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L’etnocentrismo e l’esclusivismo culturale

L’antropologia da tempo mostra quanto sia importante la consapevolezza dell'etnocentrismo, un fenomeno culturale nel quale si giudicano le strutture sociali e la storia attraverso delle proprie categorie (detto anche “soggettività socio-culturale”) che può generare incomprensioni ed equivoci tanto da portare paura, diffidenze e addirittura ad una forma di xenofobia.

Una particolare forma di etnocentrismo su cui si vuole porre l’attenzione è quello dell’esclusivismo culturale nel quale gli strati subalterni vengono rifiutati dalla cultura dominante perché non idonea alla propria visione del mondo.

Ovvero che, come afferma Cirese:

“assume la ‘propria’ civiltà o cultura (la “propria” religione, la “propria” estetica, i ‘propri’ gusti ecc.) come valori assoluti ed esterni che in sostanza stanno al di sopra della storia, e ne fa- sotto un analogo profilo di validità universale, assoluta, metastorica- il metro di misura per l’interpretazione e il giudizio di sistemi culturali (o di singoli fatti inseriti in sistemi culturali) diversi dal proprio”

(Cirese, 2006, pag. 16)

Questo è il caso dei serbi e croati per esempio.

Come si è osservato all’inizio, la Jugoslavia era uno stato federale che raggruppava più “stati” sotto un’unica fratellanza, ma nonostante la volontà di mantenere almeno teoricamente un loro riconoscimento autonomo, questo non si è potuto realizzare dal pressante sogno della Serbia di divenire la “Grande Serbia” o per meglio dire ‘all Serbs should live in one country”, giustificando le guerre e i tentativi di espansione territoriale (Boškovic, A., 2005, pag.9).

Secondo Boškovic infatti, sociologi ed etnologi dalla Jugoslavia da sempre ci tenevano ad accettare e riconoscere il proprio popolo ed è per questo motivo che lungo il Ventesimo secolo, si fecero degli studi estensivi sulla propria gente contribuendo alla costruzione di una “nazione” (Ibidem).

Questo fece incrementare quel senso nazionalistico che risvegliò nella Serbia la giustificazione dei suoi obbiettivi imperialistici sulle altre parti della Jugoslavia, verso le altre etnie o gruppi nazionali “with the aim of proving scientifically that a particultar type of people, namely the Šumadija strain of the so-called ‘Dinaric’ type, was superior to all others” (Ibidem).

Secondo gli etnologi serbi, questo spiegherebbe chiaramente la presenza della superiorità serba verso gli altri popoli vicini, ma tengo anche presente che questo è stato possibile a causa di fatti ed eventi storici rilevanti.

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Infatti, stando alle testimonianze da me aggiunte e agli studi proposti (come quelli di Pištan già menzionati), anche la conseguente morte di Tito ha causato incertezze e debolezze tra i paesi e chiaramente aveva portato a Milošević la possibilità di richiamare ad un forte e violento nazionalismo serbo con una ricerca della storia delle proprie origini e così via.

In poche parole, finché il maresciallo Tito era in vita, tutto aveva un proprio equilibrio o almeno questi disaccordi erano mantenuti, ma con la sua scomparsa le sei repubbliche della Jugoslavia cominciarono a barcollare, sia per cause di crisi economica che di identità, dando spazio alla nascita di una ricerca di un’identità unica e autentica per distinguersi dagli altri.

Questa idea di riconoscimento come afferma anche Fabietti, richiama non solo l’idea di identità, ma anche di autenticità e dignità che nonostante siano considerate mutabili, “permane, diffusa, una a quanto pare insopprimibile esigenza di continuità” (Fabietti, 2007, pag.5).

Ed è qui che vi è la ricerca di una cultura “autentica” e “perduta”, prendendo spunto dalle nozioni di Rousseau (l’idea che ognuno di noi abbia una “propria irriducibile” identità) e Kant (l’idea che tutti gli esseri umani abbiano pari dignità).

Prendendo queste due nozioni si arriva a quelle politiche di riconoscimento che permettono di far riconoscere le proprie diversità ed essere però anche al pari con gli altri collegandosi ad un “duplice universalismo: tutti hanno pari dignità ma ognuno ha una propria identità” (Fabietti, 2007, pag. 6). Il rischio dunque è che comunque si possa passare ad un relativismo assoluto, ovvero la tendenza a proteggere e mantenere quelle differenze che appartengono alla propria identità come fossero “autentiche” e poterle sfruttare a vantaggio o a svantaggio di altre diversità32

In aggiunta a ciò, con la crescente idea di superiorità degli Ottanta, l’ulteriore rafforzamento del nazionalismo serbo crebbe anche grazie a delle pubblicazioni della SASA33 (Serbian Academic of Sciences and Arts), dove Boškovic cita uno di quelli che venne considerato il “padre della nazione”: Dobrica Ćosić, già menzionato da Stjepan nello scorso capitolo. Costui infatti ribadì che “the Serbs should use their ‘comparative backwarndess’ to their advantage” (cit. in Boškovic, A., 2005, pag. 10).

32 Qui Fabietti spiega la pericolosità del termine “relativismo assoluto” ribadendo che “proteggere le differenze ma anche mantenerle per sempre in nome dell’autenticità: stabilire oggi determinati confini per conservarli domani (a vantaggio di qualcuno o a svantaggio di altri); accedere a determinate risorse (sulla base del proprio diritto) magari per escludere altri da quei diritti perché in possesso si “altri” diritti etc.”

33 SASA è la sigla inglese di SANU (Srpska Akademija Nauka i Umetnosti) di cui parlava anche Stjepan nello scorso capitolo.

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Allo stesso modo finì per pensarla così il presidente croato Tuđman, che come abbiamo osservato in nome dell’indipendenza croata e seguendo l’esempio sloveno, andava alla ricerca di teorie storiche che giustificassero i territori e l’autonomia della Croazia.

Ma come l’antropologia adesso ci insegna, la cultura non è di per sé un elemento “essenziale” e “statico”, ma è un continuo evolversi poiché “tutte le culture sono ibride, [e] tutti i pensieri sono meticci” e “[i]l tentativo compiuto dalle scienze sociali in questi ultimi anni è stato infatti quello di elaborare concetti, prospettive e strategie discorsive capaci di farci afferrare le dinamiche di un mondo non più pensabile secondo il modello delle culture come ‘scatole chiuse’ o dell’umanità come ‘mosaico culturale’”(Fabietti, 2007, pag. 3).

Nel caso jugoslavo a causa di certi eventi politici, sociali ed economici si è visto quanto si confermi la convinzione di una “cultura pura” e fissa alle proprie radici causando un processo di ritorno alle origini per potersi identificare e distinguersi dall’altro (e poi peggio, esserne superiore).

Questo genera un effetto molto pericoloso dove all’interno di un contesto le differenze vengono caricate da un significato assoluto, dando un allacciamento diretto al concetto di “razza”.

Questo effetto si chiama “relativismo culturale assoluto”.

La situazione peggiora quando naturalmente si cerca attraverso basi scientifiche di rimarcare queste differenze, finendo così per giustificare le politiche discriminatorie ed emarginanti (proprio come abbiamo visto in precedenza con la SASA).

Per concludere questo capitolo, vorrei ribadire il concetto di “nazionalismo” portato da Povrzanović che chiaramente lo pone come il protagonista di questo conflitto, il quale basato sulla fantasia del nemico, più le lotte alimentano queste fantasie, più l’odio e la paura crescono (Povrzanović, 1993, pag. 140).

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