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IL POTERE DELLA VELOCITÀ NEL TEMPO DELLA POVERTÀ Adriana Marigliano

Nel documento www.sfi.it Registrazione: ISSN 1128-9082 (pagine 173-179)

La percezione e la rappresentazione del tempo elaborata dall’uomo non è univoca. Come evidenzia Ernst Jün-ger ne Il libro dell’orologio a polvere: «Chi dice: il tempo passa, scorre, trascorre, fugge, ha in mente un tempo di-verso rispetto a chi usa modi di dire nei quali il tempo è rappresentato da una ruota e parla perciò di cicli e di ri-corsi. Per il primo il tempo è una forza progressiva; per l’altro una forza ciclica. Sebbene nel tempo siano presenti entrambi questi aspetti, è molto diverso se percepiamo l’uno o l’altro, a quale dei due prestiamo ascolto»1

. Infatti, continua sempre Jünger «il tempo che ritorna è un tempo che dona e restituisce. Le ore sono ore dispensatrici. Sono anche diverse l’una dall’altra perché ci sono le ore di tutti i giorni e le ore di festa. Ci sono albe e tramonti, basse e alte maree, costellazioni e culminazioni. Il tempo progressivo, invece, non viene misurato in cicli e moti circolari, ma su una scala graduata: è un tempo uniforme. Qui i contenuti passano in secondo piano»2

.

Il tempo circolare è il tempo del racconto la cui fabula si dipana in un intreccio fatto di analessi e prolessi, a-vanti e indietro; è il tempo della nostra memoria, che ci fa riaffiorare ricordi al momento opportuno o inopportu-no; è il tempo delle stagioni, del ritorno del «dì di festa» che «s’aspetta bramosamente», dice Leopardi; è il tempo del movimento degli astri, ovvero, come afferma Platone, è «l’immagine mobile dell’eternità». È il tempo cosmico dell’eterno ritorno, abbracciato dal rito e dal mito; è il tempo degli antichi, i quali non erano intimoriti da nessun «Signore della Storia»3

, quanto piuttosto dal «Logos del cosmo»4

che tutto governa e ribadisce nel ciclo.

Il tempo lineare irrompe nella tradizione giudaico-cristiana, che direziona tutto il divenire verso la fine del giorno che «getta via ciò che copre», ovvero il giorno dell’Apocalisse. In tal modo, «simile alla bussola, che ci o-rienta nello spazio e nel tempo e ci permette di dominarlo, la bussola escatologica ci dà un oo-rientamento nel tempo, indicando il regno di Dio come fine e termine ultimo»5

. Il tempo lineare è anche il tempo della scienza moderna che sostituisce l’idea de «la fine» con l’idea di «un fine illimitato», salutato dalla modernità con l’immagine rassicurante del progresso, come testimoniano le parole di Condorcet : «la natura non ha posto alcun limite al perfezionamento delle facoltà umane; […] la perfettibilità dell’uomo è realmente indefinita: [...] i pro-gressi di questa perfettibilità, ormai indipendenti da ogni potenza che volesse arrestarli, non hanno altro limite che la durata del globo sul quale la natura ci ha gettato»6

.

La concezione del tempo della scienza è strettamente legata alla misurazione e al calcolo. Per questo, in una stupenda poesia «Sul tempo» di Kahlil Gibran, è proprio chi calcola il tempo, un astronomo, a chiedere al Maestro di parlargliene.

«E un astronomo disse: Maestro, che dici del Tempo? Ed egli rispose:

Vorreste misurare il tempo, il tempo che non ha misura ed è incommensurabile.

Vorreste regolare la vostra condotta e dirigere finanche il corso del vostro animo secondo le ore e le stagioni. Del tempo vorreste fare una corrente sulla cui riva sedere guardandone il fluire.

1

E. Jünger, Das Sanduhrbuch, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart 1954; trad. it. Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994, p. .63.

2

Ivi, p.64.

3

O. Franceschelli, Karl Lövith.Le sfide della modernità, Donzelli, Roma, 1997, p. 83.

4

Ibidem.

5

K. Löwith, Weltgeschichte und Heilgeschichte. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie, Kohlammer, Stuttgart 1953; trad. it. Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 39.

6

J.-A.-N. Caritat de Condorcet, Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain (1795), tr. it. Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Editori Riuniti, Roma 1995, p. 48.

Ma ciò che è in voi senza tempo è consapevole della atemporalità della vita.

E sa che l’oggi non è che il ricordo di ieri, e domani non è che il sogno di oggi.

E ciò che in voi è canto ed estasi ancora dimora entro i confini di quel primo attimo che disseminò le stelle nello spazio.

Chi tra voi non sente che la sua potenza d’amore è illimitata?

E chi non avverte tuttavia questo amore, benché

illimitato, è come incastonato nel centro del proprio essere, e che non trapassa da pensiero d’amore a pensiero d’amore né da azioni d’amore ad altre azioni d’amore?

E non è il tempo, così come lo è l’’amore, indiviso e immoto?

Ma se col pensiero avete da misurare il tempo in stagioni, fate allora che ciascuna stagione cinga tutte le altre. E che il presente abbracci il passato con il ricordo e il futuro con l’ardente desiderio»7.

Queste vibranti parole profferite dal pensiero poetante di Gibran contro la concezione oggettivistica del tem-po trovano riscontro nel pensiero meditante di Sant’Agostino, confermando quanto Heidegger evidenzia a protem-po- propo-sito della poesia e della filosofia, che se non sono la stessa cosa, non di rado, intorno alla verità che ama nascon-dersi (κρύπτεσθαι φιλεί), possono incontrarsi e dire differentemente il Medesimo. La prospettiva agostiniana sul tempo è una delle più celebri. Nelle Confessioni, alle domande «che cos’è il tempo?»8

, «Chi saprebbe spiegarlo in forma piena e breve?»9

, «Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a paro-le?»10, il filosofo di Tagaste risponde che, pur trovandoci di fronte ad uno dei concetti più noti e familiari – «quan-do siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quan«quan-do ne udiamo parlare»11 – , se nessuno ce lo chiede, lo sappiamo, se vogliamo però spiegarlo a chi ce lo chiede, allora non lo sappiamo più. Certo, continua Sant’Agostino, sentiamo che il tempo è qualcosa che passa, che viene, che esiste, tanto da poter dire con fiducia: «senza che nulla passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futu-ro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente»12

. Il dileguare del tempo, però, connota la condi-zione umana di un carattere paradossale, in quanto la pone di fronte ad un passato e ad un futuro che, perdendo-si nel fluire, svaniscono tanto da sembrare ineperdendo-sistenti: il passato non eperdendo-siste più, il futuro non eperdendo-siste ancora. La di-mensione temporale del presente complica ancora di più il discorso sul tempo; infatti, il presente non può essere chiamato tale se anch’esso passa, e tantomeno potremmo impedirgli di farlo diventare passato senza trasformar-lo in eternità, ovvero in qualcosa che non è più tempo. Ma il tempo è per natura il dileguante e possiamo dire che esiste «se non in quanto tende a non esistere»13

. Eppure, noi siamo propensi a quantificare questa «cosa» che tende a non essere: «parliamo di tempi lunghi e tempi brevi […]. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad e-sempio, di cento anni prima; breve poi è il passato quando è […] di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo»14. Chiamare breve e lungo quanto non esiste più o non è ancora, però, secondo Agostino è parados-sale. Passato e futuro, infatti, sono presenti solo nel mio animo, che presentifica il passato attraverso il ricordo, il

futuro attraverso l’attesa e che fa durare il presente attraverso l’attenzione: «forse sarebbe giusto dire che i tempi

sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la vi-sione, il presente del futuro l’attesa»15

. Ma allora che cos’è il tempo? È distensio animi, dice Agostino. In tale

7

G. K. Gibran, The prophet (1923), Knopf Publishing Group, New York, 1973 ; trad. it., Il profeta, Newton Compton, Roma 1988, p. 83.

8

Agostino, Confessioni, ed. Orsa Maggiore, Torriana 1991, p. 235.

9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Ibidem 14 Ibidem 15 Ivi, p. 239.

spettiva, ci troviamo di fronte ad una rivoluzione copernicana, in quanto non sono le cose ad essere misurate nel loro trascorrere, ma è la dimensione interiore, la distensione nascosta dell’anima a poterci dare una misura del tempo. Sono le affezioni, le modificazioni incise dentro di noi a darci le scansioni temporali. Non siamo noi a vive-re nel tempo, ma è il tempo a scorvive-revive-re dentro di noi, a davive-re senso alla nostra vita.

E il tempo dell’orologio? La regolazione della nostra vita sull’orologio trasforma la durata, il tempo interiore, in quel susseguirsi di un istante dietro un altro che traduce la distensio in un’extensio, individuata da una molte-plicità numerica. Il tempo, così, viene esperito nel movimento delle lancette dell’orologio. In breve viene spazializ-zato. Certo a misurare il tempo è sempre l’anima, ma ciò avviene secondo un movimento che si realizza fuori di noi, secondo un movimento «oggettivo».

Come sostiene Bergson, se il tempo interiore è assimilabile ad una matassa, quello oggettivo assomiglia ad un filo di perla. Se il tempo interiore è un groviglio difficile da districare, quello oggettivo è una cordicella che si è li-berata dell’intrico voluminoso per lasciare spazio alle piccole unità perlacee, tutte identiche. E quello che viviamo (i nostri contenuti psichici), riletto in chiave spazio-temporale, come ci insegna ancora Bergson, cambia significa-to; quando vincoliamo i dati immediati della coscienza alla misurabilità spaziale, ci lasciamo sfuggire la loro valen-za originaria, poiché perdiamo la complessità propria dell’Erlebnis, di quel groviglio che noi stessi siamo, di quell’unità appercettiva la quale, se è vero che tiene insieme tutte le nostre esperienze, è vero anche che le tiene in maniera tutt’altro che chiara e distinta. Quanto scorre dentro di noi è fuori dal giogo della numerazione. I dati immediati della coscienza, quali il dubitare, l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’immaginare, quindi il sentire, il patire, il desiderare non sono segmenti che si succedono secondo una relazione di causa ed effetto. I momenti che contraddistinguono la nostra soggettività si accumulano, si compenetrano senza contorni precisi, non presentano nessuna tendenza ad esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri e non hanno una parentela con il nu-mero: «presi in se stessi, gli stati di coscienza profondi non hanno alcun rapporto con la quantità; sono pura quali-tà; e si mescolano in modo tale che non si può dire se si tratta di uno solo o di molti, e non si può nemmeno ana-lizzarli da questo punto di vista senza snaturali. La durata che in questo modo creano è una durata i cui momenti non costituiscono una molteplicità numerica»16

. I contenuti coscienziali si con-fondono, si perdono nell’oblio e, come ci insegna Freud, riaffiorano nei frammenti del ricordo, secondo il movimento di un flusso spontaneo che è libero dalle costrizioni segmentarie del tempo dell’orologio.

Questa libertà interiore la sentiamo in quei pochi momenti che possiamo fare quello che vogliamo davvero senza che ci sia nessuna costrizione crono-logica, quando ci doniamo a quell’ozio che i latini concepivano positi-vamente come momento edificante per lo spirito, contrapposto al negozio, scandito invece dal tempo tedioso e affannoso degli affari della vita pubblica. Tale libertà è il tempo della lentezza che è anche tempo della memoria, come ci ricorda Kundera: «C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una si-tuazione fra le più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto ac-celera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della me-moria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio»17

.

Della velocità, al cui demone la nostra epoca si è abbandonata da tempo, siamo ben esperti; ne vediamo i tra-gici effetti tutti i giorni, quando assistiamo alla cronaca di una morte annunciata per alta velocità. Certo, la veloci-tà ha da sempre affascinato l’uomo. Agli inizi del Novecento, ad esempio, in nome della velociveloci-tà il futurista Tom-maso Marinetti sosteneva che una macchina da corsa supera in bellezza una delle più belle opere dell’epoca clas-sica: la Nike di Samotracia. Paul Virilio, urbanista - filosofo che alla velocità ha dedicato molti dei suoi saggi con-traddistinti da profonda capacità di analisi e da una rara originalità scrittoria, denuncia la vacuità di questo supe-ramento estetico, in quanto la bellezza stessa, che nelle opere d’arte rimane eterna, nel veicolo da corsa passa in secondo piano rispetto alla potenza, alla velocità differita: «basta guardare i nuovi bolidi di ‹formula uno› e la ra-pida evoluzione dell’aerodinamismo dal 1910 per intuire che un veicolo è unicamente una larva di velocità,

16

H. Bergson, Essai sur le données immédiates de la conscience, (1889), P.U.F., Paris 1993; trad. it., Saggio sui dati immediati della coscien-za, R. Cortina, Milano 2002, pp. 88-89.

17

l’embrione di un divenire costantemente differito, la figura provvisoria di una defezione di cui non si vede l’esito se non nell’affermarsi di un’altra macchina, di una velocità maggiore»18

.

Oggi si muore di velocità e morire di velocità non significa solo perdere fisicamente la vita in un incidente stradale. Infatti, la morte dromoscopica a cui assistiamo è causata dalla violenza della corsa di tipo psico-fisico. Pensiamo a quell’aggeggio meravigliosamente diabolico con cui abbiamo continuamente a che fare: l’orologio, che, dai suoi antenati come la clessidra fino al cronometro al cesio, passando attraverso il pendolo o il cipollone dei ferrovieri, ci ha «abituati a pensare al tempo come ad una semiretta su cui correre verso irrinunciabili obietti-vi»19. Noi l’orologio lo guardiamo a partire da quando ci svegliamo, cioè quando suona la sveglia, quando dobbia-mo prendere i mezzi pubblici o la macchina per arrivare da qualche parte, quando è l’ora di pranzo o di cena, per un appuntamento o quando guardiamo una partita di calcio, quando andiamo a letto di nuovo stanchi e stiamo attenti se abbiamo rimesso a posto la mefistofelica sveglia che dovrà suonare per l’indomani. E pensare che gli in-diani pellerossa Hopi parlano una lingua i cui verbi non hanno tempo!

Dell’odierna frenesia cronofaga, divoratrice del tempo, celebre è la magistrale rappresentazione filmica nei

Tempi moderni. In particolare, del capolavoro cinematografico del 1936 rimane impressa nella mente di tutti

l’immagine dell’enorme ingranaggio meccanico dentellato che costringe l’operaio-Charlot a saltare l’unico mo-mento umano che resta nelle ore lavorative: la pausa pranzo. Ad essa, infatti, Charlot deve rinunciare poiché vie-ne scelto come operaio–tipo, operaio-campiovie-ne, operaio-cavia su cui sperimentare la macchina automatica da a-limentazione, costruita appositamente per razionalizzare ed ottimizzare i tempi di lavoro, in quanto capace di far mangiare il lavoratore senza interrompere il lavoro. L’esperimento, però, visto che il diabolico marchingegno non funziona molto bene, provoca all’operaio-cavia che lo ha adoperato non pochi danni tanto che, provato da altre folli mansioni frenetiche alle quali reagisce con divertite pratiche luddiste, finirà in una clinica di riabilitazione mentale. Chaplin ci insegna, con l’amara arte della comicità, che ci si ammala di velocità. Un malessere diffuso a tutti i livelli della società lo dimostrano, il che spiega in parte anche l’uso diffuso di cocaina. Ma bisogna stare al passo con i tempi, in qualche modo!

La velocità ha trasformato anche il nostro modo di abitare. Più che dimorare in qualche luogo, infatti, siamo passeggeri. Passeggeri che circolano nelle arterie delle nostre città, passeggeri che raggiungono il posto di lavoro dove non dimorano e lasciano il luogo di abitazione dove non lavorano. Assistiamo perciò oggi ad un vera e pro-pria liquidazione della localizzazione sociale in cui è lecito domandarsi dove sia andato a finire il cittadino e il suo ultimo quartiere. Infatti, come risulta più volte dai discorsi della gente comune che se ne lamenta, la nuova dimo-ra è sita nei lunghi spostamenti in autobus, in macchina, in treno. Con questi mezzi, però, come ci fa notare anco-ra Virilio, la rivoluzione dromoscopica non è ancoanco-ra compiuta. Essi sono ancoanco-ra legati ai tre termini di «partenza, viaggio, arrivo». Con la rivoluzione del trasporto aereo, invece, «l’intervallo è progressivamente scomparso nel progresso dell’accelerazione; nella linea aerea […] ‹la distanza-spazio› (chilometrica) ha lasciato posto alla ‹distan-za–tempo›, pura durata in cui quanto sta in mezzo è abolito come campo d’azione dalla violenza dell’avanzata dell’apparecchio»20

.

Eliminazione del tragitto e riduzione dello spostamento al solo punto di arrivo o al solo punto di partenza ca-ratterizzano ormai il nostro nuovo di viaggiare rimanendo a casa, da dove noi navighiamo stando fermi. Questa polverizzazione delle distanze, in qualche modo, è stata già annunciata dalle comunicazioni audiovisive, che han-no sostituito la partenza «con l’arrivo delle immagini sullo schermo»21 o anche «con quello delle voci nel ricevito-re»22, mentre «ognuno resta a casa sua nell’attesa dell’emissione (telefonica o televisiva)»23. Così ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale: più i collegamenti diventano veloci, più rimaniamo fermi. In modo brutal-mente provocatorio, Virilio descrive la nuova condizione umana di inerzia crescente come una generale diffusione di disabilità motoria, per cui il modello di cittadino che si sta sempre più diffondendo nella società altamente tec-nologizzata qual è la nostra, è quello di un: «handicappato motorio […], figura catastrofica di un’individualità che ha perduto, con la sua motricità naturale, le sue facoltà di intervento immediato e che si abbandona, in mancanza

18

P. Virilio, L’horizon négatif. Essai de Dromoscopie, Galilée, Paris 1995, trad. it. L’orizzonte negativo. Saggio di dromoscopia, Costa & No-lan, Milano 2005, p. 78.

19

A. Meluzzi, Tempo, «omeostasi ed ecosistema umano: tra natura e linguaggio», in Velocità. Tempo umano tempo sociale, Guerini & As-ssociati, Milano 1988, p.119.

20

P. Virilio, L’orizzonte negativo, cit., p. 96.

21 Ibidem. 22 Ibidem. 23 Ibidem.

di meglio, alle capacità dei recettori, dei sensori e altri segnalatori a distanza che fanno di lui un essere asservito alla macchina con la quale, si dice, egli dialoga»24

.

In quest’era post-moderna, con i nuovi mezzi di telecomunicazione, si è imposta, quindi, una nuova figura del-la temporalità, rappresentata, daldel-la costeldel-lazione velocità, istantaneità simultaneità e contrassegnata da una struttura «puntillistica» o, se si preferisce, «puntiforme›», tipica dell’informazione o della immagine. Il tempo co-me punto, coco-me esperienza puntuale, istantanea, riportando «tutte le dico-mensioni dell’esperienza all’attualità»25, ha dissolto la forma lineare propria del tempo della modernità, «svuotata della sua essenza di progresso lanciato

a velocità sempre più sostenuta verso la perfezione» 26. La post-modernità, infatti, è caratterizzata da un orizzonte temporale che non è più il futuro cui tendeva la modernità, quanto piuttosto l’istante-presente, ben rappresenta-to da una società universalmente sincronizzata, «in diretta senza avvenire e senza passarappresenta-to, […], senza estensione, senza durata, società presente qui e là, ovvero tele-presente»27

.

Questa desertificazione dell’avvenire, però, non proviene dal nulla. La velocizzazione dei tempi della vita è sta-ta messa in atto nella Neuzeit dall’avvento del capista-talismo, che non può «esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione»28, senza conquistare nuove fette di mercato, globalizzandosi e creando «un mondo a propria immagine e somiglianza»29

. Tuttavia, come mette in evidenza Fusaro in Essere senza tempo, la velocizza-zione dei tempi della vita - legata alle continue innovazioni in campo tecno-scientifico e all’incessabile immissione sul mercato di nuove merci che devono essere smaltite con la stessa celerità con cui sono prodotte - diventando «uno strumento nichilistico di ripetizione accelerata del presente»30

, ha finito per destoricizzare l’accelerazione dei tempi moderni, smarrendone l’iniziale «tensione infuturante»31 che aveva come progetto la realizzazione di

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