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Da Mauss a Godbout; dal kula all’altruismo

Vorrei iniziare a trattare della problematica dell’altruismo rispetto al sistema del dono e, conseguentemente, dei rapporti tra la rilettura del

Saggio sul dono operata socioantropologia contemporanea ed il testo stesso

di Mauss, partendo dall’opera di Jacques Godbout sul dono. Mi vorrei soffermare particolarmente sui due suoi saggi “Il linguaggio del dono” e “Le buone ragioni di donare” (Godbout, 1998).

Scrive lo studioso canadese, interrogandosi su quali siano i rapporti normativi che regolano la pratica del dono nel mondo contemporaneo: “Spesso sono successe tante cose al di fuori delle regole che si erano stabilite: piccoli regali in più senza contare il fatto che molte volte si è superata la cifra fissata. Inoltre, questo eccesso è spesso quel che si

apprezza di più”49

.

Vorrei portare la riflessione sul concetto di eccesso che appare essere fondamentale nell’analisi di Godbout. È interessante, infatti, notare come, mentre per Lévi-Strauss fosse il fatto della regola a garantire l’evidenza della struttura, per Godbout la peculiarità del dono non è solo quella

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dell’eccesso simbolico del bene rispetto al suo valore utilitario (cosa, d’altronde, sottolineata dallo stesso Lévi-Strauss) bensì l’eccesso dalla regola, una sovrabbondanza che disordina l’ordine della regola, ponendola sotto un ordine nuovo, appunto quello normato dall’eccesso. Il regime del

prodotto rarificato viene portato ad un ordine di complessità superiore

laddove si stabilisce che non solo, affinché ci sia scambio, il bene scambiato deve essere scarso e dunque il disordine naturale deve richiedere per la coesione del gruppo un intervento normativo culturale, ma anche la regolamentazione dello scambio deve essere costantemente disarticolata dall’eccesso, da un’infrazione “legale” della regola stessa, da una non equivalenza che non è solo materiale ma anche normativa.

Nello stralcio sopra riportato, lo studioso analizza la possibilità di oltrepassare limiti prefissati in un particolare contesto: il dono in contesti familiari.

L’eccedenza rispetto alla regola sembra essere, secondo l’analisi di Godbout, una regola peculiare nella pratica del dono familiare nella cultura moderna. Egli sembra poi estenderla a contesti più ampi e generalizzati quali, ad esempio, il volontariato: scrive infatti esplicitamente che “[…] si

constata qualcosa di analogo anche presso i volontari”50

.

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Non è affatto poco interessante notare che l’ambito di discussione in cui egli formula tale ipotesi è quello di una critica razionale dell’utilitarismo come paradigma performativo dell’agire umano. E infatti, l’eccedenza non è una caratteristica che si manifesta solo nel rapporto dell’individuo che dona rispetto ad un sistema normativo che sancisca possibilità e limiti della pratica del dono; l’eccedenza si estrinseca anche e soprattutto nella libertà di donare, prescindendo dall’eventualità della restituzione. Se tale eccedenza, nel suo essere collocata in uno spazio di libertà quasi incondizionata, elimina il concetto di restituzione si deve ipotizzare che il dono moderno, azzerando il terzo momento evidenziato da Mauss nelle pratiche di dono arcaico – ovvero il ricambiare, garanzia di reciprocità – si poggi esclusivamente sulla fiducia. Su questo punto è chiarissimo Alain Caillé che, decostruendo i cosiddetti primo paradigma (l’individualismo metodologico, che fa dell’homo oeconomicus il soggetto prima astratto e poi ipostatizzato di una razionalità economicista volta al calcolo degli interessi per la persecuzione di una massimizzazione di profitto egoistico) ed il secondo paradigma (l’olismo metodologico, che vede nella società il tutto imprescindibile che lega e trapassa i singoli individui, un’istanza cogente all’interno della quale il soggetto viene costruito) e analizzando l’aporia di entrambi, ovvero l’incapacità di spiegare la produzione di legami sociali, afferma che, per andare oltre questi è necessario partire da

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una scommessa “sull’alleanza e la fiducia”51

per approdare in un terzo

paradigma (quello del dono) in cui il dono, oltre Lévi-Strauss ed il rapporto

tra epifenomeno e struttura, sia proprio la modalità esclusiva di produzione

delle alleanze52. Semmai la reciprocità deve essere considerata come un

prodotto secondario: dando un’interpretazione forse un po’ forzata del pensiero di Godbout si può supporre che il suo dono sia un dono che poggi sulla fiducia più che sull’interesse e produca tendenzialmente speranza. Sebbene questa chiave interpretativa possa non avere in questa sede un forte valore antropologico, mi sembra un postulato necessario per muoversi all’interno della visione godboutiana e comprendere quale sia il preconcetto teorico che può condurre a creare un’antropologia dell’altruismo generalizzato, senza il fine primario della reciprocità, ovvero della costruzione di rapporti sociali. È da notare, tuttavia, che nell’ultimo

decennio la scuola antropologica anglosassone ha lavorato

abbondantemente sulla tematica della speranza. Ho accennato

precedentemente al concetto di politica della speranza: Nik Brown,

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A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringheri, Torino, p. 40

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Proprio a proposito del secondo paradigma, Caillé afferma che, se fosse posta la domanda sul principio produttore di legami sociali ad un sostenitore dell’olismo metodologico, fornendo lui il suggerimento di partire dall’ipotesi del dono, risponderebbe facendo riferimento ad un qualche sistema rituale e/o normativo. Nell’ipotizzare tale risposta Caillé non riesce a nascondere un certo sarcasmo e una, forse giustificata, insoddisfazione. Tuttavia, parafrasando Bataille, ogni alba ha una notte che la precede. Ogni inizio sottintende ciò che lo precede. È certo legittimo interrogarsi rispetto a tale prede cessione, ma è altrettanto legittimo accettare di volgere lo sguardo là dove si scorgono le prime luci del giorno. Tanto basta. La domanda su cosa sia stato l’uomo prima del linguaggio e della società, ma si può, altrettanto legittimamente, riconosciuti dei limiti peculiari che puntellano la condizione esistenziale (e dunque anche, inevitabilmente, razionale) dell’uomo, iniziare la propria ricerca dal momento in cui l’uomo è divenuto ciò che noi riconosciamo e chiamiamo tale: l’uomo sociale e linguistico. Sarà, semmai, più facile appuntare ad un sostenitore del terzo paradigma che tutto ciò che va al di là delle possibilità di constatazione empirica si riduce ad essere speculazione metafisica, più che appuntare ad un sostenitore del secondo paradigma un certo fondamentalismo ideologico ed una insufficienza metodologica

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Nikolas Rose, Margaret Lock, Sarah Franklin e Nancy Schepper-Hughes, solo per citare alcuni tra i tanti, hanno approfondito specificatamente come, in ambito biomedico, si generi una determinata retorica articolata intorno al concetto di speranza, quali siano le relazioni di potere (e spesso di dominio) intessute a partire da questo punto, la valenza semantica del concetto di speranza all’interno di un sistema culturale che ha reso la morte “impensabile”. In quest’ottica, il dono altruistico che nasce da un sistema di speranza, in cui le analisi della reciprocità vengono traslate dal piano sociale (la produzione di legami sociali, la struttura che produce un gruppo in quanto tale) al piano di un’economia morale “imbrigliata” (embedded, per usare un termine polanyiano) ad una serie di saperi che hanno prodotto e concorrono tuttora a produrre la soggettività occidentale, diviene una via da ripensare e ripercorrere. Mantenendomi, per ora, in una trattazione di tipo eminentemente bibliografico e comparativo, non mi esimerò dall’avanzare delle ipotesi di critica alle posizioni di Godbout.

Facendo ricadere l’intera dinamica del dono nella sfera della libertà individuale, si sarebbe portati a supporre che Godbout voglia eliminare l’obbligatorietà vincolante che invece Mauss aveva sottolineato con scrupolo nel suo saggio. Eppure, eliminando l’idea di vincolo, il vincolo che genera rapporti sociali, bisognerebbe concludere che il dono non produce, bensì è prodotto.

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Scrive Godbout: “Qual è la differenza dallo scambio mercantile? […] La prima è, come ho appena detto, la libertà. L’assenza di obbligo, vale a dire assenza di contratto, assenza di costrizione (costrizione-contratto hanno la stessa radice), nei confronti di chi riceve e parimenti – è evidente – assenza

di obbligo di restituire per chi riceve”53.

La libertà che aumenta il valore, l’eccedenza rispetto alla regola di cui ho discusso sopra, sembrano nascere da una vaga idea di uomo in sé che precede i rapporti sociali e, contemporaneamente, è ad essi consustanziale: non si dona con il modello tripartito (dare-ricevere-ricambiare) al fine di creare reti sociali: si dona con un modello bipartito (dare-ricevere) in cui il momento del ricambiare viene a fondarsi sull’intuizione di un rapporto sociale pre-esistente che verrà verificato solo nel momento di una eventuale restituzione.

Alla base della pratica del dono non vi è un fine bensì un’idea di uomo: si dona per altruismo generalizzato. Su questo, Godbout sembra essersi allontanato forse eccessivamente dal dovuto rigore epistemologico richiesto dalle scienze sociali, per sostenere un umanesimo filosofico, un anelito di filantropia che sembra affondare le proprie radici lontano dall’antropologia, in una prospettiva ideologico-critica (e quindi politica) della società

contemporanea occidentale. Questa interpretazione del pensiero

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godboutiano non è affatto una estrapolazione arbitraria, tanto che lo stesso autore scrive: “E allora si giunge a chiedersi se non sarebbe interessante ribaltare la prospettiva iniziale, la prospettiva dominante di cui parlavo, che è quella del movente del guadagno. Invece di partire dal movente del guadagno si avanzerebbe il postulato del movente del dono. Si porrebbe come postulato che gli esseri umani hanno in primo luogo voglia di

donare”54

.

Godbout può eliminare l’obbligatorietà del terzo momento del dono maussiano in favore di una non ben precisata libertà (esiste forse libertà al di fuori di una idea di libertà culturalmente determinata?) proprio perché, ancor prima, ha spogliato la pratica del dono da uno scopo: l’altruismo generalizzato degli esseri umani che hanno in primo luogo voglia di donare diviene così un universo morale assoluto.

Come scrivevo poco sopra, questa visione appare fortemente contaminata da un paradigma ideologico ostile all’economia di mercato e alle politiche di sviluppo.

Questa mia ipotesi, ovvero il fatto che la teoria sul dono di Godbout abbia un fondamento ideologico, sembra essere confermata dal fatto che lo studioso si sofferma nei saggi analizzati su due pratiche di dono: il dono familiare (che prevede evidentemente una serie di relazioni sociali già date)

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e il dono del sangue che, come scrive Aria, è un dono che non fa amici55, in

quanto dono anonimo sottoposto al controllo di intermediari che, come enti collettivi, sono tendenzialmente spersonalizzati. Certo, il sistema di dono nella società occidentale ad alto tasso di burocratizzazione prende spesso la forma del dono gestito da intermediari anonimi e non-personali, caso che si ripete nella donazione d’organi e nella donazione di SCO: ciò implica che si debba condurre un’analisi seria ed approfondita delle peculiarità di queste pratiche sociali così particolari, apparse relativamente recentemente. Non deve però portare ad un totale smembramento o depravazione della lezione tanto maussiana quanto lévistraussiana, tanto più che la tripartizione e la reciprocità, se non sono universali nel mondo occidentale, quanto meno rimango statisticamente significative. È forse più corretto pensare ad una integrazione o parziale riscrittura di tali categorie socioantropologiche più che utilizzarle come piattaforme di lancio di teorie a sfondo ideologico-morale che, portate alle estreme conseguenze, rivelano una infedeltà di fondo rispetto alla tesi di partenza. Non voglio certo sostenere la necessità di rivolgersi a Mauss o Lévi-Strauss come maîtres à

penser bensì restituire ai testi la loro peculiarità e la loro “verità”.

Innanzi tutto, a prescindere dalla bontà dei moventi che portano l’anti- utilitarista Godbout a formulare tale teoria del dono, non può non risaltare immediatamente il fatto che egli operi semplicemente una sostituzione del

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modello dell’”homo oeconomicus” o dell’uomo morale kantiano con “l’uomo che dona”.

L’aveva già rivelato Gramsci molti decenni prima: le dispute sull’homo oeconomicus non sono nient’altro che dispute sulla natura umana. “L’‹‹homo oeconomicus›› è l’astrazione dell’attività economica di una determinata forma di società, cioè di una determinata struttura economica”. Ciò che risulta fastidioso nella lettura di Godbout è proprio questo ostinato soffermarsi su una più o meno celata definizione di natura umana. Se, però, prendiamo per buona la teoria gramsciana, dovremo riconoscere che dove vi sia struttura economica vi sia un homo oeconomicus, dove vi sia socialità vi sia un uomo sociale. Certo, non possiamo ignorare che l’homo oeconomicus di cui parla Godbout non è un generico homo oeconomicus, astrazione di una qualsiasi struttura economica: sembra piuttosto essere una ben specificata categoria culturale occidentale, portatrice, secondo certo indirizzo di pensiero, delle deteriori spinte egoistiche, perniciose per la società. Ed è proprio contro questo homo oeconomicus, riduzione disumanizzante, disumanizzata e affatto categoria astratta, che costruisce il proprio sistema Godbout. Proprio per questo motivo mi sembra adeguato notare che, come scritto sopra, sebbene il movente possa essere nobile, la forzatura ideologica sembra far pensare più ad una pratica politica

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rivoluzionaria che ad una ricerca antropologica, svolta sotto il principio della deontologia epistemologica.

Parlo di forzatura ideologica per due ragioni, una biografica e una metodologica: non è certo casuale il fatto che Godbout faccia parte del M..A.U.S.S. (Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali); in secondo luogo, il sistema da lui creato, a mio parere, rimanda concettualmente a ciò che Jean-Pierre Olivier de Sardan definisce

populismo ideologico. Parlare di Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze

Sociali significa coniugare due aspetti fondamentali dei quali non voglio certo mettere in dubbio la compatibilità: “Movimento” implica evidentemente una prassi politica che unisce una collettività rispetto ad uno scopo. Un Movimento di scienziati sociali deve gemellare questa idea di prassi ad una necessità metodologica di ricerca. Il connubio di ricerca e prassi avviene sotto l’egida di una teorizzazione anti-utilitarista, come per esempio, nella produzione di Serge Latouche, la teoria della decrescita. Il campo su cui ci si muove è particolarmente complesso: metodologia di ricerca; prassi politica; una determinata visione del mondo presente; una idea di cambiamento per un mondo futuro. Così, in questo groviglio di teoria e pratica, sebbene non voglia affatto discutere in questa sede della bontà del progetto in quanto tale, non si può non immaginare la posizione ambigua, o quanto meno difficoltosa, in cui viene a trovarsi il singolo

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studioso. Proprio per questo motivo mi sembra il caso soffermarsi, anche se brevemente, sulla definizione di populismo ed in particolare di populismo

ideologico che ci fornisce Olivier de Sardan. Il socioantropologo africanista

tiene particolarmente a sottolineare la polisemia del termine populismo. Sebbene nell’uso comune, forse soprattutto per la contaminazione del linguaggio politico, questo termine abbia assunto un’accezione negativa, Olivier de Sardan evidenzia acutamente come, proprio in virtù di tale polisemia, per comprendere il senso specifico del termine nel lessico delle scienze sociali, si debba cercare di restringere il campo dei suoi molteplici significati, cercando di tenersi al riparo da possibili equivoci. Solo alla luce di questa restrizione di significato, si può operare anche una critica severa ma onesta riguardo il possibile atteggiamento populista degli scienziati sociali. Parlando di populismo egli si riferisce unicamente al “populismo concepito come particolare relazione sociale (ideologica, morale, scientifica, politica) che alcuni intellettuali stabiliscono, almeno simbolicamente, con il “popolo”. Tale relazione può ingenerare in questi intellettuali sia conoscenza sia azione, e a volte entrambe, simultaneamente o alternativamente. […] Nelle scienze sociali, il populismo scientifico permette di scoprire giacimenti cognitivi dimenticati dalla cultura dominante, ma porta spesso a dipingere questi saperi popolari con i colori dei desideri dei ricercatori. […] L’inversione dello sguardo, il capovolgimento delle prospettive, è un motivo ricorrente dell’approccio

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populista. […] La cultura ufficiale, “occidentale”, “dominante”, fa riferimenti costanti al popolo: in questo senso, esso è un luogo comune delle retoriche politiche. E a volte la retorica populista, che si vorrebbe alternativa, fatica a distinguersi veramente dalla retorica ufficiale. […] Ma il populismo nelle scienze sociali presenta anche molti aspetti molto più ideologici che propriamente metodologici, i quali travalicano ampiamente il mondo della ricerca e sono fortemente diffusi nell’intellighenzia. Al di là della scoperta dei valori, dei comportamenti e delle risorse del popolo, si

profila nel populismo un’idealizzazione del popolo medesimo”56

.

Ho citato questo lungo stralcio del testo “Antropologia e sviluppo” del socioantropologo francese perché, se ci si sofferma sul fatto che una scienza sociale anti-utilarista si colloca come nemesi naturale di una scienza sociale dello sviluppo, si può notare come le critiche che sono mosse nel testo di Olivier de Sardan sintetizzano e sicuramente esplicano con maggior precisione quanto da me detto sopra. Tutto ciò può essere anche ulteriormente confermato dall’analisi dal saggio di Latouche, “Spirito del dono” (Latouche, 2010).

Il presupposto critico da cui si muove Latouche è la constatazione dell’equivalenza appresa tra benessere e felicità. Chi si muove nel mondo moderno ha incorporato una teoria eudaimonistica economicizzata. Non

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può darsi alcuna forma di realizzazione dell’individuo a prescindere dal suo benessere. Quale benessere? Lo stato di benessere, nell’economia di sviluppo, non può che coincidere con uno stato perenne di accumulazione: accumulazione di beni materiali, accumulazione di beni immateriali. Rifacendosi tuttavia alle teorie aristoteliche sull’economia, lo studioso francese cerca di decostruire, certo efficacemente, l’idea di economia che si è andata lentamente costruendo nel mondo contemporaneo. In particolare, è affascinante il recupero del concetto di hybris, la tracotanza, la dismisura: l’economia moderna non è più normativa, secondo Latouche, bensì si autorealizza secondo un principio di eccedenza (non nel senso positivo godboutiano più volte sottolineato sopra) che sovrasta la “regola”, il

nomos, che sovraintende al buon funzionamento della comunità, della polis, ovvero, per sineddoche, l’oikos, quello spazio di socialità in cui si

realizza l’individuo.

Per descrivere dunque l’esito di questa hybris che domina la regola di socialità; per descrivere sconsideratezza delle politiche ideologiche di sviluppo, Latouche fa ricorso ad un altro concetto desunto da un ambito differente da quello delle scienze sociale: il concetto teologico di

derelizione. L’economia di mercato, le politiche di sviluppo (a prescindere

dal fatto che tale sviluppo sia selvaggio, equilibrato o moderato) producono

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l’affermazione di un’etica economica: “Una società decente non produce

esclusi”57

. Il ché evidentemente comporta il fatto che la società in cui viviamo, se produce esclusi, deve essere indecente.

Non credo sia il caso di soffermarsi eccessivamente sull’analisi di quanto detto sopra e sulla evidente aderenza a ciò che Olivier de Sardan definisce populismo ideologico.

Vi è una sorta di metafisica del soggetto, della sua naturalità, che è alquanto stridente rispetto all’urgenza di una metodologia antropologica nello studio della società, senza concedere nulla alle sue contraddizioni.

Per tornare ancora a Godbout, è ancora più interessante evidenziare come, nel saggio Le buone ragioni di donare, egli demolisca nell’incipit tutta la tradizione scioantropologica che tanto ha dato, in termine di possibilità euristiche, allo studio dei sistemi umani. Scrive Godbout: “A ragione Boudon insorge contro la facilità con cui per spiegare un fenomeno, in sociologia, si ricorre all’obbedienza cieca alla tradizione o a una spiegazione che fa appello a forze oscure che superano l’attore, siano esse l’inconscio individuale, l’alienazione, o a una struttura sociale elementare

inconscia che permette a Lévi-Strauss di ridurre il dono a uno scambio”58.

In particolare, riferendoci a ciò che egli chiama, con una evidente vena

57

S. Latouche, Spirito del dono, in Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p.70

58 J.T. Godbout, Le buone ragioni di donare, in Il linguaggio del dono, Bollati Boringhieri, Torino 2008,

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polemica, “tradizione”, Marc Augé fornisce un motivo sufficiente per

obiettare a tale posizione: riflettendo sulle società moderne,

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