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EMANUELE GINORI, OVVERO UN CUORE PER L’ORGANISMO

PARTE SECONDA

EMANUELE GINORI, OVVERO UN CUORE PER L’ORGANISMO

Quando ho terminato il lavoro di introduzione teorica necessario per iniziare una ricerca che si addentrasse nel campo del sapere della biomedicina, o più in generale delle bioscienze, mi sentivo sufficientemente confortato dal bagaglio relativamente ampio di competenze accumulate; il quadro complessivo della pratica di donazione del SCO si era ricomposto, i pezzi dispersi di un puzzle tridimensionale finalmente combaciavano rendendo ai miei occhi una struttura densa, compatta, armonica, in un'unica parola “bella” da guardare e da pensare. Avrei, però, pagato questa ingenuità. Non mi ero affatto reso conto che ciò che ero riuscito a produrre era una delle tante possibili immagini, che i pezzi che avevo utilizzato e che costruivano un’isola felice, all’interno della quale “costringere” i singoli racconti delle persone che avrei incontrato nel corso della ricerca, era un’isola che avevo costruito pazientemente, raccogliendo differenti narrazioni prospettiche in un percorso di studio durato all’incirca un anno. Mentre cercavo di garantirmi un approccio critico al materiale studiato avevo intessuto una tela semantica estremamente pregiudizievole che mi avrebbe intrappolato, producendo una rappresentazione coerente e compatta che si sarebbe in

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larga parte sgretolata nel corso delle interviste. La difficoltà di emanciparmi, cosa in cui credo in parte di essere riuscito, dal pregiudizio era rappresentata principalmente dal fatto che, come ogni buon pregiudizio, edificato con sapienza architettonica, non si mostrava affatto come tale bensì come sapere coerente, sguardo orizzontale, capace di abbracciare una porzione di vita sociale abbastanza ampia, modello esplicativo critico nei confronti di ogni discorsività che accoglieva al suo interno ma mai critico nei confronti di se stesso.

Tale apparato teorico, in fondo, non era eccessivamente fuorviante ma era viziato da una profonda schematicità riduzionistica, ripercorrendo le tappe principali del pensiero socio-antropologico prodotto a partire dagli scritti maussiani. In alcuni appunti di inizio Ottobre 2013, riducevo, in modalità diaristica, gli studi fatti e le prospettive di ricerca sul campo come segue: “Marcel Mauss formalizza la pratica di dono nelle civiltà primitive secondo il triplice schema DARE-RICEVERE-RICAMBIARE. […] Il ricambiare, nel momento in cui avviene, può costituire il primo momento di nuovo circolo.

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Nel momento in cui si ricambia, l’azione, che diventa reciproca (biunivoca), concorre a fondare o rinsaldare legami sociali. Se si potesse

innestare un meccanismo di riproduzione della pratica

nell’indeterminatezza dell’infinito, avremmo un “circolo virtuoso di reciprocità” puro. Considero il termine puro nella accezione di non condizionabile. […]

Nel caso del sangue di cordone ombelicale la questione appare molto complessa. Innanzi tutto, come in quasi tutte le donazioni di beni del corpo, gli attori sociali si spersonalizzano nell’anonimato. […]

Il passaggio attraverso le maglie della società civile fa sì che l’INDIVIDUO A sia per l’INDIVIDUO B un anonimo, e viceversa. Ben diverso sarebbe se l’INDIVIDUO A e l’INDIVIDUO B avessero uno scambio personale tale che renda lo stesso reversibile. […]

È da notare, però, che questo tipo di reciprocità (materialmente inesistente) anche se fosse possibile non sarebbe vista dal donatore come auspicabile.

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Nessun donatore di midollo osseo vorrebbe ritrovarsi nella condizione di malato di leucemia, necessitante un controdono.

Oltre a ciò bisogna considerare che, generalmente, un bene donato (penso ai doni del kula) ha un alto valore simbolico che si accompagna ad un altrettanto alto valore materiale. Il sangue del cordone ombelicale è un prodotto di scarto (se non lo si donasse, verrebbe buttato). Insomma, ha un valore di scambio infimo, nella sua semplice organicità. Certo, vi è un investimento morale notevole in quanto contenitore privilegiato e facilmente disponibile di materiale biologico fondamentale per molte cure di malattie potenzialmente mortali. […] Quale che sia il sistema di sapere che produce nell’immaginario collettivo una visione così “salvifica” della questione, si deve partire dall’assunto che tale potere salvifico fa parte dei moventi del dono. Il che mi porta a supporre che “si dona perché si può salvare una vita” sia in qualche modo da collegare alla pretesa morale che “è cosa buona salvare una vita”. Difficile mettere in campo considerazioni egoistiche del tipo “dono perché mi conviene” sebbene, nel momento in cui la convenienza potesse essere astratta dalla contingenza di un guadagno immediato, non direttamente economicistico, e spostata sul piano di discorso delle possibilità logiche, ovvero “se un giorno dovessi averne bisogno, qualcuno potrebbe donare per me”, allora si potrebbe anche

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prendere in considerazione la possibilità di un innesto motivazionale di tipo egoistico.

In questa prospettiva, però, mi sfugge il perché un attore sociale dovrebbe donare: ci si potrebbe dire “ a prescindere dalla mia donazione, un giorno, se ne avessi bisogno, qualcuno avrà già donato per me”. Aggiungiamo, però, una considerazione moderatamente paranoica, o forse semplicemente di buon senso: “se non dono io, perché dovrebbe farlo un altro? Se non dono potrei non avere a mia disposizione ciò che mi servirà nel momento del bisogno”. […]

Riassumo:

- Il dono è tripartito (donare-ricevere-ricambiare), si esplica all’interno di una struttura di reciprocità, produce legami sociali;

- Il dono si produce all’interno di pratiche rituali e tra soggetti ben definiti;

- Il dono di beni biologici (sangue, tessuti, organi, SCO) si svolge nell’anonimato (cosa che impedisce una “reciprocità diretta”, una reciprocità primaria);

- Sangue e tessuti sono “beni di lusso” (richiedono uno sforzo fisico, morale, esistenziale, etc etc, notevole) – organi (quasi sempre) e

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SCO sono prodotti di scarto (i primi si espiantano in larga parte da corpi morti, il secondo è il “residuo sporco” del parto);

- Nel dono di prodotti biologici, se vi è reciprocità, non è diretta bensì indiretta; poiché il soddisfacimento di un interesse immediato non ha luogo, nel breve periodo bisogna supporre l’assenza di motivi egoistici: la reciprocità è indiretta perché ha senso solo nella prospettiva della speranza – quella che un bene (materiale) produca del bene (morale);

- L’economia morale della reciprocità indiretta (o della speranza) produce l’epifenomeno dell’altruismo.”

Rileggendo oggi, terminato il lavoro di ricerca, questi vecchi appunti preliminari, abbozzati in maniera estemporanea su quello che è diventato il mio “diario di campo”, non riesco a non sorridere con indulgenza e con moderato sarcasmo. Certo, alcune delle ipotesi sono state verificate nel corso delle interviste, altre sono andate in frantumi. Ciò che però mi appare simpaticamente naïf è lo sforzo del pensiero che si contorce su se stesso, è l’anelito irrinunciabile al rigore logico, alla produzione di lunghe catene di concetti che debbano inanellarsi l’uno con l’altro sulla base di una forza sillogistica che è così spesso estranea alla pratica e così ambita dalla teoria. Sarebbero state sufficienti le prime interviste per incrinare questo trasparente solido geometrico che, concedendo poche zone d’ombra,

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sembrava evadere agilmente il dubbio metodologico. Eppure, proprio da quelle piccole zone d’ombra avrei visto emergere un esercito di termiti che, erodendo fino in fondo le fondamenta della mia costruzione, l’avrebbero fatta franare concedendo nuovi orizzonti allo sguardo.

Quando il 28 Ottobre 2013 incontrai, per un’intervista, il Presidente della ADISCO, la Sig.ra Valeriana Marchesin Bono, non riuscii a focalizzare l’attenzione su alcune informazioni che, nel corso di una chiacchierata informale di fronte ad un caffè, iniziarono ad emergere e che tendevano a sfuggire alla mia analisi, depositandosi in modo casuale sui fogli del mio diario.

L’intervista che avevo in mente e che cercai di condurre mirava, oltre che alla possibilità di stabilire un legame proficuo che mi potesse aprire delle piste di ricerca, alla comprensione delle relazioni che si stabilivano tra il comparto associazionistico, visto come intermediario necessario per la realizzazione di una donazione di beni del corpo, il comparto burocratico-

sanitario91 e la pratica del singolo attore sociale, ovvero del donatore: in

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Preferisco utilizzare un’unica locuzione, ovvero comparto burocratico-sanitario, in quanto, come presupponevo prima di iniziare il lavoro di ricerca e come ho notato durante lo stesso, cosa di cui parlerò più approfonditamente in seguito, la superficie tecnico-discorsiva all’interno della quale si muove il personale sanitario e che produce il sapere biomedico non può essere distinta da una cornice, anzi, dalla trama burocratica che le è consustanziale. Non vi è separazione tra il sapere biomedico e il discorso amministrativo e burocratico né nessi di implicazione o di influenza. Semplicemente, il discorso sanitario non esiste né in una finestra temporale e pratica anteriore né in una posteriore al discorso

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altre parole, mirava quindi alla possibilità di fare emergere tutte le peculiarità del dono di SCO rispetto a quella di sangue e organi.

Nel corso delle due ore di intensa conversazione ciò che di maggior interesse emergeva si disperdeva nei meandri di due imponenti nuclei tematici, evidentemente cari al Presidente e di notevole preminenza nella mia analisi pregressa: il problema morale (per la signora Marchesin Bono) e sociale (per me) dell’anonimato del donatore e del ricevente, che rende non personale la pratica della donazione, e la questione della possibilità di

conservazione del SCO in banche private92 non italiane per un eventuale

uso personale in un futuro indefinito.

Fu abbastanza chiaro, fin da subito, che l’orizzonte di senso principale entro cui venivano discusse tali problematiche era di tipo morale. L’anonimato, nella prospettiva associazionista, è considerato la scelta etica e morale migliore che il legislatore potesse fare in quanto svincola il ricevente da qualsiasi obbligo di ricambiare il dono o di sdebitarsi sotto qualsiasi altra forma con il donatore, potendosi così sentire libero da uno stato di sottomissione psicologica. D’altro canto, la scelta della

burocratico e non lo si può pensare, né analizzare, distintamente da questo. Chiarirò successivamente la specificità di tale distinguo.

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Per una maggiore chiarezza nella seguente esposizione è necessario sottolineare che esistono tre tipi di conservazione di SCO: 1. Donazione etereologa: è la donazione anonima ed altruistica; 2. Donazione dedicata: è una forma particolare garantita dallo Stato italiano che consente a famiglie in cui vi sia, secondo dati anamnestici, una alta probabilità di contrazione di malattie ematiche nel nascituro la possibilità di conservare il SCO gratuitamente in Banche pubbliche per uso autologo; 3. Conservazione autologa: conservazione a pagamento del SCO in Banche private non italiane, poiché la legislazione italiana vieta la capitalizzazione di beni del corpo.

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conservazione è ritenuta tendenzialmente inutile in quanto si suppone che il sangue cordonale conservato nelle banche private per uso privato non posso realmente essere usato in quanto, assumendo che le malattie ematiche rispetto alle quali esso si costituirebbe come possibile cura abbiano una scaturigine genetica, sarebbe assurdo usare a livello terapeutico le staminali del sangue cordonale portatrici del codice genetico “difettoso” per curare il portatore ammalato del medesimo codice genetico; detto ciò, non è tanto rispetto alla scelta delle famiglie di conservare il sangue cordonale che venivano indirizzate le critiche del Presidente bensì nei confronti di quei ginecologi, accusati di ignoranza o connivenza, che, in vista di un qualche profitto, favoriscono l’errata formazione delle gestanti e del loro nucleo familiare veicolando una scelta insensata ed estremamente costosa. È chiaro che in questione vi era la sacralità di una pratica che essendo considerata “pura” vive nel suo essere “non dipendente” e “non contaminato”: nel caso dell’anonimato, si garantisce la sua permanenza nella sfera semantica del “non dipendente”, nel caso della gratuità ne si garantisce la sua non contaminazione. La recessione da uno dei due piani verrebbe considerato come l’atto di dissacrazione di una pratica che, avendo a che fare con un intervento a favore della restaurazione, a livello tanto fisiologico quanto esistenziale, di una vita sana, e dunque, in ultimo, essendo implicato nella prosecuzione della vita stessa, deve sopravvivere

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nella sua intangibilità disinteressata, scevra da benefit economici e/o narcisistici, di più vario genere.

Il secondo punto, in particolare, ritornò più volte all’interno dell’intervista: la possibilità di fare del Sé corporeo una merce di capitalizzazione, estraendo da ciò che non è merce, bensì merce fittizia, nell’accezione

polanyiana del termine93, un biovalore, ovvero il valore economico desunto

dalle “proprietà vitali dei processi viventi”94

, era visto, da questa cordiale signora, elegantissima ed eloquente, estremamente cordiale ed interessata profondamente ai risvolti (morali) della mia ricerca, come quanto di più esecrabile prodotto dalla società capitalistica occidentale. Caddero nel vuoto i miei tentativi, a volte forse viziati da una certa ingenua capziosità, di inscrivere le forme di donazione del corpo nella sfera di quei misconoscimenti che genera la possibilità di produrre, in ottica bourdieusiana, dominio simbolico. Temo che, in quel frangente, la cooperazione tra la mia incapacità di aprire dei canali comunicativi tali da produrre uno spazio semantico all’interno del quale riuscire ad intenderci sul significato dei concetti e delle categorie utilizzate e la rappresentazione immediata che veniva evocata dalla parola “dominio”, ovvero una rappresentazione di violenza e sfruttamento che offriva il fianco ad una

93 K. Polanyi, La grande traformazione, Einaudi, Torino, 2010 94

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critica della pratica di dono stessa e dunque ad una sua contaminazione, rendeva appassiti sul nascere i miei sforzi.

E in questo agone mal gestito, in cui entrambi cercavamo di non retrocedere dalle nostre posizioni teoriche di partenza, in cui le mie domande erano volte a svelare l’indicibile dell’interesse e le risposte della signora Marchesin Bono a supportare il primato etico di un “bellissimo gesto” che in nessun modo poteva o doveva essere scalfito da ipotesi critiche, non riuscivo ad assumere la posizione strategica tale da consentirmi di notare che si delineava sempre più evidentemente un fatto sufficientemente sconvolgente rispetto alle mie premesse: l’ADISCO, a differenza di altre associazioni di volontariato che si occupano di promuovere il dono, come l’AVIS (Associazione Volontari Italiani Sangue) o l’AIDO (Associazione Italiana Donatori Organi), pur non distanziandosi affatto nella retorica ufficiale, svolge, nella pratica quotidiana, un ruolo estremamente marginale. Alcuni piccoli indizi avrebbero potuto facilitare la comprensione di questa peculiarità: di fronte ad una richiesta di poter intervistare delle madri donatrici la segnalazione della difficoltà di rintracciare tali contatti, l’assenza di un registro di donatrici all’interno dell’Associazione, la costituzione del corpo associativo fatto non tanto di donatrici quanto di riceventi. Ad ogni modo, come ho più volte sottolineato, non fu in quell’occasione che prestai attenzione a tutto ciò e fu

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solo un caso fortunato quello che mi consentì di giungere ad un punto di svolta. Durante l’intervista, ebbi modo di chiedere se nell’ADISCO vi fossero anche dei volontari di sesso maschile, supponendo per ovvi motivi che essendo il dono del cordone ombelicale legato al parto, ci dovesse essere una preminenza femminile all’interno dell’Associazione. Casualmente, dunque, la signora Marchesin Bono mi segnalò il nome del Dott. Emanuele Ginori, volontario dell’ADISCO oltre che Coordinatore infermieristico donazione organi, tessuti e cellule della ASL 11 Empoli e mi fornì tutti i recapiti necessari per potermi mettere in contatto con colui che sarebbe divenuto il mio principale informatore in una ricerca sul campo che, iniziata come una ricerca volta all’analisi delle interazioni discorsive in cui il livello associazionistico diveniva il principale oggetto di studio tendenzialmente omogeneo, in altre parole un “cosmo”, si sarebbe trasformata velocemente, e per così dire quasi all’insaputa del ricercatore stesso, in una etnografia delle relazioni possibili tra personale sanitario e nuclei familiari, all’interno di un’azienda sanitaria, lontano dalla dimensione quotidiana del vivere associativo: una etnografia fatta di storie personali, in un ambiente disomogeneo, frammentato, le cui coordinate semantiche, ovvero culturali, risultano parcellizzate, di ardua decifrazione, dunque, molto più semplicemente, un’etnografia di “microcosmi”.

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La prima volta che incontrai il Dott. Ginori95 non ero ancora consapevole

del fatto che stessi facendo la conoscenza di colui che mi avrebbe schiuso le porte di un mondo con i suoi codici culturali, le sue difficili traduzioni, che tanto spazio cedono alle possibilità di incomprensione: una Azienda Sanitaria Locale, precisamente quella di Empoli.

Ricordo con precisione la difficoltà di trovarmi in un luogo così poco familiare, labirintico, indecifrabile. L’ospedale è una struttura assolutamente moderna, di recente costruzione, con un elevato tasso di tecnologizzazione e digitalizzazione, imponente e limpido, anche solo nella cura del prospetto esterno, quello che si offre alla vista immediata di pazienti, passanti, personale sanitario, e antropologi in ricerca. L’ingresso è costituito da quattro porte scorrevoli (due, in serie, per il flusso in entrata e due, sempre in serie, per quello in uscita) che creano uno spazio di attesa a dir vero non sempre agevole e confortante (soprattutto quando in inverno le temperature scoraggiano i meno audaci e il vento rende poco piacevole la sosta in tale ambiente, un piccolo nonluogo all’interno di quel luogo antropologico, ben noto, che è l’ospedale). In questo spazio si può rimanere “imprigionati” anche per qualche minuto (poiché l’apertura della seconda porta - quella fondamentale, in un verso per entrare e nell’altro per uscire -

95 Chiamerò il Dott. Ginori, da questo momento in poi, semplicemente Emanuele, restando fedele al

passaggio improvviso che nel nostro rapporto personale si è verificato pochi istanti dopo la prima conoscenza in cui il mio ossequio, dovuto, fu abbattuto dalla infinita cordialità che al proverbiale ubi

maior minor cessat sostituì istantaneamente il reciproco “tu” nella sua declinazione non solo

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è vincolata da un sistema di sensori che si attiva solo nel momento in cui la prima porta non viene sollecitata dal passaggio di nessuno) e in questo indefinito temporale la gente si guarda con una cortesia distratta, vicina all’indifferenza, quasi imbarazzata.

Quando varcai definitivamente per la prima volta la seconda porta scorrevole mi trovai in un ambiente che, a seconda della prospettiva utilizzata, si potrebbe definire utopico, distopico o efficiente: due schermi piatti sulla destra indicano con un bollino di colore verde o rosso la presenza o l’assenza dei singoli medici delle varie Unità Operative (da qui in avanti, U.O.); due apparentemente gentili signori albergano il desk dell’accettazione che potrebbe fare invidia ai più lussuosi Hotel; altri schermi piatti aleggiano sugli astanti segnalando dei numeri e delle lettere che indicano l’avanzamento della fila, smistata nei rispettivi box (ve ne sono in quantità) in cui, suppongo, si possa chiedere informazioni o essere indirizzati alla U.O. di riferimento. Una sfavillante confusione ben orchestrata!

Colpito certamente più dall’efficienza, così tanto resa plateale, che dalla confusione, feci solo fuggevolmente caso alla ingente quantità di adesivi ed all’imponente totem, posto vicino al gruppo principale di ascensori, che invitano a prendere in considerazione la bellezza, l’utilità sociale, l’altruismo di un singolo piccolo gesto che quasi chiunque può fare e che

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non costa nulla: la donazione del sangue. Ad ogni modo, ero ormai in compagnia di Emanuele, con il quale superavamo agevolmente le solite frasi preliminari necessarie per una presentazione seppur superficiale e ci dirigevamo verso il suo studio, nell’U.O. Ostetricia e Ginecologia.

Fattomi accomodare nel suo studio e arrivati subito alla questione della mia tesi di ricerca, Emanuele riuscì a far emergere tutti i punti salienti della relazione medico-donatore che sarebbero risultati fondamentali per gli sviluppi successivi delle interviste e che avrebbero determinato tutti gli spostamenti di sguardo e di oggetto di ricerca che sarebbero progressivamente intercorsi all’interno del lavoro seguente.

In questo piccolo studio, arredato in maniera sobria e minimalista, in cui i pochi tocchi di colore sono legati ai volantini di promozione dell’ADISCO affissi su una classica bacheca in sughero, si sviluppò così la prima ora di intervista.

Emanuele (E.): “Chi sono io? Dunque, tu ti trovi ora nel coordinamento locale donazione tessuti e cellule…cioè un coordinamento che nasce dalla 91/99…la legge sulla donazione trapianti di organi e tessuti…e basta…organi e tessuti. La legge 91/99 dice che ogni azienda sanitaria deve

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