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DIVENIRE MADRI IN VISIONE FILOSOFICA Graziella Morselli

Nel documento www.sfi.it Registrazione: ISSN 1128-9082 (pagine 169-173)

G.E.M. Anscombe fu una figura di donna eccezionale per la molteplicità dei suoi impegni e il livello della sua produzione intellettuale. Insegnò alle Università di Cambrige e Oxford a partire dal 1945 fino al 1986, e tradusse le opere di Wittgenstein (assumendo anche la cura delle opere postume) oltre che pubblicare i suoi scritti, mentre allo stesso tempo partoriva e allevava sette figli. Aveva, infatti, abbracciato la fede cattolica e sosteneva pubbli-camente la sua convinzione antiabortista. Una vita esemplare se considerata dal punto di vista dei suoi testi più famosi, (il primo, dal titolo Intention e il successivo Modern Moral Philosophy) in quanto sorretta da “autodeter-minazioni consapevoli” ovvero motivazioni etiche assunte come dovere; quindi una vita intenzionale, dove le a-zioni erano guidate da ragioni poste al di là del desiderio e della stessa volontà.

Non è certamente questa l’unica autodeterminazione che può assumere una donna dinnanzi al manifestarsi della propria fecondità né la sua volontà è slegata rispetto alle circostanze della sua vita, poiché sa che partoren-do aprirà una serie di conseguenze di cui non può non tener conto, circa la propria salute fisica e mentale e circa la crescita dei figli. Quindi, se ci soffermiamo a riflettere sul caso di Anscombe e lo portiamo al confronto con ogni altro caso possibile nella realtà, ci troviamo immersi nell’ambito di concetti ardui come quelli di responsabilità, di legame educativo, di condizionamento ambientale, di relazione sociale, e così via, immersi per questo in un unico grande problema filosofico che riguarda il ruolo della donna nel mettere al mondo. L’esperienza femminile di questo problema genera un lavorio mentale esclusivo, che prevede, precede, rifiuta o accompagna la gestazione, un pensiero di una differenza rilevante ma che poco ha a che fare col pensiero femminista. Il femminismo a que-sto proposito altro non ha saputo elaborare che il concetto di cura, vique-sto come specificità femminile, e trattato nell’ambito della bioetica come un complesso di doti e azioni emotive piuttosto che razionali, oblative piuttosto che cognitive, ontologiche più che epistemologiche. Lo studio di questo concetto è produttivo, invece, dal punto di vista pratico, dove “la problematica del sé relazionale ispira linee politiche ed etiche nella ridefinizione dei ruoli, in particolare nel contesto primario, maternità/paternità, nascita, accudimento e educazione. Questa problemati-ca, in certo modo anticipata dal femminismo tedesco e da esso riassorbita nel politico, è molto viva nel femmini-smo americano contemporaneo, soprattutto per i problemi prodotti dalla gestione degli spazi da esso acquisiti nelle strutture educative” (Margarete Durst)1.

Una vera innovazione del femminile in sede filosofica si avrà invece quando sarà possibile disporre di significa-ti nuovi nella considerazione del rapporto tra psiche, corpo, mente e percezione, a proposito della donna che pensa circa la sua possibile maternità, desiderandola o rifiutandola, precedentemente o all’interno dei tempi e delle fasi della sua gravidanza. Questi significati si connetteranno evidentemente alla sua esperienza concreta: il tema della procreazione, infatti, nella forma che la coinvolge rimane centrale per la sua vita, com’è ovvio dato che è anzitutto iscritto come potenzialità nel suo corpo, sia che essa vi si dedichi attivamente e spontaneamente sia che vi sia indotta di necessità e controvoglia. In questo secondo caso il suo pensiero si confronta inevitabilmente con una condizione controfattuale consistente nel fatto che più di metà degli esseri umani, nonostante siano in grado di realizzare svariati obiettivi nell’esistenza personale, sono piegate in quanto donne in tutt’altra direzione da una fisicità esclusiva e vincolante che attraverso di loro è finalizzata alla riproduzione. Come possono esse con-ciliare la libertà con il carico di impegni e di responsabilità che l’essere madre richiede? D’altra parte, il proposito di escludere i figli dalla propria vita può restare indipendente dal fatto che il concepimento sia già avvenuto o av-venga in seguito e prosegua nella gestazione per giungere a compimento nel parto: la donna può in ogni caso far mancare l’affetto ad uno o più figli, e trattarli come un proprio oggetto. Essa ha il potere di riconoscere loro l’essere o di lasciarli al loro non-essere, o in altri termini può non riconoscerli come soggetti, sia che ne faccia strumenti della propria affermazione sia che li consideri come ostacoli.

1

A considerazioni di questo tipo si oppone spesso che la fisicità delle donne ne determina le inclinazioni, e che perciò sia “contro natura” l’idea che esse possano prefiggersi progetti di vita che ostacolino la loro maternità: i due propositi si possono conciliare soltanto in via eccezionale. Ma il pensiero delle donne ha fatto da tempo giu-stizia di queste convinzioni.

“Il fatto è che l’essenza della donna come la natura della madre non sono altro che facili etichette da appicci-care quando conviene. E’ la cultura ad attribuire dei caratteri che poi, per comodità di alcuni e pigrizia di altri, vengono definiti naturali e costitutivi di una presunta natura, femminile o maschile che sia. I caratteri di cura, at-tenzione all’altro, sentimento, emozioni, concretezza, atat-tenzione al particolare, empatia vengono attribuiti alle donne con un tipo di ragionamento che scambia la causa con l’effetto: non è la natura a condizionare la cultura, quanto la cultura a dar senso alla natura.” (Nicla Vassallo).2

Occorre a questo punto domandarci come agisce nella coscienza femminile quel tema della procreazione che abbiamo delineato come un centro ineludibile del suo percorso di vita. Nei Paesi progrediti tale tema suscita il di-lemma della libertà di scelta tra due esiti contrari: una gravidanza responsabilmente cercata ovvero accettata, da una parte, e dall’altra parte il rifiuto a priori o l’interruzione voluta. In tutti i casi il dilemma può comportare tor-menti interiori o conflitti esterni dinnanzi a rinunce o a compromessi che pesano inevitabilmente sull’esistenza. Sono per la coscienza difficili prove nelle quali ha la sua parte la presenza di quello che Edmund Husserl chiamava “legame generativo” e collocava nel “flusso unitario della storicità”3 come un orizzonte che accomunava uomini e donne di un popolo e tutti i popoli. del mondo. E’ a causa di questo legame che ognuno sa come il fatto di mette-re al mondo dei figli lo inserisca in una continuità del tempo che si mette-realizza sia nella compmette-resenza dei viventi ap-partenenti a diverse generazioni sia nell’incessante scambio di vita e di morte.

Si tratta di un orizzonte dove si formano le tradizioni più diverse, dal culto della natalità e della famiglia alla chiusura razzista nei confini della propria etnia: una donna può esserne sostenuta ovvero sentirsi soffocata dai pregiudizi collettivi. Per questi motivi il legame generativo è una fonte dei pensieri della futura madre non meno rilevante della sua libertà di scelta. In virtù della presenza di tale legame, tuttavia, se fortemente determinata a divenire madre (o più semplicemente una volta accettato il suo stato di gravidanza) essa matura e arricchisce gra-datamente un’attenzione rivolta al soggetto che verrà al mondo, all’altro o all’altra dentro di lei e che da lei di-pendono eppure esigono di essere compresi nel proprio diritto all’indipendenza.

Una filosofia fenomenologica vede questa particolare tensione della coscienza della donna gestante come una

intenzionalità, che la guida dallo stadio sensoriale a quello della comprensione più autentica. In questo flusso di

coscienza il rapporto tra i due corpi, della madre e del figlio o figlia, è fin dall’inizio un’esperienza di relazione: dapprima esso anticipa l’altro e via via lo costituisce fino a fondarne le relazioni reali con il mondo che lo circonda. E ciò accade dapprima grazie alle strutture cerebrali deputate alla regolamentazione fondamentale della vita co-me ha chiarito il neurobiologo Antonio Damasio:

“Per quanto sulle prime possa sorprendere, la mente esiste dentro e per un organismo integrato: le nostre menti non sarebbero quello che sono se non fosse per l’azione reciproca di corpo e cervello – nel corso dell’evoluzione, durante lo sviluppo dell’individuo e nel momento presente.”4

I contenuti di questa azione reciproca sono collegati da una parte alle dimensioni psicologiche della immagi-nazione e della proiezione verso il futuro e dall’altra parte, ma contemporaneamente, alle trasformazioni somati-che proprie della gestazione. Per questi motivi possiamo dire somati-che la gestante già nel sentimento (somati-che è il primo livello di consapevolezza delle sue emozioni), prima ancora che ne possa cogliere con evidenza le manifestazioni nel corpo, viene introdotta alla “significazione” comune del fatto biologico del generare, e alla “significazione per-sonale” che costituisce la comprensione del proprio ruolo in questo fatto.

In una seconda fase del flusso di coscienza sorge una serie di motivazioni come, ad esempio, quelle del dover predisporre l’evento, del conoscere le fasi del percorso che dovrà affrontare, dell’aver cura di sé, ma anche del cercare e capire i segni della propria metamorfosi nel corpo e nella psiche. La coscienza è ora pienamente desta e rivolta a qualcosa oltre di sé, qualcosa che se fosse soltanto corporeo si dovrebbe intendere come mero processo

2

Nicla Vassallo, Donna m’apparve, Codice edizioni,Torino 2009, p.45.

3

Husserl E., Die Krisis, der europäischen Wissenschaften und die Transzendentale Phänomenologie, Husserliana VI, M. Nijhoff, The Hague 1959, tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 272.

4

Damasio A., Descartes’ Error. Emotion, Reason and the Human Brain, Grosset-Putnam, New York 1994, tr. it. L’errore di Cartesio. Emozio-ne,ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995, p. 24-25.

biologico ma che, invece, è costituito dal complesso di significati che emergono dall’unità psicosomatica. L’intenzionalità materna a questo punto, come è evidente, è rivolta ad un Altro da sé davvero “esigente” perché richiede di esistere e in tal senso rappresenta un richiamo irrevocabile. La gestante si apre a questo suo nuovo modo di vivere già segnato dal legame affettivo: al passo con le trasformazioni somatiche, va svolgendo una for-ma di riflessione che procede dalla percezione dell’esperienza reale all’orizzonte di aspettazione in essa delineato. La mente così impegnata può giustamente definirsi come una mente generativa, la quale può vivere il passaggio dalla fattualità del procreare biologico o animale alla trascendentalità dell’evento umano, e insieme dalla autode-terminazione all’autotrascendenza (intesa come superamento della cerchia chiusa del sé). È in questa disposizio-ne che la madre compie la sua assunziodisposizio-ne di responsabilità in vista del futuro passaggio dei figli dalla dipendenza all’indipendenza: un’assunzione dapprima inconscia per lei, che ne ha solo una vaga immagine nella mente, e poi sempre più consapevole e operante man mano che quell’immagine, nel reale adempiersi della tensione intenzio-nale, prende materialmente corpo.

In questa direzione appaiono rilevanti anche le seguenti parole del neurofenomenologo Humberto Maturana: “Con questo si intende dire che la legittimità dell’altro si costituisce in condotte od operazioni che rispettano e accettano la sua esistenza come è, senza sforzo e come un fenomeno del mero convivere. Legittimità dell’altro e rispetto per lui o lei, sono due modi di relazione congruenti e complementari che si implicano reciprocamente. L’amore è un fenomeno biologico proprio dell’ambito relazionale animale, che nei mammiferi appare come un aspetto centrale della convivenza nell’intimità della relazione materna-infantile in totale accettazione corporale.”5

D’altra parte, la capacità di immaginare consente di anticipare le situazioni reali fino al punto di simularle: da-gli studi neurologici sappiamo che la simulazione non è soltanto un certo atteggiamento mentale accompagnato o meno da atteggiamenti del corpo. Al contrario, come hanno dimostrato le recenti ricerche, la simulazione è de-terminata dall’attivazione di specifiche regioni della corteccia cerebrale, là dove sono collocati i cosiddetti “neu-roni-specchio”, preposti all’imitazione di certi gesti specifici in quanto sono visti come compiuti (o in procinto di essere compiuti) da parte di altri soggetti. Così l’unità madre/figlio, rappresentata nell’esperienza materna (anche soltanto nella figurazione artistica) anche dal simbolo di quel particolare abbraccio che è a tutti noto, viene im-maginata e simulata dalla coscienza della gestante come anticipazione della propria futura esperienza. Come dice il neurologo Vittorio Gallese:

“L’immaginazione visiva è equivalente alla simulazione di una reale esperienza visiva [....] Questo processo di simulazione automatica costituisce anche un livello di comprensione, un livello che non implica l’uso esplicito di alcuna teoria o rappresentazione simbolica.”6

È certamente evidente, in questo caso, che ogni altra intimità è meno stretta di quella che si verifica nella ge-stazione umana, la quale è da ritenersi un’accettazione totale perché anzitutto costituita da un’unica “carne”7 e poi fondata di norma su di una sfera di impressioni, sentimenti, pensieri, valutazioni che sorge da una volontà vigi-le e operante. E’ qui, perciò, che si delinea l’orizzonte su cui potranno poggiare i vissuti come vigi-le condotte proprie della maternità, le quali postulano un legame particolare nel presente ma anche progressivo nell’incedere del tempo.

Il pre-io del feto è posto fin dall’origine in questo legame, e ne riceve la “materia” costituita da tutti gli ele-menti necessari per la sua formazione non solo fisica ma anche e soprattutto psichica, se pensiamo allo stadio di evoluzione della specie umana che esso riceve nella forma della simbiosi attraverso il liquido amniotico, almeno stando alle tesi dello psicanalista Wilfred Bion.8 Ma soltanto a partire dagli atti intenzionali di colei che mette al mondo consapevolmente si ha l’inizio autentico della nuova vita, non l’inizio oggettivo del suo tempo fisico e bio-logico ma quello che la colloca ...

“...entro un’unità monadica della coscienza, unità che nulla ha a che fare con la natura, lo spazio, il tempo, la sostanza e la causa, ma possiede le sue «forme» del tutto proprie. E’ questo un flusso illimitato dai due lati di una

5

Maturana H., Ximena D., Emozioni e linguaggio in educazione e politica, S.C.E. Santiago del Cile 1984, tr. it. Eleuthera, Milano 2006.

6

Gallese V., Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neurofenomenologica, in AA.VV. Neurofenomenologia, Le scienze della mente e le sfide dell’esperienza cosciente, a cura di Cappuccio M., Mondadori, Milano 2005, pp. 306 e 307.

7

Uso qui il termine adottato dai fenomenologi francesi per tradurre l’accezione husserliana di Leib, in italiano resa con “corpo proprio”: la parola “carne” per la sua icasticità, mi sembra particolarmente efficace in questo passaggio del mio discorso.

8

linea intenzionale trascorrente, che è come l’indice dell’unità che tutto attraversa, cioè della linea del «tempo» immanente senza inizio né fine, un tempo che nessun cronometro misura.” (Husserl E.)9

Momento culminante del tempo che questa intenzionalità materna sa invece misurare nell’unità di coscienza è l’incontro reale con il piccolo corpo, contenuto nel ventre della donna, che fa avvertire energicamente i suoi movimenti, oppure si rende visibile grazie alla diagnostica ecografica. E’ allora che la madre ha la prova materiale della presenza del figlio o della figlia fino allora soltanto anticipati nell’immaginazione, e giunge a comprendere autenticamente il senso della relazione originaria ormai costituita e destinata ad operare illimitatamente. Dalla quale scaturiscono altre relazioni, man mano che la visibilità del corpo ingrossato della gestante annuncia il fatto che un nuovo essere umano si presenta come un potenziale io, e attraverso tale complesso relazionale, grazie al riconoscimento del significato di questo annuncio, vengono a unirsi intimità e socialità. Allora la volontà procrea-tiva della donna, anziché rimanere solo connessa all’autodeterminazione, diviene il modo consapevole di intro-dursi nella catena generativa e aprirsi all’autotrascendenza, e tale volontà assume così il valore di un elemento primario della sfera pubblica.

A questo proposito giova ricordare il pensiero di Hanna Arendt, secondo cui la causa dell’inautenticità delle relazioni sociali era da attribuirsi al prevalere della vita privata, alla quale ella contrapponeva la vita pubblica, indi-cando in questa la sede della “relazione plurale costitutiva di umanità”, in quanto mondo “che abbiamo in comu-ne non solo con quelli che vivono con noi ma anche con quelli che c’erano prima e con quelli che verranno dopo di noi”.10

Per Arendt la natalità e non la mortalità era da ritenersi categoria centrale del pensiero politico: il corso ineso-rabile della mortalità è interrotto da ogni nascita che, diceva, ha la facoltà di iniziare qualcosa di nuovo, cioè di mutare le cose secondo nuove possibilità.11 In chiave fenomenologica noi possiamo qui intravedere in atto il prin-cipio della continuità del possibile, quale fondamento di un modello etico materno. Questo può essere destinato a superare il modello patriarcale, fondato invece sul principio della continuità del potere, dove le rigide identità stabilite dai Padri, Padroni, Maestri e Monarchi generano i solchi delle discendenze, delle etnie, dei possedimenti, dei regni: solchi che segnano di tracce sanguinose la storia dell’umanità.

La possibile configurazione di un modello materno, meglio definibile come modello della generatività, si an-nuncia fin d’oggi nell’esperienza di quanti, uomini e donne, sanno affrontare la tensione tra le proprie tendenze regressive e quelle potenzialità che aprono nuovi orizzonti, accettando da una parte di essere stati dipendenti e dall’altra di riconoscere quel senso dell’alterità che la relazione originaria rappresenta. Collegato a questa sensibi-lità è l’atteggiamento adulto di entropatia con il quale ognuno può rapportarsi ai piccoli esseri umani, assumendo una particolare intenzionalità, bene illustrata dalle parole di Marco M. Olivetti:

“L’intenzionalità del prendersi cura dell’infante, il rivolgere il proprio volto all’infante, con il gioco di identifica-zioni e proieidentifica-zioni [...] che tale rivolgersi mette in moto, è intenzionato alla costituzione non di un oggetto come interiorità coscienziale, bensì di un soggetto come esteriorità coscienziale, o altra coscienza. Nel rivolgersi all’infante la coscienza è come non mai costituente, ma costituente di coscienza e di soggettività.”12

Avendo chiara la sua natura di mente generativa la madre appare per eccellenza adatta a questo sviluppo del-la redel-lazione con i figli, se sa coltivare l’attenzione alle loro esigenze, anche favorendo il loro distacco in quanto sa volerne l’autonomia. Essa sa di doverli trattare come esseri pensanti fin dai primi anni, e di dover loro il rispetto dovuto ad ogni soggetto. Tutti, del resto, che siano donne o uomini, possono iscriversi in questo orizzonte di sen-so, dal momento in cui vorranno considerare ogni relazione originaria come fondamento etico del vivere.

9

Husserl E., Philosophie als strenge Wissenschaft, Husserliana XXV, Nijhoff The Hague 1987, tr. it. La filosofia come scienza rigorosa, Pisa 1992, pp. 70-71.

10

Arendt H., The human Condition, Chicago 1958, tr. it. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1991, p. 41.

11

Cfr.: ivi, p. 182.

12

IL POTERE DELLA VELOCITÀ NEL TEMPO DELLA POVERTÀ

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