transatlantico Roma nella portaerei che si sarebbe dovuta chiamare Aquila non era ancora completa alla proclamazione dell’armistizio.27

La nave aveva una lunghezza del ponte di volo prevista di 211 metri e larghezza 20. Richiedeva 34 cacciabombardieri imbarcabili alla Regia Aeronautica, specificando che i velivoli dovevano avere le ali ripiegabili.28

L’Aeronautica fece sapere che erano necessari circa due anni per lo studio e la soluzione del problema e preliminarmente, precisò che i piloti dovevano essere dell’Arma aerea.

La durata dei lavori fu calcolata di circa nove mesi, poi saliti a quindici: si trasformò la prua, fu sostituito completamente l’apparato motore, si costruì un’aviorimessa di 160 metri. Con un dislocamento di 27.000 tonnellate, la velocità avrebbe raggiunto i 30 nodi. Era previsto anche un armamento antinave e antiaereo con otto torri singole scudate calibro 135/45 e ben 132 mitragliere Breda da 20/65. Nell’estate 1942 s’iniziò a sperimentare l’appontaggio su una normale pista di volo con la sistemazione di cavi in uso sulle portaerei. L’aereo prescelto fu il “Re 2001 Falco II” con un motore tedesco.

Una seconda possibile nave, lo Sparviero, ricavato dalla conversione della motonave Augustus, era in quel momento in fase di costruzione ancora più arretrata.29 Un’importante

peculiarità, da sempre invidiata, della Regia Marina, era il fecondo spirito d’iniziativa individuale del passato, che durante il ventennio fascista venne a spegnarsi poco a poco, sostituito da una diffusa tendenza al conformismo.

Per tanto, fu difficile che l’idea di una nave portaerei riuscisse a svilupparsi con successo in un contesto che la osteggiava già dalle sue fasi embrionali. Durante il conflitto, quando fu

27 Ivi p. 192.

28 Per una fotografia della portaerei Aquila vedi in appendice l’allegato 8.

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chiaro che la nave portaerei era un elemento imprescindibile per la completezza di una flotta, nacque un clima che per certi versi rasentava improvvisazione e pressapochismo, e che caratterizzò l’azione della Regia Marina, soprattutto nella volontà di ridurre il distacco con gli inglesi, i quali tuttavia avevano iniziato studi ed esperienze già nel corso della Grande Guerra.

È lecito domandarsi quanto tempo sarebbe passato prima dell’entrata in servizio di un eventuale portaerei italiana, quanto tempo sarebbe passato per l’addestramento del reparto aereo, quanto tempo sarebbe passato per la risoluzione degli innumerevoli problemi tecnici per una Marina completamente all’oscuro sulle tecniche costruttive e addestrative che il nuovo mezzo comportava.

2.3 I siluri arrivano dal cielo: gli aerosiluranti come arma aggiuntiva.

Tutte le navi da guerra erano dotate di spesse corazzature su tutte le sovrastrutture principali, che le proteggevano da sostanziali danni in caso di bombardamento dall’alto. Quando le navi non erano ferme in porto, erano un bersaglio molto difficile, sia per il cospicuo fuoco antiaereo che alcune grandi unità militari erano in grado di produrre a distanza ravvicinata, sia perché colpire un bersaglio puntiforme in quota è oggettivamente difficile anche se si adoperano traguardi di puntamento molto complessi (come per esempio, il traguardo di puntamento “Norden” dei bombardieri americani della Seconda Guerra Mondiale).30

Per questi motivi, fin dal Primo Conflitto Mondiale alcuni aerei furono messi in condizione di portare un siluro, prima sperimentalmente, poi sin dalla progettazione (sia come varianti specifiche di bombardieri, sia come aerei specializzati). L'Italia fu tra le prime nazioni a sperimentare l’attacco con il siluro (con i “Ca. 33” nella Prima Guerra Mondiale, ma senza esito) e già dopo il 1920 furono eseguite prove di aerosiluramento.

L'Aviazione italiana però rinunciò a creare specifiche squadriglie di aerosiluranti fino al tardo 1940, quando questo tipo di apparecchi aveva rivelato la sua validità, soprattutto contro la flotta italiana come dimostrarono i britannici.

28 A. Price, I bombardieri nella Seconda Guerra Mondiale, Spezia, Fratelli Melita Editori, 1992,

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Proprio questi ultimi, erano stati gli altri grandi sperimentatori del siluramento aereo durante la Prima Guerra Mondiale (con alcuni successi, soprattutto contro unità turche), assieme a giapponesi e statunitensi (ed in maniera minore sovietici e francesi) avevano sviluppato questa tattica per tutti gli anni Venti e Trenta.

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale la specialità dell'aerosiluramento conobbe il massimo sviluppo. La progettazione degli aerosiluranti fu particolarmente complessa perché il siluro era un'arma pesante. I siluri aerei, comunque alleggeriti al massimo rispetto alle loro controparti navali, pesavano diverse centinaia di chilogrammi, anche se esistevano silurotti di dimensioni e potenze inferiori.31

Rappresentavano armi molto ingombranti (richiedendo carrelli molto alti) e potevano essere lanciati solo a quote piuttosto basse e a velocità modeste (altrimenti diventavano ingovernabili a causa del regime fluidodinamico turbolento con l’acqua).

La velocità di lancio dei siluri, comunque, conobbe notevoli miglioramenti grazie agli studi geometrici delle forme e dell’interazione idrodinamica. Ciò concesse un aumento di velocità di lancio fino a 250 nodi per i siluri della Marina giapponese tra il 1930 e il 1941, fino a raggiungere i 350 nodi subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale nel lancio dei siluri dell'U.S. Navy.

La quota invece rimase piuttosto bassa (all'inizio degli anni Venti era circa trenta metri, poi portata progressivamente, per le armi più performanti della U.S. Navy, fino verso i trecento metri). Un altro grave difetto dei siluri aerei era la loro scarsa gittata (e anche, sovente, un'inferiore velocità), soprattutto rispetto a quelli lanciati dalle unità siluranti, poche migliaia di metri nel primo caso contro una decina di miglia nel secondo caso. Questo obbligava i siluranti ad avvicinarsi a bassa quota e, soprattutto fino al 1942, bassa velocità e traiettoria rettilinea e diretta verso i loro bersagli, subendo un fuoco contraereo pesante (pezzi, in genere, dai 75 ai 133 millimetri, con 6-12 colpi al minuto ciascuno, nella Seconda Guerra Mondiale), medio (in genere pezzi tra i 45 e i 37 millimetri, con 300/400 colpi al minuto) e leggero (in genere pezzi tra i 28/25 e i 12,7 millimetri, con volumi di fuoco tra i 600 e i 1200 colpi al minuto), particolarmente terribile risultava quello delle navi da battaglia più recenti.

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Quindi gli aerosiluranti dovevano rallentare la loro velocità e scegliere una rotta in linea retta proprio mentre si avvicinavano ai loro bersagli rimanendo esposti al massimo alle reazioni nemiche.

Le tattiche di siluramento prevedevano, nella Seconda Guerra Mondiale, l'attacco sul lato della nave nemica, spesso (soprattutto nel fronte del Pacifico) dopo che il bersaglio era stato già attaccato da bombardieri in picchiata che avevano danneggiato l'opera morta, le sovrastrutture e la contraerea. Sovente, tale tattica prevedeva anche un attacco in coordinazione con un analogo aerosilurante dal lato opposto in modo da impedire che l'unità attaccata potesse disimpegnarsi semplicemente virando di bordo in maniera veloce.

Se l'attacco andava a segno però, i danni erano decisamente notevoli, visto che i siluri aerei avevano una velocità ed una gittata inferiore a quelli navali, ma portavano con loro almeno la stessa testa in guerra, se non una carica leggermente superiore (nonostante si cercasse di alleggerirli il più possibile), garantendo, quasi sempre, di infliggere danni molto pesanti all'opera viva, oppure a parti meno corazzate della nave come gli organi di governo e gli assi delle eliche. Inoltre molti siluri nel corso del conflitto furono a doppio acciarino: ad impatto oppure ad azione magnetica, esplodendo passando a pochi metri sotto la carena delle navi nemiche. Se la carena veniva squarciata la nave, quasi sempre, era perduta.32

Infine, durante la guerra le Marine britannica e giapponese riuscirono a produrre siluri impiegabili anche nelle acque basse dei porti: infatti, il siluro al momento del lancio scendeva, normalmente, parecchi metri sott'acqua e poi risaliva a quota prestabilita per l’attacco. Chiaramente farlo in un porto comportava colpire il fondale. Questo ulteriore traguardo ingegneristico permise di usare queste temibili armi anche contro le flotte alla fonda, contemporaneamente o in sostituzione alle normali bombe pesanti e perforanti.

Durante la Seconda Guerra Mondiale apparvero armi più sofisticate ed efficaci, come aerei e droni suicidi, bombe plananti, razzi, missili radioguidati, che permettevano all'attaccante di rimanere fuori dalla portata delle armi contraeree, oppure di entrare in contatto con queste solo durante una breve manovra alla massima velocità. Per questi motivi durante gli anni Cinquanta gli aerosiluranti furono sempre più considerati obsoleti e sostituiti con altri

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modelli di bombardieri navali. L'ultimo impiego documentato dei siluri aerei risale alla Guerra di Corea, mentre rimasero negli arsenali fino alla fine degli anni Sessanta. È doveroso ricordare il Fairey “Swordfish”33 a cui si deve l'attacco alla flotta italiana alla fonda a Taranto

e un ruolo fondamentale nell'affondamento della Bismarck, e il “Savoia-Marchetti S.M.79”.34

2.4 La Regia Aeronautica e la cooperazione aeronavale.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale l'importanza del mezzo aereo crebbe rapidamente, si intravidero grandi prospettive di sviluppo in seno a questo strumento straordinario sia in campo civile che in campo militare.

Fu presa la decisione di scorporare l'Arma aerea dal Regio Esercito e dalla Regia Marina, elevandola a Forza Armata autonoma come Regia Aeronautica, con l'emanazione del regio decreto 28 marzo 1923, n. 645. Il 30 agosto 1925 fu inserito un altro importante tassello attraverso la creazione del Ministero dell'Aeronautica. Il 1° gennaio 1926, venne istituito lo Stato Maggiore dell'Aeronautica con a capo il generale di divisione Pier Ruggero Piccio che divenne, di fatto, il primo capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica.

Durante il Fascismo la Regia Aereonautica si sviluppò ulteriormente e le fu data particolare importanza con la nomina nel 1929 di Italo Balbo a ministro dell'Aviazione. Fu presentata dai gerarchi fascisti del tempo come un fiore all'occhiello, grazie soprattutto ai numerosi record conquistati. Nell’estate 1939, in cooperazione con la Regia Aeronautica, la Regia Marina aveva portato a termine le ultime grandi manovre. Le manovre furono esaltate dal noto ammiraglio Cavagnari, a comprova dell’efficienza dell’Italia fascista ma, in effetti, le due Armi condussero una guerra indipendente esattamente come la Marina e l’Esercito giapponese.

33 Per un’ immagine dell’aereo Fairey “Swordfish” vedi in appendice l’allegato 9.

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Apparvero subito evidenti le gravissime deficienze nella collaborazione tra cielo e mare e resta un mistero, uno dei tanti misteri italiani della Seconda Guerra Mondiale, le motivazioni di queste deficienze.

La scarsissima coordinazione poteva essere imputata all'ottusa rivalità tra Regia Aeronautica e Regia Marina. Ciò provocò grandissimi insuccessi di cui furono protagonisti avieri e marinai italiani. Il conflitto di potere tra Aeronautica e Marina, con la prima che aveva il monopolio di tutto ciò che volava grazie alla legge Balbo, contribuì ulteriormente alla decisione di non costruire portaerei, le quali invece si sarebbero rivelate sicuramente utili per combattere la Royal Navy, dotata di portaerei e radar.35

Un’altra azione importante sarebbe stata almeno la formazione di squadriglie di aerei basati a terra appositamente addestrate a operazioni navali e sotto il comando funzionale della Marina. Invece l'ammiraglio comandante in mare non poteva chiedere direttamente l'appoggio aereo, ma tramite Supermarina doveva inoltrare la richiesta ai vertici dell'Aeronautica, con i ritardi immaginabili.

Il governo fascista, che aveva osteggiato la richiesta della Marina di costruire portaerei e di avere aerei propri, solo a conflitto inoltrato e dopo il disastro della battaglia navale di Capo Matapan, rivide le proprie convinzioni.

I rapporti tra la Marina e l’Aeronautica furono sempre torbidi e ciò si rispecchiò anche a livello di comunicazione e collaborazione: ad esempio, si può citare l’ordine impartito il 20 giugno 1940 dal capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica generale Francesco Pricolo ai Comandi periferici, perché Aviazione e Marina non ordinassero contemporaneamente ricognizioni nella stessa zona. Una cosa che oggi verrebbe vista come immotivata e addirittura sconsiderata.36

Uno degli effetti più evidenti di queste gravi lacune comunicative si vide chiaramente durante la Battaglia di Punta Stilo, dove la flotta italiana dovette sostenere per tre ore sulla via del ritorno le incursioni dei bombardieri italiani. Su 126 aerei almeno una cinquantina

35 M. Angelozzi-U. Bernini, Il problema aeronavale italiano. Aspetti storici e attuali, Livorno

Belforte Editore 1981, p. 45.

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lanciò bombe contro le navi che reagirono abbattendo anche un S.79. S’ironizzò di una battaglia italo-italiana.

La battaglia si svolse nel pomeriggio del 9 luglio 1940 al largo del promontorio calabro di Punta Stilo e fu la prima e unica battaglia combattuta tra le flotte corazzate italiana e britannica. Si risolse sinteticamente in un preliminare e fallito attacco di nove aerosiluranti inglesi partiti dalla Eagle e un poco fruttuoso scontro tra i rispettivi incrociatori in avanguardia, a cui seguì un duello a distanza tra le corazzate Cesare e Conte di Cavour e la Warspite.

Alle ore 16.05 l’Ammiraglio di squadra Inigo Campioni interruppe il combattimento ripiegando in direzione del Golfo di Napoli attraversando lo Stretto di Messina, poiché la flotta inglese tagliava la rotta verso Taranto.

Appena terminato il contatto balistico, la parola fu lasciata alle forze aeree contrapposte, con quelle inglesi limitate ai soli nove aerosiluranti della H.M.S. Eagle. Prevedibilmente più massiccio fu invece l’intervento dell’Aeronautica italiana, che aveva il vantaggio di disporre di basi aeree prossime alla zona dello scontro. Ciononostante i 126 bombardieri impiegati in ripetuti raid sulle navi inglesi tra le 16.43 e le 21.10 non colsero nessun successo, anzi bersagliando per errore, le unità italiane sulla rotta di ritorno.37

Pricolo in una nota datata 23 agosto 1940 scriveva che 120 S.M. erano tempestivamente preparati e opportunamente armati pronti a partire da tutte le basi della Sicilia, tuttavia la vigile attesa dei mezzi aerei non fu minimamente orientata dai Comandi della Marina con i quali dovevamo operare. Era noto che il problema del reciproco riconoscimento durante la battaglia - terrestre, navale e aerea - rappresentasse una altissimo obiettivo, fino a quel momento mai interamente raggiunto; e terminò scrivendo che l’impiego dell’aviazione da bombardamento nel corso della battaglia navale doveva essere limitato a quei pochi e definiti casi, nei quali la situazione sia talmente chiara da non consentire equivoci di sorta. Supermarina lamentava spesso che i caccia “Fiat G.50”, a difesa di Taranto in base a Grottaglie non erano in grado di raggiungere i ricognitori nemici, Superaereo, estremamente risentito, faceva osservare che il problema era da attribuirsi principalmente alla insufficiente

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e troppo ristretta rete di avvistamento sul mare che non permetteva agli aerei di alzarsi in volo e affrontare l’avversario da una quota superiore.38

Lascia terribilmente perplessi inoltre, il fatto che quando il Comando Supremo era chiamato a dirimere i continui contrasti tra le due Forze Armate, non “ordinava”, ma “pregava” i Comandi delle due Armi, caratterizzati da supponenza, inconsapevolezza di quanto avveniva all’estero, assoluta certezza di essere i migliori, confortati dalla sicumera e dall’ignoranza dei dirigenti politici.

A tutto questo si aggiungeva una sostanziale povertà di mezzi: alla data del 10 giugno 1940 gli aerei assegnati alla collaborazione con la Marina erano 202 ricognitori marittimi, 150 idroricognitori imbarcabili su unità navali, cui si aggiungevano 95 idrovolanti bombardieri “Cant Z. 506”, poi retrocessi al meno impegnativo ruolo di ricognitori.

Superaereo, il 20 luglio 1940 scriveva che nonostante fosse possibile stabilire il contatto radiotrasmittente-radioricevente diretto tra navi e aerei, non si aveva un’assoluta certezza che i collegamenti funzionassero in ogni caso. Lo storico Ferruccio Botti scriveva che, per tutto il primo anno di guerra, mancarono collegamenti radio diretti tra aerei e navi e tra comandi aerei e terrestri. Alla fine del 1940 la situazione era disperata: dall’Egeo alla Libia, l’Italia era in inferiorità schiacciante sia in aria che in mare.

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CAPITOLO III

Portaerei e corazzate a confronto

3.1 Le caratteristiche belliche delle grandi corazzate.

La seconda rivoluzione industriale permise un notevole sviluppo della lavorazione dei metalli e l’utilizzo di sistemi propulsivi di nuova generazione, questi progressi scientifico-industriali si rispecchiarono in ambito bellico e in particolar modo nel settore navale.

Crebbe fortemente l’utilizzo di una corazzatura in metallo per proteggere le navi nelle zone più vulnerabili sia dell’opera viva che dell’opera morta.

Come conseguenza, fu necessario costruire cannoni più grandi per perforare queste nuove difese, facendo in modo che il dislocamento complessivo di queste nuove navi crescesse moltissimo.

Questa mole di massa spaventosa era messa in moto dai nuovi motori a vapore, ergo nel corso dei decenni si passò dalla comparsa del fumaiolo accanto agli alberi con pennoni sui ponti coperti, alla completa eliminazione di questi ultimi, oramai poco efficienti.

Gradualmente anche i cannoni subirono un’evoluzione, passando dalla versione ad avancarica a quella a retrocarica; ciò fu un elemento fondamentale per migliorarne compattezza, velocità di volata del colpo, latenze di ricarica e gittata.

Tutte queste innovazioni stabilirono il tramonto dell’epoca delle grandi navi di legno.39

All’inizio del Novecento fu fatto un ulteriore passo in avanti sulla strada delle moderne corazzate: divenne evidente infatti, a seguito degli eventi della Battaglia di Tsushima, che con la crescita del calibro dei cannoni secondari l'identificazione e distinzione degli impatti di questi ultimi e di quelli primari (indispensabile per correggere il tiro) si rivelò sempre più problematica; un’ulteriore evidenza fu che il danno dei cannoni principali era molto

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