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Sulla strada di Titmuss: dono, sangue e società civile

Poniamo di accettare come caratteristiche del dono moderno le seguenti: mancanza di equivalenza; rapporto paradossale tra obbligo e libertà; fiducia; speranza; gratuità. Evidentemente, la pratica del dono nel mondo contemporaneo assume una complessità ineliminabile: il rischio maggiore rispetto a tale complessità è di operare, a vario titolo, per errore, misconoscimento o forzatura, una serie di riduzioni a garanzia di una maggiore coerenza interna dell’impianto teorico. Tali riduzioni, però, sacrificherebbero ad una necessità metodologica, o ancor peggio politica, l’inestimabile ricchezza semantica di una simile pratica che, proprio in virtù di tale complessità, non può non essere tuttora considerata un fatto

sociale totale.

Rispetto a questa possibilità teorica, come si colloca una pratica di dono ben specifica e alquanto singolare come quella della donazione del sangue?

Per affrontare tale questione, vorrei partire da due saggi: il saggio introduttivo di Fabio Dei al libro “Il dono del sangue. Per un’antropologia

dell’altruismo” e il saggio di Matteo Aria, contenuto nel medesimo libro,

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Da questi due lavori emergono due caratteristiche imprescindibili della pratica della donazione del sangue: lo scarso potere di identificazione che comporta tale pratica e la questione che la donazione del sangue non produce legami sociali. Queste due peculiari caratteristiche mi paiono fortemente correlate ed è per questo motivo che non si può iniziare una trattazione più approfondita del tema a prescindere da questa base paradossale.

Come scrive giustamente Dei, la donazione del sangue è un fatto “in sé

privato, individuale, non si consuma in una performance pubblica”74. I

motivi per i quali tale atto sia individuale sono probabilmente garantiti dalla figura degli intermediatori, come ad esempio l’AVIS. Il rapporto di donazione può avvenire in un ambito pubblico (ad esempio, la “giornata della donazione”) o privato (il donatore che si reca in ospedale per donare il sangue), eppure l’atto in sé rimane sempre profondamente privato. È il donatore, che privatamente sceglie di compartecipare il suo sangue e lo affida ad un intermediario, sia esso la singola associazione o l’ospedale. Evidentemente, una forma molto particolare di dono: chi riceve primariamente il sangue non è certo chi beneficerà del dono. È, invece, un ente di garanzia, di manipolazione (laddove manipolazione va inteso nell’accezione neutra e non deteriore del termine) e di redistribuzione. È

74 F. Dei, Introduzione, in Il dono del sangue. Per un’antropologia dell’altruismo, Pacini Editore, Pisa

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evidente che a queste condizioni la pratica della donazione del sangue non può generare una identificazione collettiva. Facendo salva la dimensione totalmente privata della donazione, non facendo interagire in una dinamica di condivisione di moventi e fini gli attori sociali, i quali si relazionano con istituzioni incarnate in figure dotate di autorità (medici e infermieri) e che in virtù di tale autorità e di una certa strutturazione del potere biomedico

mantengono una distanza tra donatore e ricevente primario

incommensurabile, si genera l’impossibilità di creare un immaginario collettivo identitario. A questo bisogna aggiungere che la pratica di donazione del sangue “si colloca in situazioni specifiche in punti diversi e variabili del continuum dono-mercato, volontariato-stato, reciprocità-

altruismo, che vanno studiati empiricamente, volta per volta”75

.

Soffermiamoci su questa affermazione, che chiarisce la complessità del dono del sangue, pratica fortemente ibrida, crocevia di spinte a volte anche antagoniste. Gli attori che intervengono nella donazione del sangue sono tre: donatore, ricevente primario (che in verità, come già sopra esplicato, non è un reale “ricevente” bensì un intermediario), ricevente secondario (ovvero il reale ricevente, dunque il beneficiario).

Quali sono i mutui rapporti tra questi tre attori sociali?

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Innanzi tutto bisogna soffermarsi sulla posizione del donatore. La donazione del sangue è una donazione “a fondo perduto”, dal punto di vista materiale. Certo, chi dona il sangue può ottenere alcuni benefit “come la possibilità di avere analisi cliniche regolari e gratuite, di fruire di permessi

pagati sul lavoro e così via”76

. È da notare, ad ogni modo, che tali incentivi non sono determinanti rispetto alla scelta dell’individuo donante. Proprio per questo motivo, non si riesce a trovare un modello esplicativo più convincente di quello elaborato da Healy che riflette sulla necessità di uno spostamento dell’asse analitica dal donatore al raccoglitore. La presenza infatti della società civile, dell’associazionismo, fa sì che il donatore individuale percepisca il suo essere sociale come una caratteristica peculiare: da ciò, un altruismo embedded, imbrigliato in questa socialità che oltrepassa le possibilità di una razionalità economicista dell’attore

individualista77. Tornerò in seguito sull’importanza capitale di parlare, in

questo caso, di altruismo come embedded, tanto più che lo stesso Titmuss fa riferimento alla necessità di superare i modelli esplicativi elaborati dalle teorie economiche occidentali, in quanto insufficienti a dare ragione dell’insorgenza di moventi e pratiche altruistiche. Scrive infatti Titmuss:

76 Id., p.10. A questo proposito è molto interessante presentare un esempio in cui mi sono imbattuto su

Internet. Sul sito dell’AVIS di Milano vi è una newsletter datata 30/09/2010 in cui vengono presentati alcuni benefit per donatori periodici. Tali benefit sono, nella fattispecie, uno sconto del 15% per la stipula di una polizza assicurativa, una visita gratuita presso un otorinolaringoiatra, una tariffa agevolata per la prenotazione in una particolare catena alberghiera.

77

K. Healy, Altruismo istituzionale: i sistemi di raccolta del sangue e la popolazione di donatori

nell’Unione Europea, in Il dono del sangue. Per un’antropologia dell’altruismo, F. Dei, M. Aria, G. L.

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“There must be some sense of obligation, approval and interest; some

feeling of ‘inclusion’78

in society; some awareness of need and the

purposes of gift”79

.

Ad ogni modo, quali che siano i moventi che spingono un singolo individuo a diventare donatore, anche occasionale, è fondamentale il fatto che il sangue donato, ovvero il dono, non giunga direttamente a colui che

ne necessita80. Il sangue-dono infatti, venendo preso in carico da coloro che

ho precedentemente definito “riceventi primari”, ovvero da quella dimensione istituzionalizzata della società civile, tende quasi a trasformarsi in sangue-merce. Il sangue, infatti, una volta giunto nelle cosiddette Banche del sangue, diventa un prodotto farmaceutico, alla stregua di qualsiasi altro farmaco fornito dal Servizio Sanitario Nazionale. Questa dinamica di perversione del dono, come la definisce Godbout, è un momento capitale in questa peculiare pratica del dono. Ed è fondamentale anche per comprendere il motivo per il quale Aria parli del dono del sangue come “un

78

Laddove si comprende immediatamente che ‘inclusion” potrebbe essere facilmente sostituito con la categoria di ‘embeddedness’.

79

R. Titmuss, The gift relationship. From human blood to social policy, The new press, New York, p. 306

80 Sarebbe interessante soffermarsi, in sede di ricerca, sulla categoria di necessità: il dono del sangue (e

di SCO) è un dono peculiare in quanto il sangue è chiaramente un bene umanamente prezioso, tanto per chi lo dona quanto per chi ne beneficia. Eppure, mentre nel caso del donatore, per quanto si tratti di cedere una parte di sé, il venire meno dell’integrità fisica, nel contesto occidentale, non è vissuto come una perdita perniciosa, per il beneficiatore il ricevere sangue è una questione vitale, necessaria. Proprio tale necessità crea un pesante dislivello tra il valore oggettivo che si dà all’azione di privarsi del proprio sangue ed alla consapevolezza del donatore dell’urgente necessità da parte di un altro essere umano di beneficiarne. Una piccola perdita personale, in favore della “salvezza” di uno straniero. Su questo dislivello si basano le pesanti retoriche di propaganda delle associazioni per la raccolta del sangue. Proprio su tale retorica si è incentrato il lavoro di Copeman, il quale ha analizzato, con esiti significativi, la commistione tra le retoriche di propaganda ed il sistema del “repertorio calcolatore” nella religione induista in India. (Copeman 2005, in Dei, Aria, Mancini, a cura di, 2008)

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dono che non fa amici”. È comunque da segnalare la posizione critica del

sociologo francese Philippe Steiner81: egli, infatti, pur non misconoscendo

l’immenso valore dei sistemi di welfare basati sul volontariato, dunque dei sistemi altruistici, si sofferma sulle peculiarità del dono del sangue che, per quando ideologicamente si possa ipotizzare affidato all’impresa morale di collettività virtuose, non può svincolarsi da logiche di mercato. I motivi sono differenti e cercherò di presentarli in questa sede in modo sintetico. In una prospettiva strettamente economica, egli fa notare, a discapito di Titmuss, sul cui modello tornerò a breve in modo più organico ed approfondito, che il sistema dell’economia di mercato informa due modalità di applicazione spesso svincolate l’una dall’altra: la produzione industriale ed i sistemi commerciali. Nel caso della donazione del sangue, l’economia di mercato trova un accesso preferenziale attraverso la necessità dell’innesto della tecnologia industriale. Fa correttamente notare Steiner che la maggior parte del sangue prelevato e raccolto deve essere sottoposto a processi di differenziazione dei componenti, se non altro per una ragione pratica, poiché il sangue intero, nei processi di conservazione, ha una vita estremamente breve: non oltre un mese. Per massimizzare l’utilità della raccolta di sangue, dunque, vi deve essere una partecipazione obbligata da parte delle industrie farmaceutiche che, sole, possono trasformare il sangue

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P. Steiner, Dono del sangue e dono degli organi: il mercato e le merci “fittizie”, in Il dono del sangue.

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in prodotti medicinali; ciò implica, evidentemente, che, anche volendo mantenere il sistema di approvvigionamento da parte dell’apparto medico e associativo puramente volontaristico, non si escluderebbe l’inserimento della donazione del sangue nel meccanismo dell’economia di mercato. A ciò, Steiner, aggiunge una considerazione teorica desunta dalla scuola economica austriaca secondo cui quanto più è lunga la via che un bene deve attraversare, dall’atto iniziale (di produzione o raccolta) fino alla trasformazione finale, tanto più, ad ogni tappa di tale processo, la logica economica diviene egemone ed il sistema si “capitalizza”. Se si osserva il ciclo del sangue, dalla donazione, al bancaggio, alla trasformazione, alla riproposizione nel sistema sanitario pubblico o nel mercato farmaceutico, si comprende che vi sono tutte le condizioni perché la pratica sia piegata, anche solo parzialmente, a logiche di mercato.

A queste analisi, bisogna aggiungere che, le teorie dell’economista Bruno Frey, cui Steiner fa riferimento, considerando i moventi dell’attore sociale nel momento in cui compie una azione, crea una biforcazione dividendo le motivazioni estrinseche da quelle intrinseche: le prime fanno riferimento al cosiddetto “effetto-prezzo” ovvero alla possibilità di collegare un valore economico (prezzo o ricompensa) all’azione presa in considerazione; le seconde invece rimandano direttamente alle risorse individuali (etiche, morali, religiose) a disposizione dell’attore sociale. Tanto possono essere

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slegate dal sistema del capitale le seconde quanto sono profondamente avviluppate ad esso le prime. Ciò non implica facili determinismi; al contrario, è garanzia di una meccanica assai complessa celata al di sotto di apparenti univocità nelle scelte dei soggetti. Scrive Steiner: “La motivazione intrinseca può essere rafforzata dall’effetto-prezzo quando il secondo è percepito come un mezzo per la sua valorizzazione, come nel caso della remunerazione simbolica che incrementa lo sforzo. Al contrario la motivazione intrinseca può ridursi a scomparire se l’effetto-prezzo è percepito come una mancanza di riconoscimento nei confronti della stessa motivazione. […] Se si esce dal limitato ambito in cui si colloca l’economista e si prendono in considerazione i valori di razionalità assiologia, si nota che l’effetto-prezzo può avere come risultato non voluto di ridurre (effetto di esclusione debole) o di distruggere (effetto di esclusione forte) la motivazione intrinseca, e di far diminuire la collaborazione, nel caso in cui questa motivazione sia essenziale

all’azione”82

. Certo, gli studi di Steiner aiutano a comprendere come si debba accettare come necessità imperante la commistione di dono e mercato, tanto più che egli non legge in tale accostamento nulla di esecrabile tout court per principio e ideologia, ma la questione sul dono che non fa amici rimane, a questo livello, ancora non scalfita.

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Il terzo attore sociale, il ricevente secondario, il beneficiario, infatti, nel momento in cui riceve la sacca di sangue di cui necessita non riesce a percepire pienamente l’importanza anche simbolica di ciò che sta ricevendo. Sa bene che esiste un donatore grazie al quale nel momento del bisogno può ricevere il bene necessario alla sua sopravvivenza, ma quando tale bene giunge esso è totalmente spersonalizzato. Il ché dischiude le possibilità di interpretazione su una dinamica complessa che prevede due caratteristiche: l’anonimato del donatore e la scissione della pratica del dono in tre fasi separate di cui una, quella centrale, è una fase di mediazione e le altre due sono due delle fasi caratterizzanti del dono maussiano, ovvero dare e ricevere.

Perché la possibilità di dividere in tre fasi la pratica della donazione del sangue? A mio parere si può operare tale separazione in quanto è evidente l’assenza di reciprocità in tale pratica. Come infatti sottolineato in molti dei saggi inseriti nell’opera Il dono del sangue, ammesso che vi fosse la possibilità di un ricambiare, il controdono, nel caso specifico della donazione del sangue sarebbe un dono indesiderato. Per dirla in altri termini, nessuno vorrebbe trovarsi in un futuro indeterminato nella condizione di abbisognare di cure emotransfusionali. L’assenza dunque di una reciprocità diretta rompe il circolo virtuoso del dono: l’assenza del

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può immaginare tale pratica separata come segue. Un dono gratuito (niente più del “dono della vita” può essere considerato come una realizzazione di quella gratuità-grazia di cui parla Latouche), una sacca di sangue, viene affidato nelle mani di un intermediario. Vi è sicuramente un dare, sebbene il ricevere sia già contaminato, visto che questo ricevente non usufruirà del dono. Segue una fase di mediazione in cui il dono viene trasformato in merce, in prodotto sottoposto alle logiche della biomedicina, come descritto poco sopra. È in questa fase che lo spirito del dono, lo hau (per riutilizzare delle categorie ampiamente trattate nei paragrafi precedenti), diviene rarefatto, evanescente. Una volta espunto lo hau del dono, si può passare all’ultima fase, quella della reale ricezione. Colui che abbisogna di sangue lo può ricevere ma la forza dello spirito del dono è evidentemente ormai svilita tanto che, sebbene il beneficiario sappia che a monte è proprio una pratica di dono a garantire la sua possibilità di sopravvivenza, non riesce più a riconoscere la completezza della pratica, l’infinito valore simbolico del dono, il suo essere un fatto sociale totale.

Sorge così una domanda: se si accetta quanto detto sopra, si può parlare ancora di dono nel caso della donazione del sangue nelle società occidentali?

Per rispondere a tale domanda, utilizzo quanto scritto in maniera assai precisa da Aria: “Le norme che regolano il dono studiato da Mauss non

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sono valide universalmente, ma rappresentano una caratteristica specifica “di quel tipo di religione propria delle società tribali di piccole dimensioni” e dove è assente il concetto di salvezza e peccato. Il dono puro è invece espressione delle religioni universali in cui “i comportamenti sociali sono sistematicamente eticizzati”. […] La reinterpretazione del fenomeno della donazione del sangue […] consente di mettere in discussione gli assunti universalistici di coloro che rivendicano l’esistenza di un unico modello di

altruismo (Titmuss) o di un’unica forma di dono (Godbout)”83

.

Per riassumere, non si può negare che la donazione del sangue sia certamente una pratica di dono moderno in quanto, delle sopracitate caratteristiche di tale pratica, sopravvivono nel dono del sangue l’assenza di un rapporto di equivalenza, il concetto di fiducia e la gratuità, la quale si manifesta nell’azione volontaria e non necessariamente contraccambiata. È per queste motivazioni che si tende a parlare di un dono altruistico. Ma per tornare a quanto detto sopra, riferendoci al saggio di Healy, si tratta di un altruismo inglobato nel sistema. Senza questa complessa pratica di dono moderno, che prevede come più volte evidenziato la presenza di un termine mediatore, non ci potrebbe essere dono puro, dono altruistico. Tutto ciò ci porta ad un ulteriore ordine di ragionamenti: innanzi tutto, è importante soffermarsi su quanto detto da Aria. La possibilità di un dono puro è

83 M.Aria, Le aporie del sangue: un dono che non fa amici, in Il dono del sangue. Per un’antropologia

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garantita solo da un determinato contesto culturale. Bisogna dunque evitare di cadere in pericolose tentazioni universalistiche. Per riflettere su questo punto utilizzerò il saggio di Kathleen Erwin, Il sistema circolatorio:

approvvigionamento di sangue, aids, e corpo-sociale in Cina.

Prima di fare ciò, ad ogni modo, è necessario ripercorrere le tappe più importanti del già più volte citato testo di Richard Titmuss, The gift

Relationship, testo pionieristico rispetto agli ultimi studi svolti riguardo la

tematica del dono e del sangue, ma pur sempre gravido di spunti assolutamente attuali ed interessanti.

Il lavoro di Titmuss può essere definito come un denso studio comparativo dei sistemi di donazione, prendendo in considerazione principalmente due modalità antitetiche nella raccolta del sangue: il modello statunitense, a base remunerativa, e quello britannico, fondato sulla donazione gratuita e volontaria. È da questa comparazione che Titmuss estrapola un modello interpretativo totalmente spostato verso il primato della donazione gratuita che fonda il principio morale dell’ altruismo generalizzato. Sebbene la categoria di altruismo generalizzato sembri accostare lo studioso a Godbout, delle cui teorie ho discusso precedentemente, criticando principalmente l’approccio universalista al tema della donazione, piegata ad una dialettica anti-capitalista, basti questo passo a liberarci da facili sovrapposizioni: “Man are not born to give; as newcomers, they face none

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of the dilemmas of altruism and self-love. How can they and how do they learn to give – and to give to unnamed strangers irrespecrive of race, religion or colour – not in circumstances of shared misery but in societies continually multiplying new desires and syndicalist private wants concerned with property, status and power?

We do not answer these great questions”84.

Non che non sia evitabile che domande concernenti il senso profondo delle contraddizioni umane, contraddizioni che all’occhio della logica occidentale risultano essere al più degli errori di interpretazione da ricondurre a sistemi maggiormente organici, si quietino; ciò non giustifica, tuttavia, la necessità di forzare queste effervescenze di significato in caselle metafisiche ben strutturate, sacrificando al sacro fuoco dell’ordine ciò che, nel loro linguaggio, già Montaigne e Pascal definivano l’apparente “seconda natura” dell’uomo che in verità risultava essere, senza un loro particolare entusiasmo, la “prima natura”: i costumi, ovvero la cultura. Cultura traboccante, inarrestabile, polimorfa, sfuggente, creatrice ed eternamente ri-creata, con buona pace dei deliri onirici del Vecchio Continente.

84 “Gli uomini non nascono per donare; appena nati, non devono fronteggiare nessuno dei dilemmi

dell’altruismo e dell’egoismo. In che modo imparano a donare? Come possono giungere a dare a degli stranieri sconosciuti, indipendentemente dalla loro razza, religione e colore, non in circostanze di miseria condivisa ma in società che moltiplicano in continuazione nuovi desideri e rivendicazioni private concernenti la proprietà, lo status e il potere?

Non risponderemo a simili grandi domande.” R. Titmuss, The gift relationship. From human blood to

social policy, The New Press, New York, 1997 [trad. It., R. Titmuss, Relazioni di dono. Dal sangue umano alle politiche sociali, in Il dono del sangue. Per un’antropologia dell’altruismo, Pacini Editore, Pisa, 2008

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Ma qual è l’intento perseguito da Titmuss nel suo lavoro? È evidentemente

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