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Dalla visione all’ interpretazione del mondo: la questione del realismo

Nel documento www.sfi.it Registrazione: ISSN 1128-9082 (pagine 136-140)

Questo comporta tuttavia la necessità di ‘leggere’ le immagini: infatti, come afferma il filosofo contempora-neo Edgar Morin in Il cinema o l’uomo immaginario, tutti hanno intelligenza di ciò che vedono, anche se con di-versi punti di vista, ovvero il coglimento dell’immagine nella sua denotazione – il suo riferirsi a un dato - è imme-diato; ma la fruizione delle immagini sul piano della loro connotazione costringe a un ulteriore lavoro di analisi per ricavarne i rimandi più profondi.

Pertanto, nonostante il linguaggio cinematografico sia analogico in quanto propone un legame diretto fra si-gnificato e significante, si impone l’obbligo di imparare a ‘leggere’ le immagini in movimento, meglio se nella con-sapevolezza delle sue regole espressive.

Questo rilievo pone un primo livello di riflessione linguistica che la filosofia fa proprio nel Novecento, soprat-tutto all’interno della polemica fra visione scientifico-deterministica del mondo e quella ermeneutica-continentale, che meglio sorregge la predetta esigenza di comprensione e di decodificazione delle immagini come del mondo stesso.

La matrice moderna e scientista che fonda il proprio assunto gnoseologico sulla corrispondenza fra pensiero e realtà - il razionalismo - come pure fra percezione e realtà – l’empirismo sino agli esiti positivisti ottocenteschi – viene meno nel momento in cui le spinte irrazionaliste della riflessione teorica pongono il dubbio sulla razionalità e sulla conoscibilità del mondo. L’avvio della riflessione ermeneutica da un lato – Gadamer, nello specifico - e di quella falsificazionista dall’altro – Popper, ma anche Lakatos, Kuhn e Feyerabend - ha di fatto ridiscusso il rappor-to fra soggetrappor-to e oggetrappor-to della conoscenza, proponendo l’impossibilità della definitività di ogni forma di sapere del reale2

. Si fa strada, attraverso il principio di indeterminazione di Heisemberg e la teoria della relatività di Ein-stein, la convinzione della non misurabilità oggettiva del mondo in tutte le sue componenti.

La successiva riflessione filosofica ha infine messo in luce, attraverso le elaborazioni di Mary Hesse e, in Italia, di Dario Antiseri, come non solo da parte della filosofia venisse una critica all’onnipotentismo gnoseologico e al feticismo dei fatti scientista, ma anche da parte della scienza stessa si riconfigurasse la percezione del proprio la-voro entro i parametri della probabilità e della verosimiglianza tarskiana di contro al mito della oggettività indi-scussa.

Come la filosofia, anche il cinema nella sua storia continua a riproporre il dibattito sul realismo, ovvero sulla corrispondenza con la realtà.

Esso infatti ha vissuto - e forse continua a vivere – l’ambizione realista, tendendo alla mimesi del reale, o al-meno di partecipazione - metessi - sin dalle sue prime espressioni e sulla scia dell’esperienza fotografica. Si pensi, ad esempio, al tentativo dei fratelli Lumière di ‘riproduzione’ della vita attraverso immagini in movimento riprese a macchina da presa fissa, quasi a garanzia di oggettività.

Pure, il cinema “cerca” di riprodurre fedelmente il mondo, non potendo certo eliminare il fattore ‘soggettivo’ della sua riproduzione. Infatti, decisamente oltre il realismo si collocano le stagioni più recenti del cinema che si cala nell’onirico, nell’inconscio, nel buio delle pulsioni, come pure le riflessioni che il cinema opera sul cinema stesso, determinando nuovi approcci alle opere filmiche che implicano, appunto, un approdo alla lettura erme-neutica dell’immagine.

Fra questi spicca la filosofia del linguaggio filmico, che si interpella su ‘come’ il cinema possa raccontare e su quali siano i processi che producono senso - è il caso della semiologia e dello strutturalismo - , o della filosofia pragmatica, che invece tende a indagare il cinema come ‘evento’ che interpella lo spettatore in un’incontro’ col-lettivo e, come dicevamo, pur sempre individuale. In quest’ultima direzione, l’approccio alle immagini cinemato-grafiche si apre alla circolarità virtuosa dell’ermeneutica novecentesca - il circolo con un senso ontologico positi-vo, secondo le parole di Hans Georg Gadamer in Verità e metodo - , la quale pone una nuova questione: quella della ‘oggettività della non oggettività’, ovvero della messa in gioco del soggetto nella fruizione dell’arte in un dia-logo continuo con essa, al fine di fare emergere l’alterità del testo filmico attraverso l’attribuzione di senso che viene ad esso offerto. Il rapporto inesausto fra soggetto e oggetto è lo sfondo del conoscere originario, che si fon-da sulla premessa antropologica della intrinseca vocazione dell’uomo alla comprensione (il Verstehen), viene rigo-rosamente distinta dall’Erklaren , ovvero dal ‘capire’ e del ‘definire’ nel senso scientista e oggettivo del termine.

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La filosofia e il cinema: il contributo dei filosofi sulla settima arte

La questione del realismo e dell’approccio linguistico ed ermeneutico all’arte, e al cinema in particolare, attra-versa la riflessione dei filosofi come dei registi contemporanei, soprattutto alla luce della necessità di operare un’ analisi estetica che non rinchiuda il cinema in una dimensione puramente ludica, e quindi inessenziale rispetto all’esperienza esistenziale dell’uomo.

In tale direzione, è Martin Heidegger in Sentieri interrotti ad avviare il recupero storico-esistenziale dell’arte. La riflessione di Heidegger si concentra soprattutto sulla parola poetica e sulle opere del poeta romantico Holder-lin, ponendo tuttavia delle premesse estetiche che vengono in seguito applicate da altri teoreti anche ad altre forma di arte quali il cinema. L’opera d’arte viene definita dal filosofo tedesco come la “messa in opera della veri-tà” nel senso che in essa la verità ‘accade’, ovvero si manifesta, ma in modo diverso da come la metafisica classica aveva immaginato alla luce del principio della adeguazione alle cose, secondo il quale la proposizione deve dire il reale: l’arte propone illuminazioni, apertura a mondi possibili ed esperibili in quanto dona all’uomo un linguaggio attraverso il quale render manifesto e serbare l’esistente come tale. Ora, l’uomo è l’ente al quale compete per ec-cellenza porre domande ed attestare la propria esistenza, e questo è possibile solo istituendo un rapporto auten-tico con il tempo nel quale egli si progetta. Tale autenticità deve passare a sua volta attraverso la ricerca della pa-rola originaria – Urwort - , ovvero attraverso l’opera del disvelamento di senso che avviene in modo privilegiato in un continuo dialogo con il prodotto artistico. Il linguaggio infatti non è solo uno strumento di intendimento, poi-ché solo dove c’è la parola c’è il mondo e, quindi, la storia nella quale gli uomini progettano il proprio Dasein – il proprio esserci nel mondo, appunto, in modo autentico - nella dimensione del Mitdsein, ovvero della condivisione e del colloquio con gli altri che comporta, a sua volta, ascolto e apertura al senso.

La lezione di Heidegger segna profondamente la filosofia novecentesca, soprattutto laddove la postmoderni-tà, facendo proprio l’assunto del crollo delle certezze onto-gnoseologiche, riprende la discussione sul tramonto dell’estetica moderna e vede da parte dei filosofi concentrare l’analisi dell’espressione artistica proprio sulla for-ma contemporanea della settifor-ma arte.

Il carattere fondamentale della cultura del post-moderno consiste nella sostituzione della luce accecante della verità con il chiaroscuro di una verosimiglianza liminare: alle certezze teoretiche e scientifiche si è infatti alternata la molteplicità delle interpretazioni e degli sguardi sul mondo. Quest’ultimo, non più sottoponibile ad una misura-zione oggettiva, è così divenuto narramisura-zione, favola - e quindi luogo di proiezioni e produzioni artistiche - , perden-do, secondo la lezione di Gianni Vattimo in La società trasparente, la propria connotazione scientifico-teoretica. Di fronte a questo panorama, che tende a moltiplicare i punti di vista prospettici legittimandoli tutti nella dimensio-ne allargata del villaggio globale teorizzato da Mc Luhan, la tentaziodimensio-ne è di cedere al frammento, all’illusiodimensio-ne rico-noscendola come tale: il cosiddetto pensiero debole, ad esempio, indulge a una lettura di Nietzsche indirizzata in tale senso. Ma un altro rischio è quello della misologia, che deriva dalla perdita della possibilità di ogni orizzonte veritativa sfociando nel temuto relativismo, utilizzato sempre più come sinonimo di soggettivismo acritico.

D’altra parte, però, la cultura del frammento nella sua precarietà dischiude grandi possibilità: quelle del con-fronto fra prospettive analitiche, quella del dialogo e della apertura verso nuovo mondi possibili, intendendo con ciò la determinazione di sistemi alternativi di rappresentazione del reale, la cui datità finisce con il coincidere con la sua rappresentazione: la maschera coincide con il volto, l’apparenza con la realtà, e il cinema rientra in tale pa-norama. Infatti, esso produce urti, provocazioni (Stoss, nel senso heideggeriano o Shock, nel senso di Benjamin) percettivi e cognitivi con i quali il soggetto deve fare i conti per riconfigurare continuamente la propria esperienza e visione del mondo.

È pertanto ancora Vattimo a rilevare che la società stessa sta vivendo grandi e repentine trasformazioni non prive di latenti contradditorietà. Infatti, i mass media offrono la possibilità di una trasparenza assoluta del mondo ma nel contempo la negano: l’informazione può essere luogo di trasparenza ma anche di perdita di verità, di co-municazione, poiché sostituisce il tempo del frammento, del ‘punto’ in successione e dell’obsolescenza continua alla linearità del tempo storico, di quello interpretato dai moderni come evento progressivo nelle forme laiche e religiose degli storicismi.

Si fa strada dunque quella che Fredric Jameson, in Il post moderno, definisce come l’era populista dell’arte, quella che vede interrelata l’esperienza estetica alla cultura di massa ma anche al metissaggio dei gusti e degli sti-li, come afferma Edgard Morin per indicare la mescolanza, metaforicamente allusa nel cromatismo del ‘mantello di Arlecchino’. Questa dinamica rende possibile nuovi scenari della fruizione dell’arte ma anche il rischio che

Wal-ter Benjamin intravede allorché parla della perdita dell’ “aura” nei suoi saggi raccolti in L’opera d’arte nell’epoca

della sua riproducibilità tecnica.

Benjamin prende spunto dalla necessità di superare l’estetizzazione della politica perseguita dai fascismi con la risposta comunista della politicizzazione dell’arte e nota come l’avvento di nuove tecnologie e il carattere di massa delle stesse abbiano messo in atto una dinamica positiva che ha posto termine alla concezione aristocratica dell’arte. In effetti, la società di massa e la tecnica rendono a tutti accessibile l’arte, prima fra tutte quella cinema-tografica, grande esperienza popolare del Novecento. Almeno nella forme espressive russe alle quali Benjamin fa più frequente esplicito riferimento di contro alle rappresentazioni illusionistiche dell’industria cinematografica oc-cidentale, il cinema si configura come un fenomeno primario, ovvero non come effetto immediato dello sviluppo economico-sociale, e pertanto può svincolarsi dagli inganni della società industriale-capitalistica: attraverso il ci-nema, infatti, la massa diviene giudice competente, ovvero da un rapporto retrivo con l’arte – la non comprensio-ne - trapassa a uno progressivo comprensio-nel senso che il gusto del vedere e del rivivere si concomprensio-nette con un atteggiamento critico. Ciò significa che, paradossalmente, l’antitesi fra raccoglimento elitario di fronte all’opera d’arte, che pre-suppone capacità di sprofondarvisi per meglio coglierne il senso, e distrazione, che invece tende a ridurre l’opera al piacere del pubblico, viene ad annullarsi proprio con il cinema. Ciò è infatti legato alla possibilità del cinema di offrire una ricezione collettiva simultanea a un vasto numero di persone, cosa che la pittura e la fotografia non possono fare, almeno non in modo simultaneo.

Il cinema, inoltre, propone una modalità di rappresentazione del mondo attraverso strumentazioni tecniche che permettono di ampliare e modificare anche l’appercezione ottica e acustica. Infatti, la possibilità di dettaglia-re i primi piani e di fadettaglia-re emergedettaglia-re sfondi invisibili di primo acchito, come pudettaglia-re la possibilità di analisi di ambienti banali con la guida geniale dell’obiettivo sono, per Benjamin, additivi della comprensione degli elementi anche costrittivi dell’esistenza umana e, nel contempo, garantiscono margini di libertà nuovi ed imprevisti: il cinema di-lata lo spazio – il primo piano - e il tempo – il rallentatore - mostrando una natura diversa da quella che parla all’occhio e sottoponendo continuamente lo spettatore a continui shock.

A fronte di questo potenziale costruttivo del cinema, Benjamin tuttavia osserva che il cinema come fenomeno di massa costituisce non solo una sorta di vendetta e di ribaltamento nei confronti dell’arte elitaria e borghese ma anche uno sfondo che può portare alla perdita delle autenticità dei rapporti umani a vantaggio dell’alienazione. In tale senso egli parla della perdita dell’aura, che è pertanto perdita anche dell’unicità: il cinema è l’agente più po-tente in tale direzione. Il suo significato sociale è pertanto duplice: positivo, come emancipazione delle masse e loro riappropriazione del prodotto artistico, ma anche negativo, distruttivo proprio nel senso della liquidazione di una eredità culturale, poiché la riproduzione pone al posto di un evento unico – l’aura, appunto – una serie quan-titativa di eventi simili.

Sulla scia di Benjamin si colloca Theodor W. Adorno, che tuttavia accentua in Minima Moralia la sua analisi e-tico-estetica sulla perdita di autenticità e sulla impossibilità da parte dell’uomo contemporanea di vivere espe-rienze a causa di un errato rapporto con le cose, con gli oggetti. La tecnica produce l’ a-storicità del reale, deter-minando uno scollamento fra il soggetto e il mondo: lo stesso può accadere nell’ambito dell’immagine filmica, condannata nel limbo di una tecnologia che rende l’apparenza reale e competitiva di verità.

L’esperienza estetica di per sé si pone tuttavia come una ultima possibilità di salvezza per l’uomo contempo-raneo, condannato alla massificazione da una società sempre più totalizzante: in questa ulteriore ottica, per A-dorno, che spesso fa riferimento alle avanguardie novecentesche e alla esperienza musicale dodecafonica, il ci-nema può diventare una forma non tanto di riproduzione del mondo, che non deve necessariamente esserne ri-specchiato, ma di messa in crisi del reale, come una sorta di ‘contro-movimento’ che concede all’arte di non la-sciarsi mai integrare dal ‘sistema’. Per questo motivo, in Teoria estetica Adorno, ripercorrendo l’estetica dell’Occidente a ripartire da Platone, riprende il concetto di apparenza riscoprendone il valore anche di eversione, di denuncia e di anticipazione, proprio perché non si riduce a mera rappresentazione del reale.

Ritorna così ad emergere il problema del rapporto immagine/cinematografica e realtà, aspetto questo che sul piano della riflessione nata all’interno della prassi cinematografica ha visto in primo piano André Bazin, autore di un importante saggio intitolato Che cosa è il cinema. Bazin crede nella natura realistica del cinema, ma si chiede se se esso sia in grado, rispetto ad altre forme di espressione iconica, di restituire il reale nella sua pienezza, nel suo spessore profondo, se cioè sullo schermo possa rivivere il mondo nella nostra esperienza (realismo

ontologi-co- esistenziale), o se invece il cinema ce ne dia solo una forma esteriore, ovvero ce lo descriva solo in modo più dettagliato (realismo funzionale).

Di fatto, il cinema, in particolare, offrendo allo sguardo una naturalità di movimenti e suoni, come pure una verosimiglianza di narrazione, fa nascere l’illusione di potere creare o almeno ri-creare la realtà stessa. Alle origini delle arti plastiche, di tutte quante, infatti, vi è secondo Bazin il complesso della mummia, ossia della necessaria conservazione di ciò che è destinato a perire. Da tali premesse però si muove il confronto fra immagine pittorica e foto-cinematografica, la quale, nel riprodurre il reale in termini statici (la fotografia) o dinamici (il cinema), di fatto cristallizza la vita reale entro il tempo della narrazione (diegesi), sottraendolo pertanto al divenire cronologico. Così facendo, però, il cinema definisce una nuova forma di oggettività: quella del prodotto artistico stesso, che non è pura finzione né pura realtà, ma ha un suo proprio statuto ontologico connesso alla realtà stessa, collocata in un tempo reversibile e infinitamente ripercorribile, quello compreso nella pellicola che può essere infinitamen-te rivisitata, fermata, riavvolta nel suo scorrere sullo schermo.

Le cose e i corpi vengono così difesi dal tempo che li corrompe poiché fissare artificialmente le apparenze si-gnifica strapparli dal flusso della durata e ricondurli alla vita in una perenne sconfitta della morte: l’apparenza del cinema ‘salva’ così l’essere. Il cinema diviene dunque una sorta di impronta digitale della realtà, più che una sua copia, poiché esso aderisce all’esistenza, è come il lenzuolo della Sindone che mantiene viva la presenza del corpo al quale viene sovrapposto, appartenendovi ontologicamente in una continuità profonda. Da qui deriva il divieto baziniano di rappresentare quello che della vita è così unico e intimo da non potere essere ‘raddoppiato’ nella sua icona, come l’amore e la morte.

Cinema ‘comunione’ con la realtà, dunque. Ma Bazin nei suoi saggi va oltre, reclamando per il cinema anche uno statuto di verità: esso partecipa infatti alla realtà sino a riproporne il senso latente, sino ad incerarne lo spes-sore, disvelarne l’essenza permettendo allo sguardo di andare alla libera scoperta del mondo.

L’unica verità possibile al cinema è per altri autori quella della rappresentazione (realismo funzionale), che, pur non offrendo la verità oggettiva, dunque, non per ne questo risulta meno significativa. Gilles Deleuze, a tale scopo, lascia una importante riflessione nelle sue opere, L’ immagine tempo e L’immagine-movimento. Deleuze pone come modello di verità l’adeguazione del soggetto e dell’oggetto. Nel cinema, oggettivo è ciò che la macchi-na da presa (m.d.p.) vede, mentre soggettivo è ciò è visto dal persomacchi-naggio: in tal senso, anche la MDP è persomacchi-nag- personag-gio che talora vede e talora è visto, ma nel contempo è essa a presentare il personagpersonag-gio visto e ciò che esso vede. Pertanto, il racconto sviluppa immagini soggettive e oggettive in un rapporto complesso. In questo e non in altro sta a suo avviso la condizione di base del cinema, dal punto di vista della veridicità di ogni racconto possibile.

Deleuze ribadisce comunque il nesso fra cinema e filosofia: entrambi sono infatti modi di dare spazio al pen-siero, pratiche concettuali che non preesistono al proprio campo di investigazione e, ancora, entrambi necessita-no l’unecessita-no dell’altra: il cinema, per esprimere teoreticamente la sua visione del mondo; la filosofia, per assumere espressioni più dirette e talora più efficace della teoresi.

La filosofia ha dunque una funzione privilegiata rispetto al cinema, poiché opera nella direzione della teorizza-zione delle immagini e dei segni che il cinema produce e che da se stesso non potrebbe ricondurre al piano teori-co. Da parte sua, il cinema è in grado, però, di restituire ed unire i tre livelli della realtà, quelli che Deleuze identi-fica rileggendo dal proprio punto di vista il pensiero di Bergson: il tutto della realtà perennemente diveniente, il movimento delle parti fra di esse o in rapporto al tutto, e gli oggetti, i singoli enti esistenti come attualizzanti il tutto. Infatti, il cinema ha dato corpo a tre immagini corrispondenti, l’immagine-istantanea, corrispondente all’ente e a ciò che è in atto, l’immagine-movimento, che dice il rapporto fra ciò che è e che potrebbe essere, e l’immagine-tempo, che manifesta la pura durata. In tale modo il cinema non ricalca soltanto ma restituisce il rea-le, mentre la realtà in esso appare in una delle sue possibilità fenomeniche. La realtà del cinema è una realtà per-cepita, certo, ma come tale è un reale circoscritto, recintato ma non per questo meno ‘realtà’.

 Il cinema e la filosofia: lo statuto ontologico delle immagini e il

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