• Non ci sono risultati.

Il disegno di legge n 1222, d’iniziativa dei sen Villone e altri diretto a disciplinare il rifiuto del trattamento sanitario in attuazione dell’art 32 della Costituzione.

D) carattere “vincolante”o “non vincolante”, dal punto di vista deontologico e giuridico, per il medico delle D.A.

14. Il disegno di legge n 1222, d’iniziativa dei sen Villone e altri diretto a disciplinare il rifiuto del trattamento sanitario in attuazione dell’art 32 della Costituzione.

Interrogandosi sulla funzione della legge, sulle tecniche legislative, sul rapporto tra pluralismo e regole, sull’opportunità di una disciplina normativa “elastica”, “leggera”, “aperta” e, quindi, di un diritto che sia un strumento di coesistenza tra valori e modelli diversi, e non di imposizione di un modello e delegittimazione di tutti gli altri, Rodotà afferma che quando sono in gioco i diritti fondamentali e le libertà civili è augurabile “la cristallizzazione” delle regole “in formule giuridiche

rigide” e che, peraltro, “l’area delle scelte individuali deve essere presidiata dalle norme, non invasa” dal diritto.191)

Nella breve relazione che precede il disegno di legge n. 1222 del senatore Villone e altri, diretto a disciplinare il rifiuto del trattamento sanitario, i promotori si interrogano sull’opportunità di un intervento legislativo in questa materia già regolata dall’art. 32 della Costituzione e concludono le loro riflessioni affermando la necessità di una normativa che possa servire a superare le risposte negative che, di fatto, ha ricevuto il sig. Welby alle sue reiterate richieste di ottenere il distacco del respiratore artificiale che lo teneva in vita.

Questo DDL è stato comunicato alla Presidenza del Senato il 19/12/06 e, quindi, è stato preparato prima che il ventilatore artificiale che dal 1997 assicurava la respirazione assistita del sig.Welby venisse staccato dal dr. Riccio, subentrato al precedente medico curante, ma lo scopo della proposta di legge rimane attuale visto l’esito negativo delle istanze avanzate dal predetto paziente al Tribunale di Roma.

Questo DDL, infatti, si propone di rispondere, con una formulazione “leggera”, ad una questione concreta resa manifesta dal caso Welby e cioè come rendere effettivo e tutelabile il rifiuto delle cure manifestato in modo consapevole dal soggetto interessato e, nel contempo, salvaguardare da iniziative penali i sanitari che eseguono le richieste del paziente.

14.1 Il DDL si compone di un solo articolo che, al primo comma, stabilisce che “ai sensi dell’ art.

32 della Costituzione, tutti hanno diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario che non sia reso dalla legge obbligatorio per motivi di salute pubblica o di sicurezza pubblica” e che “il rifiuto è vincolante per qualunque operatore sanitario, nelle strutture sia pubbliche, sia private”.

È manifesta, quindi, l’intenzione di dare attuazione al disposto dell’art. 32 della nostra carta fondamentale che, secondo l’interpretazione dei proponenti, ha già definito compiutamente il bilanciamento degli interessi in questa materia, stabilendo che, al di fuori della previsione ex lege della obbligatorietà di determinati trattamenti, non vi sono altri interessi da contrapporre a quelli oggetto di valutazione da parte del diretto interessato che si sono manifestati attraverso il rifiuto delle cure.

In sostanza, esclusa l’ipotesi del trattamento sanitario obbligatorio per legge, l’interessato rimane esclusivo titolare del diritto di curarsi o meno secondo le indicazioni dei sanitari che lo assistono. I proponenti, nella loro relazione, ricordano anche che il rifiuto delle cure è rafforzato dal fatto che l’obbligatorietà di un trattamento può essere stabilita dalla legge solo quando è in gioco anche la salute di terzi soggetti ovvero quando “il disturbo mentale evidenzi il rischio di manifestazioni

violente” e trova un ulteriore limite nel necessario rispetto della dignità della persona.

Il rifiuto delle cure, valido per qualsiasi trattamento “sanitario”, in questo DDL è definito “vincolante” per tutti gli operatori sanitari che, quindi, si devono astenere dall’esecuzione del trattamento rifiutato, anche se si tratta di una terapia che è conforme alle indicazioni della scienza medica al riguardo e che potrebbe evitare il decesso del paziente.

Non è prevista la possibilità dell’obiezione di coscienza per il caso in cui la sospensione deve essere attuata dai sanitari attraverso l’interruzione del funzionamento di una macchina di supporto vitale e

191)

questa lacuna, certamente rilevante, non renderà facile il percorso di parlamentare di questo DDL., salvo un intervento integrativo che tuteli in modo accettabile la libertà morale dei curanti.

14.2 Il secondo comma di questo articolo stabilisce che “il rifiuto si esercita mediante una

dichiarazione resa in forma scritta o anche verbalmente” e che “in quest’ultimo caso la dichiarazione può essere raccolta direttamente dal medico o da testimoni”.

Il rifiuto, secondo questa proposta di legge, può, quindi, essere manifestato in due forme, scritta e verbale, quest’ultima se raccolta dal medico non necessita di testimoni; la dichiarazione scritta non deve essere autenticata nella sottoscrizione.

Questa disciplina rende più semplice e agevole la manifestazione del rifiuto delle cure, ma potrebbe creare qualche problema nel riconoscimento effettivo della volontà del malato qualora il soggetto interessato, dopo avere redatto la dichiarazione scritta, dovesse perdere la sua capacità di interloquire con i sanitari che, quindi, potrebbero dubitare del fatto che il rifiuto è stato espresso proprio dalla persona assistita.

Non si comprende, inoltre, perché il rifiuto verbale non testimoniato può essere raccolto solo da un medico e non anche da un infermiere che, in quel momento, è accanto al malato.

14.3 Il terzo comma di questo articolo afferma che è valido anche il rifiuto “di ogni trattamento

volto a tenere in vita malati terminali, per il quale il decesso possa seguire come diretta conseguenza del trattamento medesimo”.

Non è del tutto chiara la motivazione di questa norma che, inopportunamente, appare riferita solo ai “malati terminali”, categoria, peraltro, di incerta individuazione sul piano scientifico.

Se l’intenzione dei proponenti è quella di ribadire la validità anche del rifiuto del trattamento salvavita, questo scopo potrebbe essere raggiunto più agevolmente aggiungendo, nel primo comma, laddove si prevede la possibilità di rifiutare “qualsiasi trattamento sanitario” le parole “anche

salvavita”.

Se, invece, l’intenzione dei proponenti è quella di consentire il rifiuto di “ogni” trattamento, inclusi quelli, come l’alimentazione e l‘idratazione artificiale, che una parte della dottrina e del CNB qualificano come meramente “assistenziali”, sarebbe opportuno specificare meglio questa questione per evitare rischi di strumentalizzazione di una norma dal significato non chiaro sul punto.

14.4 Il quarto e ultimo comma di questo articolo unico afferma, infine, che “la mancata

somministrazione o l’interruzione dei trattamenti non costituisce reato, quando sia conseguenza del diritto al rifiuto di cui alla presente legge”.

Questa disposizione è utile ad escludere la responsabilità penale dei sanitari che non iniziano ovvero che sospendono un trattamento in presenza del rifiuto espresso dal diretto interessato, ma sarebbe, forse, migliore una formula che escluda ogni e qualsiasi responsabilità in seguito alla sospensione delle cure attuata dai sanitari in conformità alla richiesta del paziente.

Una norma così strutturata dovrebbe essere idonea ad evitare atteggiamenti di “medicina difensiva” e costringerebbe i curanti a confrontarsi liberamente con le richieste dei pazienti, senza timori di sanzioni penali, civili o disciplinari.

14.5 Questo DDL deve ancora iniziare il suo cammino parlamentare che non appare facile, tenuto conto del fatto che mette in discussione, nell’ambito della relazione di cura, il dogma dell’indisponibilità del bene vita anche da parte del diretto interessato.

Viste le discussioni che sono sorte sul piano etico e giuridico in relazione al caso Welby anche un disegno di legge di portata così limitata, come questo ora oggetto di esame, rischia di non trovare una maggioranza parlamentare che lo sostenga sino all’approvazione definitiva.

Si potrebbe ritenere che non è proprio necessario un DDL così strutturato, che non affronta nel complesso la tematica della relazione di cura, né disciplina specificamente la materia delle

dichiarazioni o direttive anticipate di trattamento, ma si limita dare attuazione all’art. 32 della Costituzione per quanto concerne il rifiuto delle cure.

D’altra parte le difficoltà che non solo i sanitari, ma anche i magistrati hanno sinora manifestato nell’accogliere il rifiuto dei trattamenti salvavita espresso consapevolmente dai pazienti, in sostanza, nell’attualità di una relazione terapeutica - come evidenziato dal caso del sig. Welby e dai casi relativi al rifiuto delle emotrasfusioni da parte dei Testimoni di Geova - hanno fornito l’occasione a una parte delle forze politiche presenti in Parlamento di intervenire sul piano normativo con questo DDL per cercare di assicurare una tutela effettiva a questo diritto di libertà, già sancito dalla Costituzione.

Il clima politico attuale non sembra, peraltro, propizio per un rapido intervento normativo e, quindi, molto probabilmente del rifiuto delle cure si continuerà a parlare e discutere anche nelle aule giudiziarie, con costi non indifferenti per i contendenti non solo sul piano economico, ma anche sul piano delle sofferenze morali.

La consapevolezza dell’esistenza nella società di una non uniforme valutazione dei principi etici e degli interessi in conflitto non dovrebbe, peraltro, impedire che si possa trovare un soddisfacente accordo sul punto, che salvaguardi sia il diritto di ciascuno di non subire sul proprio corpo atti invasivi indesiderati, sia il diritto da parte dei sanitari di non essere costretti a tenere comportamenti che contrastino con la loro coscienza.

Uno Stato laico deve non solo evitare di avere atteggiamenti confessionali, ma anche essere capace di dettare norme che assicurino l’esercizio di libertà fondamentali, come quelli di cui si discute, quando non interferiscono con le libertà altrui.

Non sembra corretto, d’altra parte, negare tutela al rifiuto dei trattamenti ovvero alle scelte, anche espresse in via anticipata, dei pazienti rispetto alle loro esigenze di cura, affermando che così si limita in modo non appropriato l’autonomia professionale dei sanitari, dato che non possono essere messi sullo stesso piano interessi di natura e contenuto molto diversi.

Per i pazienti, infatti, non sono in gioco solo la salute e la vita, ma anche e soprattutto la libertà da comportamenti indesiderati che invadono illegittimamente la loro sfera corporale, in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 13 e 32 della Costituzione.

Per il paziente è in gioco, quindi, anche la sua dignità complessiva di persona umana che merita rispetto anche quando compie scelte di vita non coincidenti con quelle di chi, in qualità di professionista, pretende di agire nel suo esclusivo interesse in base ad un presunto principio di beneficenza di natura oggettiva.

BIBLIOGRAFIA

Outline

Documenti correlati