• Non ci sono risultati.

La categoria di dono, crocevia di teorie economiche, sistemi giuridici, pratiche religiose, politiche del sapere, rischia di essere, come ho tentato di mettere in luce nei paragrafi precedenti, un pantagruelico calderone in cui

possono prendere forma pensieri di ordine metafisico, teorie

antropologiche, sistemi filosofici, architetture morali. Se, per altro, il dono prevede un flusso in cui i beni oggetto di scambio sono rappresentati anche e soprattutto dai corpi, in una sistema sociale come quello occidentale pervaso dall’egemonia del principio utilitarista, le cui costruzioni culturali richiedono l’edificazione di un soggetto che abbia incorporato determinati valori egotistici ed individualistici, nell’epoca in cui la biomedicina e la medicina genetica rappresentano saperi irrinunciabili, in cui i corpi hanno subito un processo di alienazione e reificazione; in un periodo storico, tuttavia, in cui la società civile crea instancabilmente delle reti di socialità alternativa basate sulla condivisione di un principio identitario che rifugge alla standardizzazione sulla base della razionalità dell’agente economico, in un periodo storico in cui prolifera il movimentismo religioso, in cui il principio di responsabilità nei confronti di un’etica somatica è alla base del processo di formazione di soggetti assoggettati ad una tecnocrazia

118

imperante e, paradossalmente, educati alla libera scelta

nell’autodeterminazione, in cui il postulato dell’efficienza implica l’eliminazione dall’immaginario comune della morte e la scomparsa delle grandi dottrine in cui l’individuo possa scoprire pensabile l’indicibile sebbene la morte, in forme sempre più evidenti, si ponga incessantemente sotto gli occhi anche del più distratto osservatore; in un momento storico in cui, tutto è acquistabile tramite transazioni fittizie in sistemi virtuali che hanno inaudite porte d’accesso ad una materialità più vetusta, e proprio perché tutto è acquistabile con spostamenti impalpabili di denaro, il tempo assume il valore di bene da donare e, in pieno regime di capitalismo finanziario, sorgono “banche” che hanno come scopo quello della condivisione di tempo al di là di una possibile qualificazione merceologica; in questo quadro appena abbozzato e già così contraddittorio e frammentario non ci si può esimere da accostarsi con sguardo quanto mai vigile ad una pratica sociale come quella della “donazione di sangue di cordone ombelicale”.

Come ho accennato nel Primo Capitolo della presente Introduzione, ormai da vent’anni, nel campo del SCO, si è attivato un meccanismo assolutamente analogo a quello della raccolta di sangue. In alcuni stati, come gli Stati Uniti d’America la raccolta di SCO passa attraverso la quantificazione del valore di scambio dei tessuti organici ed il loro relativo

119

commercio; in Italia, invece, la legge, che ha escluso determinati tipi di linee cellulari, ha imposto, come per il sangue, la sola possibilità di donazione volontaria.

Nonostante le grandi somiglianze tra il dono del sangue ed il dono di SCO è determinante sottolineare delle differenze essenziali:

 il sangue è un prodotto rigenerabile, donabile (a seconda del sesso)

tre o quattro volte l’anno; il SCO è un “prodotto di scarto”, donabile solo durante il parto;

 il sangue può essere donato da individui tanto di sesso maschile

quanto di sesso maschile; il SCO può essere donato solo da donne partorienti;

 la possibilità di ripetere la donazione più volte l’anno, molte volte

nella vita e per molti decenni garantisce la possibilità di creazione di legami sociali all’interno delle associazioni di volontari, di rapporti di fidelizzazione, di politiche identitarie; l’assenza di tale possibilità nella donazione di SCO sembrerebbe far propendere per un’assenza di tali “fenomeni collaterali”;

 il sangue può essere utilizzato solo in terapie emotrasfusionali o in

terapie per le quali siano necessari farmaci emoderivati; il SCO, raccolto per il suo alto contenuto di cellule staminali adulte, si presta

120

a tutte le possibilità applicative oggi prospettate dalla medicina genetica e dall’ingegneria biomedica;

 il sangue viene prelevato con un’azione intrusiva che, a seconda dei

sistemi culturali antropopoietici in campo, può essere variamente interpretata; il SCO viene prelevato, previo consenso, all’interno di una pratica biomedica, il parto, totalmente estranea al sistema di donazione.

Alla luce di quanto scritto sopra, credo che sia difficile applicare, al di fuori della tematica dell’altruismo che, tuttavia, richiede una peculiare

contestualizzazione, una qualsiasi delle categorie classiche

dell’antropologia utilizzate per la spiegazione della pratica del dono.

Il tipico paradigma maussiano costituito dai tre momenti del “dare-

ricevere-ricambiare” non può essere evidentemente preso in

considerazione, così come per la donazione del sangue, in quanto la donazione di SCO avviene in ambienti privati ed impersonali, al di fuori di sistemi rituali, manca di ostensività e, per il vincolo dell’anonimato, non prevede la possibilità di un ricambio; a questo si aggiunga che il beneficiario di una donazione potrebbe anche essere un individuo di sesso maschile, soggetto assolutamente incapace di “ricambiare” il dono ricevuto.

121

La categoria della “reciprocità” formulata da Lévi-Strauss, d’altro canto, risulta fortemente compromessa, a meno di un innesto in una possibile comunità morale universale, la comunità, per intenderci, dello straniero universale di Titmuss, in quanto il circolo virtuoso si arresta al secondo, forse anche al primo momento del dono, in cui gli intermediari, nella “short run” di Titmuss, rappresentano il necessario impedimento ad un qualsiasi rapporto interpersonale tra donatore e ricevente.

Certamente, per ovvi motivi che mi pare superfluo sottolineare, neppure il concetto di dépense trova una qualche possibilità di applicazione al caso di specie preso in esame.

Di fronte a tali prospettive, ritengo necessario proseguire il presente lavoro soffermandomi particolarmente sul lévistraussiano “regime del prodotto rarificato” quanto mai applicabile ad un bene tanto scarso quanto fondamentale sia all’interno di una visione ontologica dell’essere umano (e se l’antropologia deve occuparsi delle costruzioni culturali e delle reti semantiche di una data società, per quanto il pensiero riflesso che dalla conoscenza dell’ “altro da me” porti ad una inevitabile decostruzione del “me” che in uno sguardo da lontano può finalmente diventare anch’esso “l’altro”, e dunque ad una decostruzione di tutte le ontologie occidentali; se, dicevo, l’antropologia deve occuparsi delle costruzioni culturali di “questa” cultura non potrà rinunciare a confrontarsi con i modelli

122

esplicativi dell’ontologia), sia all’interno del sapere biomedico, sia all’interno di una politica della speranza e della vita costantemente alimentata dai modelli ideologici dell’altruismo generalizzato; e ripartendo proprio dalla più recente letteratura riguardo la speranza e le retoriche ad essa connessa, rileggere, sulla scia di un’inevitabile commistione tra dono e mercato, tra associazionismo e volontariato, da un lato, ed industria multinazionale e capitalismo, dall’altro, l’intero sistema del dono all’interno delle società occidentali moderne. Oltre a ciò si dovrà cercare di capire in quale dei tanti mobili punti focali possibili, tra i quali si stendono le fitte reti di relazioni di potere, si colloca quest’oggetto sociale apparso da relativamente così poco tempo: fondamentale comprendere che tipo di rapporti intrattengono tra loro i saperi religiosi, giuridici, economici, scientifici, per poter azzardare una spiegazione riguardo una nuova politica emergente e le sue capacità di produrre nuove soggettività, nuovi corpi, nuove verità.

Per concludere, se, tornando a citare Aria, il dono del sangue non fa amici ma, aggiungerei, quanto meno produce legami sociali, il dono del SCO sembra non fare né amici né legami sociali. Eppure partendo da una “scommessa”, ovvero che il dono di SCO sia, in un modo del tutto nuovo e

probabilmente connesso con una società ad alto grado di

123

necessario, per proseguire il presente lavoro, non retrocedere rispetto al seguente assunto: una pratica apparentemente così ibrida e settoriale e nondimeno, anche solo a livello intuitivo, così pervasiva, si presenta come un terreno di incontro cruciale tra forme di sapere differenti, in quanto esprime in maniera imprescindibile un incessante susseguirsi ed incatenarsi di domande e risposte rispetto agli impensabili della vita umana. Molto al di là di una mera pratica di socialità, mi pare essere il piano in cui l’esistenza personale, ancora una volta, scontando la sua eterna condanna, cerca il suo orizzonte di senso, tentando di superare la dialettica tra individuo e società.

125

Documenti correlati