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Un primo intervento di forte critica rispetto alla decisione del Tribunale è stato pubblicato il 18/12/06 sul quotidiano “La Repubblica” a firma di Stefano Rodotà che ha definito “sconcertante”

6.7 Il caso Welby.

6.7.2 Un primo intervento di forte critica rispetto alla decisione del Tribunale è stato pubblicato il 18/12/06 sul quotidiano “La Repubblica” a firma di Stefano Rodotà che ha definito “sconcertante”

il provvedimento in commento, “ai limiti della denegata giustizia”.

Rodotà ha affermato, inoltre, che “il caso di Piergiorgio Welby, quale che sia il punto di vista dal

quale lo si consideri, doveva essere risolto accogliendo la sua richiesta, perché cosi vogliono principi e regole ormai solidamente fondati nel nostro sistema giuridico”; che la mancata

specificazione di cosa debba intendersi per accanimento terapeutico è irrilevante nella fattispecie in cui si discute della legittimità del rifiuto delle cure; che, rispetto al rifiuto delle cure, “il medico non

deve compiere alcuna valutazione discrezionale, ma limitarsi ad accertare quale sia la volontà della persona”; che, ancora, non si può correttamente affermare che “il bene della vita è indisponibile, mentre proprio il diritto al rifiuto di cure, ormai largamente e ripetutamente affermato, dimostra che così non è”; che “poiché nessuno può essere obbligato ad un trattamento

sanitario, l’argomentazione dell’ordinanza deve essere rovesciata : la mancanza di una legge rende illegittimo il trattamento, non la richiesta di interromperlo (grassetto nostro).

Sul caso Welby è intervenuto anche Viganò102) che ha rilevato che il dibattito politico e mediatico si è incentrato sui concetti di accanimento terapeutico e di eutanasia, lasciando, invece, nell’ombra, la questione “cruciale” del diritto fondamentale di ciascuno a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la propria volontà, sancito dagli artt. 13 e 32 della Costituzione, dall’art. 5 della Convenzione di Oviedo, nonché dall’art. 3 della Convenzione Europea sui diritti umani.

101)

Nell’ambito medico questo provvedimento dell’Ordine non è stato sempre condiviso, come si evince anche dalle critiche avanzate dal dr. M. Melazzini, oncologo e Presidente dell’Associazione Sclerosi Laterale Amiotrofica, riportate sul quotidiano La Provincia di Cremona del 5/2/07, nel corso di un incontro pubblico sul tema “Malattie inguaribili, curare sempre”, organizzato dal Movimento per la vita.

102)

F. Viganò, Esiste un “diritto a essere lasciati morire in pace”? Considerazioni in margine al caso Welby, Diritto Penale e Processo, 2007, 1, pagg. 5-10; vedi, ancora, sul caso Welby, il commento critico rispetto alla decisione del Tribunale di Roma, di G. Zagrebelsky, Il giudice, la legge e i diritti di Welby, La Repubblica, 19/3/07 e il parere del Comitato per l’Etica di fine vita, con sede in Milano, a firma del presidente P. Borsellino, consultabile sul sito

www.istitutobioetica.org/ che argomenta in favore della fondatezza sul piano etico, deontologico e giuridico della richiesta del paziente di ottenere la sospensione del trattamento di ventilazione assistita all’epoca in atto.

Ha aggiunto quest’Autore che i medici avrebbero dovuto rispettare la volontà di Welby e, quindi, interrompere il trattamento di sostegno respiratorio in atti e attuare la sedazione palliativa, con un comportamento non rilevante sul piano penale perché imposto dall’esigenza di rispettare il diritto del malato a rifiutare le cure.

Criticando il provvedimento del Tribunale di Roma, Viganò ha, infine, osservato che, una volta riconosciuta l’esistenza, a livello costituzionale, di un diritto fondamentale a rifiutare il trattamento non desiderato, “non si vede perché tale diritto dovrebbe risultare condizionato ad una legge

ordinaria che ne assicuri la concreta attuazione”, in quanto “è compito della magistratura assicurare la tutela dei diritti fondamentali, anche in assenza di una legge che si faccia carico di una tale tutela”, che, in un ordinamento costituzionale, non può essere lasciata alle “determinazioni della maggioranza”.

Trattasi di critiche condivisibili, pur nel rispetto che si deve ad una decisione giudiziaria, peraltro estremamente contraddittoria, come rilevato anche dal P.M. nel suo atto di impugnazione.

A mio giudizio, sull’esito della procedura d’urgenza ha influito certamente il principio, che ritorna sempre in questi casi, dell’indisponibilità del bene vita, nonostante questo concetto sembra ormai inadeguato a rappresentare la società attuale e il diritto vivente quando si è in presenza di una consapevole manifestazione di rifiuto del trattamento salvavita, come è documentato dalla storia delle vicende giudiziarie dei Testimoni di Geova maggiorenni e anche dai sempre più numerosi casi nei quali il malato non sopporta trattamenti ritenuti, sul piano soggettivo, lesivi della propria dignità di persona ovvero integranti vere e proprie torture ripetute nel tempo.

Non sono, infatti, rari ormai i casi di rifiuto della dialisi ovvero della chemioterapia che, in dosi massicce, presenta notevoli controindicazioni non sempre accettate dal paziente, soprattutto quando l’esito delle cure è notevolmente incerto.

Non è, comunque, condivisibile che nell’ordinanza si richiamino a sostegno dell’esistenza del principio giuridico dell’indisponibilità del bene vita anche nel caso di rifiuto delle cure norme che riguardano fattispecie del tutto diverse quali l’art. 5 del codice civile e gli articoli del codice Rocco sull’omicidio del consenziente e sull’aiuto al suicidio.

Nel caso del rifiuto delle cure, invero, il malato vuole essenzialmente che sul suo corpo non si intervenga con la terapia o il trattamento curativo non consentito e, quindi, richiede che si intervenga altrimenti (vedi la posizione dei Testimoni di Geova rispetto alle emotrasfusioni ovvero la richiesta dei malati inguaribili di avere solo adeguate cure palliative, lenitive del dolore insopportabile fino alla sedazione terminale) oppure, come nel caso Welby, che si lasci che la malattia faccia il suo corso, non essendo più umanamente sostenibile la condizione di paziente che respira attraverso apparecchiature di sostegno, ormai vissute come vere e proprie continue torture (vedi, sul punto, le numerose dichiarazioni di Welby circa l’insostenibilità della sua situazione di malato costretto a vivere attaccato ad una macchina di cui si sente prigioniero).

L’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio sono situazioni, di fatto e di diritto, diverse da quelle ora descritte di rifiuto dei trattamenti sanitari non desiderati; solo queste ultime, comunque, trovano sostegno nei principi fondamentali della nostra costituzione (artt. 13 e 32), in base ai quali, peraltro, ogni norma ordinaria e, quindi, di forza precettiva inferiore, deve essere interpretata.

La testimonianza pubblica del proprio estremo disagio e del proprio rifiuto nella prosecuzione di un trattamento salvavita, resa dal sig. Welby, ha avuto l’effetto positivo di costringere l’opinione pubblica e la politica a confrontarsi sul tema della fine della vita, anche se non sempre il dibattito è stato puntuale rispetto al tema posto da questo cittadino malato, come osservato anche da Spinsanti103) che ha sottolineato non solo la “babele delle lingue”, in quanto “gli stessi termini, in

bocca a persone diverse, assumono significati assolutamente non confrontabili”, ma anche

l’analogia del comportamento di Welby con quello tenuto da Giovanni Paolo II quando,

103)

rinunciando agli interventi che avrebbero potuto prolungare la sua esistenza terrena, ha chiesto, da credente, di essere lasciato andare “alla casa del Padre”.

La negativa risposta delle istituzioni alle domande del ricorrente Welby è, d’altra parte, una ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile nel nostro attuale contesto - ancora fortemente condizionato dalla dottrina cattolica ovvero da “convinzioni metagiuridiche” tendenzialmente contrarie agli atti di disposizione della vita “per ragioni etiche o religiose”104) - accettare, anche sul piano culturale, la prevalenza di un diritto di libertà rispetto ad un (presunto) dovere di vivere ovvero di curarsi che non trova alcun riconoscimento nella nostra carta fondamentale.

Quanto, ancora, sia forte questa cultura è testimoniato da quelle critiche al comportamento tenuto dal dr. Riccio nei confronti del sig. Welby, fondate essenzialmente sul fatto che questo medico si sia dichiarato disposto ad accettare il suo rifiuto della terapia, attuata attraverso il respiratore artificiale, sulla base di una breve relazione con il malato, dovuta alla circostanza che, in precedenza, il paziente era stato assistito da altri.105)

Si afferma, in sostanza, che una breve relazione medico-paziente non consente al sanitario di essere certo della reale volontà del malato, ma si dimentica che l’intervento del dr. Riccio è stata reso necessario dal fatto che chi si occupava in precedenza dell’assistenza al paziente si era rifiutato di accettare i suoi desideri circa l’interruzione delle cure praticate, pur se manifestati più volte anche pubblicamente.

Dietro le critiche legittimamente avanzate in merito al comportamento tenuto dal dr. Riccio si ripresenta, in realtà, una concezione della pratica medica che sia sempre capace di inquadrare e proiettare le scelte del paziente “in un contesto di valori positivi e intangibili per la persona, come

la ricerca della salute e la difesa della vita”. 106)

In questo “contesto” poco spazio rimane, quindi, per il rispetto di una volontà del paziente diretta a realizzare altri “valori” garantiti dalla Costituzione, diversi da quelle prospettati in questo breve articolo come “positivi e intangibili” in modo, quasi, assoluto.

104)

Vedi, sul punto, F. Giunta, Eutanasia pietosa e trapianti quali atti di disposizione della vita e del proprio corpo, Dir. Pen. e Proc., 1999, 4, pagg. 403-408.

105)

Vedi, sul punto, F. Sala, Riflessioni personali a margine della vicenda Welby, in Bollettino Ordine Provinciale dei Medici di Modena, 2, 2007, pagg. 11-12.

106)

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