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Dolore e trauma transgenerazionale

11 La memoria e l’oblio nel trauma

11.3 Dolore e trauma transgenerazionale

Una volta chiarito l’importante ruolo della memoria e dell’oblio quando si tratta di ricordi e testimonianze traumatiche e delle sue relative strategie per affrontarle, non si può non parlare della loro “trasmissione transgenerazionale”.

Questo processo indicherebbe la “trasmissione” più o meno inconscia del dolore/trauma ai posteri sebbene non sempre abbiano vissuto le pene dei genitori.

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Helen Epstein, figlia di sopravvissuti alla Shoah afferma che non solo i racconti e le parole di un passato doloroso vengono trasmessi, ma anche i gesti del corpo “attraverso l’emozione che non si dice” (Epstein, 1979; cifr. inoltre Hoffman, 2001 in Casagrande, 2006, pag. 60).

Ma questa trasmissione può andare anche oltre: secondo delle ricerche scientifiche alcuni significati di elementi transferiali di un soggetto sono depositati e legati alle generazioni precedenti.

Schützenberger (1993) ne illustra degli esempi sulla ripetizione dei moduli comportamentali in più generazioni e l’ipotesi che tenta di portare avanti è la possibilità che sin dalla vita uterina (poi durante la prima infanzia), il figlio viene immerso in proiezioni molteplici da parte dei genitori e da tutta la famiglia (si tratta di ruoli, fantasie ma anche di angosce ed ostilità).

Senza andare troppo nel dettaglio (in quanto si andrebbe a finire nell’ambito della pura psicologia e biomedica), Schützenberger afferma quanto sia sempre importante studiare l’albero genealogico di una famiglia, le sue dinamiche, i suoi avvenimenti che risultano alquanto efficaci nella creazione di una mappa sincronica della storia familiare.

Gli avvenimenti in questione non sono soltanto quelli dei legami significativi e fatti importanti della vita, ma anche morti premature, danni, abbandoni, o guerra.

L’autrice si ricollega ai concetti che anche Cyrulnik (2009), figlio di ebrei mancati durante la Seconda guerra mondiale sottolinea: in primo luogo il fatto che spesso sono i figli dei genitori sopravvissuti che stanno “peggio dei genitori” in quanto “il trauma trasmesso è più forte di quello ricevuto (Cyrulnik, 2009, pag. 108) e questo è stato provato scientificamente a livello biochimico osservando quanto il livello di cortisolo erano molto più alti dei loro genitori.

Questo dimostra quanto i figli di naufraghi, di esiliati, o di rifugiati di guerra hanno bisogno un loro tempo di elaborare il trauma anche se di fatto non vissuto sulla loro pelle.

Tra i vari “effetti collaterali” si registrano incubi ricorrenti, sia nei figli di deportati, di combattenti ecc.

Il motivo per cui riporto tali osservazioni, è lo stesso per cui mi ha portata alla realizzazione di questa ricerca: io stessa, figlia di sopravvissuti di guerra mi sono sentita coinvolta in queste affermazioni. Fin da piccola i miei genitori naturalmente non mi parlavano mai delle esperienze passate, sia perché ero piccola e sia perché non se la sentivano.

Il discorso “Vukovar” era quasi un tabù a meno che non si trattasse di compleanni di quei pochi familiari che son rimasti lì o di auguri di Natale, il resto era una città “nebulosa” per me.

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Ho usato questo aggettivo per sottolineare il fatto che fin da piccola ogni tanto (nell’arco di tanti anni, di cui alcuni non ricordo per via della tenera età) i miei genitori mi portavano là, a casa dei miei nonni e nel centro della città.

Figura 58. Željka che mi tiene per la mano lungo una delle vie del centro di Vukovar (foto dell'album personale di Željka, datata 1997)

Ricordi sfocati mi si rievocavano ogni volta con le stesse immagini: edifici distrutti e sempre mitragliati non sapendo il perché.

Sarà solo all’età di sedici anni che i miei genitori cominciarono a parlarne, ma mai con fatti “personali”, bensì fatti storici utili a farmi capire la vicenda delle cose.

Era un silenzio che si poteva dire “mezzo-silenzio” in quanto era narrato e non raccontato, pieno di dettagli razionali e non emotivi.

Ad allora, (come anche adesso: non è stato sempre facile affrontare certi argomenti) non osavo molto scavare nei dettagli di quanto mi dicessero, non chiedevo spesso chi era “lui” o chi era “lei”; sapevo solo che questo li faceva soffrire e basta.

Non dimenticherò mai quella sera di novembre, quando si stavano catalogando le videocassette per poterle sistemare nel nuovo armadio in soggiorno: era buio e la tv costantemente accesa, appena finita la cassetta musicale contenente le hit degli anni Novanta lo schermo divenne privo di colori.

Parte la musica in sottofondo, con una voce profonda e ben equilibrata assieme ad un’altra voce maschile un po' più ganza e che non parlava in italiano, non capivo.

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Le immagini di quel video scorrono in due dimensioni: alcune erano degli spezzoni a colori e altri in bianco e nero che ritraevano rispettivamente il concerto dei due cantanti dal vivo e un paesaggio agghiacciante.

La musica era piacevole e molto “tenera” ma dava un senso nostalgico, quasi di speranza estrema, poi seguono le scene senza colori con edifici “bucherellati” e due ragazze che corrono e fanno strada al cameraman che le segue lungo un infinito tunnel di buche create dalle artiglierie pesanti della guerra (probabilmente da carri armati).

Era il video “Miss Sarajevo” creato da Pavarotti e gli U2 in nome della pace per la Guerra dei Balcani che i miei genitori aveva registrato per non dimenticare.

Mia madre scoppiò a piangere e io non capivo perché e non volli chiedere.

Non ricordo molto il resto di questa faccenda, ma mi rimane tutt’ora nella testa questa scena, come mi rimangono ancora i soliti incubi che feci fin da piccola.

Si tratta di sogni che erano poco frequenti (si presentavano una volta ogni paio d’anni) ma che ora non ci sono più ed era sempre lo stesso: l’ambiente costantemente nelle braci, il solito edificio e mezza facciata aperta, le solite bombe che cadevano lentamente (ma veramente lentamente! Come se il tempo rallentasse) dal cielo e gli aerei che mi sorvolavano sulla testa; l’unica cosa che variava era la persona con cui affrontavo questo sogno (a volte era mia nonna, a volte la mia migliore amica, a volte mio padre).

L’interrogativo che mi ero posta era semplice: come potevo io “piccola” (avrò avuto 6 anni, fino ai 13) sapere di questi scenari e di questi dettagli se i miei genitori non me ne avevano mai parlato? Dopo un serie di lezioni sull’antropologia della memoria presso l’università di Ca Foscari, mi ero resa conto che effettivamente anche io avevo qualcosa da dire e lo stesso la mia famiglia e i loro amici.

Questa mia osservazione o “scoperta”, mi ha portato a interrogarmi più che sulla mia storia, sulla storia degli altri che però alla fine ha “influenzato” anche me.

Dopo un lungo periodo di silenzi dolorosi, quel bisogno di risposte a domande mai poste diviene incessante, proprio come nel caso di Hector (il penultimo figlio dei Zuniga) che dopo le visite nel suo paese natio (il Cile) o la visione di alcuni reportage attinenti, egli ne creava l’occasione perfetta per fare domande (Casagrande, 2018, pag. 61).

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“Un altro punto di dialogo appartiene invece agli anni successivi, in cui ciò che si cerca, oltre a mettere insieme i frammenti a volte disordinati assorbiti negli anni, è il senso profondo di quello che è successo in movimento tra l’interno e l’esterno che forse permette di rivolgere le domande più intime ai propri genitori”

(Casagrande,ibidem).