Da abitante valsusina, una delle domande
che mi sono posta durante la mia ricerca sul campo ha riguardato l’esistenza o meno di una comunità autoctona con caratteristiche proprie e, nel caso se ne riscontrassero, osservare se queste ultime si rivelino agevolazioni o impedimenti per una preparazione del contesto locale all’ingresso di un’alterità, come la recente
accoglienza dei richiedenti asilo nei territori valsusini. Sentendosi parte di un universo culturale largamente condiviso, gli abitanti della Valle di Susa rivendicano alcuni tratti identitari che contribuiscono alla loro stessa definizione: il Movimento No Tav è uno dei motori che ha alimentato la visibilità di un’intera Valle, creando una rete di cooperazione tra le diverse realtà locali per
propendere verso una valorizzazione della produzione locale, contro le tendenze globalizzanti. “Non siamo la Val Maira” (Aime 2016) è una delle frasi emblematiche con cui gli abitanti tracciano coscientemente una distinzione socio- culturale con altre valli alpine che non hanno conosciuto la nascita di forme di partecipazione come quelle valsusine. Si può sostenere l’esistenza di una convergenza abbastanza evidente di chi è schierato sul fronte del No Tav e chi è sensibile all’accoglienza dei richiedenti asilo. Detto in questi termini sembrerebbe azzardato propendere per una sovrapposizione tra le due tematiche, ma durante il mio periodo di osservazione partecipante ho avuto conferme di quanto la battaglia anti Tav abbia inciso sulla sensibilità verso i migranti. In particolare risulta evidente come tale sovrapposizione abbia prodotto un nuovo ripensamento dell’appartenenza valsusina, tale da non andare verso l’innalzamento di barricate o muri. L’accoglienza dei richiedenti asilo è generalmente una fase delicata e precaria in cui la personalità dei soggetti coinvolti oscilla tra la dimensione della perdita in termini sociali e relazionali, e quella dell’apertura verso l’apprendimento di nuove forme culturali e sociali. Questa fase di liminalità, oltre a essere una sospensione del precedente status è anche una possibilità per arricchirsi di forme creative ibride (Aime 2016) qualora vi sia una collaborazione tra i migranti e i contesti locali. La riflessione è quindi concentrata su alcuni percorsi di inclusione e di configurazione dell’alterità all’interno della comunità che stanno maturando anche grazie al contributo dei sostenitori No Tav. Perché in Valle di Susa non si è arrivati a costruire barricate contro l’arrivo dei richiedenti asilo? Una delle risposte risiede nelle caratteristiche che contesto nel corso degli ultimi vent’anni: sostenitori o no della
lotta al Tav, non si può negare l’apporto creativo che esso ha fondato nella comunità locale e i cui effetti si stanno riversando sull’accoglienza dei migranti. Uno degli effetti scaturito dall’arrivo di migranti stranieri nei comuni è stato quello di creare o rivitalizzare associazioni e collaborazioni che erano rimaste dimenticate: ad Almese, il Comitato No Tav che normalmente si occupava di questioni legate al contrasto alla linea ferroviaria, è diventato una delle piattaforme a cui ci si appoggia per gestire attività connesse con i richiedenti asilo. Il sistema delle appartenenze multiple gioca quindi a favore di realtà di piccole dimensioni, in cui i confini sono molto più labili e sovrapponibili e risultano quindi tradursi in buone strategie per la comunicazione e l’organizzazione di molteplici ambiti, in modo da far scaturire una configurazione specifica dell’accoglienza.
Partendo dall’assunto che la liminalità (Turner 1986) discordi con la marginalità (Bartoli 2016), intendo qui sottolineare come la Valle di Susa sia già di per sé in una fase transitoria: la lotta No Tav contribuisce a imprimere repentini cambiamenti e ripensamenti nella comunità. A questa situazione si aggiunge la liminalità in cui sono immersi i richiedenti asilo che si incontra con la già presente liminalità, creando così una doppia esigenza di ripensamento dell’appartenenza locale, una doppia liminalità. Come per la protesta contro la linea alta velocità, in cui si è coscientemente saputo trasformare un problema in un’occasione per cambiare direzione del progresso, anche nel caso della cosiddetta “emergenza migranti”, la Valle di Susa sta lentamente rileggendo l’aspetto che si suppone essere negativo in un’ottica diversa, privilegiando il potenziale fattore di innovazione culturale e sociale che comporta l’ingresso di nuovi abitanti
PANEL 10
La difficile applicazione del concetto di agency alle esperienze dei rifugiati: tra mancato riconoscimento e aumento della vulnerabilità sociale
Proponenti: Michele Manocchi (Western University, London – Ontario, Canada), Emanuela Dal Zotto (Università di Pavia), Michele Rossi (CIAC onlus,
Università di Parma)
Il concetto di Agency (agentività) è sempre più presente nel dibattito sulle esperienze di richiedenti asilo e rifugiati. In sociologia questo termine è definibile come “l’abilità di attivare e usare regole e procedure organizzative e il grado di controllo che l’autore può esercitare su di esse” (Lanzara 1993). Inoltre, secondo Sewell (1992), l’agency è una qualità propria di ogni membro di una data società. Attraverso la loro agency, i cittadini possono modificare le loro relazioni con gli altri membri della stessa società al fine di raggiungere situazioni più soddisfacenti. Il tutto in un rapporto dialettico con gli altri, dove l’agency agisce non come una minaccia ma come un mezzo limitato, nel suo dispiegarsi, dall’agency degli altri soggetti.
Al fine di dare vita a relazioni che non siano coercitive ma anzi produttive, occorre che i soggetti in gioco si riconoscano vicendevolmente come membri a pieno titolo della società nella quale lo scambio avviene. In assenza di questo reciproco riconoscimento, le azioni dell’uno potrebbero risultare incomprensibili all’altro soggetto, il quale non le percepirebbe come azioni rivolte ad un cambiamento ma semplicemente come azioni prive di senso. Ciò che agiamo, ancor prima di essere posto in discussione, deve necessariamente essere riconosciuto come atto legittimo e comprensibile, in linea con le regole valoriali e sociali in vigore. Senza questo riconoscimento, i gesti dell’uno non verranno riconosciuti dall’altro, e dunque essi avranno effetti del tutto imprevedibili e potenzialmente lontani da ciò che l’uno sperava di ottenere dall’altro. Il significato di tali effetti – questo è il punto cruciale – non sarà condiviso né comunicabile, perché l’assenza di riconoscimento come membro legittimo della società e autorizzato ad agire in essa non permetterà all’uno di essere compreso dall’altro nei suoi tentativi di comunicare. Richiedenti asilo e rifugiati spesso non ricevono questo grado di riconoscimento sociale, e raramente sono legittimati come soggetti capaci di agire ‘sensatamente’ (cfr. Marchetti e Manocchi, 2016). In questo contesto, il significato di ‘riconoscimento’ perde i suoi punti di ancoraggio a quel background culturale che, pur nelle differenze interne ad una nazione, costituisce un terreno comune al quale rifarsi, spesso inconsciamente, per conferire senso a quanto ci accade. I bias culturali presenti in ambo le parti – società ricevente e rifugiati – conducono a risultati imprevedibili (cfr. Kirmayer, Lemelson and Barad, 2007; Kirmayer, Guzder and Rousseau, 2014) e altresì interessanti da indagare, nelle loro basi epistemologiche così come nelle loro conseguenze pratiche.
Ai processi di etichettamento conseguenti alla mancanza di riconoscimento, i rifugiati cercano di rispondere con azioni di vario genere: occupazioni di stabili, spostamenti all’interno dell’Europa in cerca di lavoro e sistemazioni, ricongiungimento di figli che poi vengono spediti, con falsi documenti, in altri paesi europei dove si suppone vi siano migliori chance di integrazione. Spesso, tali azioni vengono considerate come atti di agency. A giudizio del proponente di questo panel tali azioni, invece, riflettono solo le assenze e le aberranti
contraddizioni di sistemi di asilo che, sia ai livelli nazionali che a quello europeo, non sono in grado di mantenere le promesse di accoglienza e integrazione così spesso dichiarate.
Il panel intende indagare le riflessioni teoriche e pratiche su questo tema, elaborate da ricercatori così come da operatori sul campo, mettendo a confronto opinioni ed esperienze sui processi relazionali nei quali tali temi emergono. I contributi proposti possono:
illustrare e/o analizzare le dinamiche nelle quali l’assenza di riconoscimento si dispiega (o criticare questa posizione che assume l’assenza di riconoscimento);