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Ripensare l’integrazione, reinventarsi una comunità Esperienze di relazioni interculturali a Parma

Intervento di: Chiara Marchetti, Isabella Sommi, Nicoletta Allegri,CIAC onlus Parma Nel territorio di Parma e provincia

l’approccio dell’accoglienza integrata e diffusa – che si è incarnato sin dalle sue origini nel modello Sprar attraverso il quale CIAC onlus accoglie attualmente circa 150 richiedenti e titolari di protezione in seno a tre diversi progetti – ha rappresentato l’occasione per immaginare e mettere in pratica un sistema territoriale di asilo che permettesse una positiva sinergia tra la responsabilità delle istituzioni locali, la competenza e la creatività sociale del terzo settore e la partecipazione attiva dei rifugiati e delle comunità locali, tutti ingredienti ritenuti necessari per realizzare un’integrazione positiva e non unilaterale. Tale modello si è tuttavia dovuto confrontare con alcuni elementi almeno parzialmente nuovi che dal 2014 in avanti hanno stimolato un ripensamento dell’accoglienza e dei percorsi di autonomia dei richiedenti e titolari di protezione: l’aumento dei beneficiari complessivamente accolti in Cas e Sprar (a oggi la provincia ha una capienza di poco meno di 2000 posti); la perdurante crisi economica che rende più difficoltosi e lunghi i percorsi di inserimento lavorativo; la polarizzazione del dibattito pubblico sul tema dei rifugiati che si manifesta in molti casi in atti di aperta chiusura e ostilità sia da parte delle istituzioni locali che dei privati cittadini; la contestuale disintegrazione sociale delle comunità locali, che - pur non coincidendo temporalmente né da un punto di vista causale con la “crisi dei rifugiati” - facilita la canalizzazione del malessere e dell’atomizzazione sociale verso un facile capro espiatorio; non ultimo, la carenza di misure istituzionali per l’integrazione che, dopo lo sforzo quantitativo in termini di accoglienza dei richiedenti asilo, permettano di consolidare i percorsi avviati

e di prefigurare possibilità di stabilizzazione e radicamento, limitando il rischio di ricadute nella marginalità, nello sfruttamento, quando non nell’illegalità. In questo contesto l’analisi condotta da CIAC, sia attraverso l’osservazione quotidiana delle proprie pratiche che grazie a ricerche sul campo svolte nell’ambito di progetti europei e nazionali, ha permesso di individuare tanto nei rifugiati quanto nelle comunità locali i due “anelli” più trascurati – nonostante le premesse – dall’attuale sistema di accoglienza. Se a livello territoriale si sta sviluppando, non senza difficoltà e contraddizioni, un sistema di asilo territoriale in cui terzo settore e istituzioni trovavano nuove soluzioni e impegni reciproci (anche attraverso la formalizzazione di protocolli, convenzioni, ecc), i rifugiati rischiano di essere schiacciati da modelli di accoglienza che promuovono fortemente i loro diritti individuali e la loro possibilità di rivolgersi a servizi territoriali adeguati (pubblici e del privato sociale), ma che allo stesso tempo danno per scontato il loro rapporto con la comunità locale o addirittura si pongono come membrana protettiva dai rischi di un contatto che può risultare difficoltoso o conflittuale; d’altra parte la comunità locale ha poche o nulle occasioni di conoscere e confrontarsi nella quotidianità con le vite dei rifugiati che magari pure sono “vicini di casa” ma la cui presa in carico – non solo materiale ma anche relazionale ed emotiva – viene delegata ai professionisti (operatori dell’accoglienza, mediatori, servizi pubblici, ecc). Paradossalmente quindi, una volta abbattuti i muri fisici della segregazione e della separazione sociale, permangono molti muri invisibili che nel mutato contesto sociale rendono di fatto estremamente precari e incompleti i percorsi di

integrazione anche di coloro che hanno avuto l’opportunità di percorrere positivamente l’intera filiera territoriale dei servizi dedicati a questa particolare categoria di persone.

Per rimettere al centro la relazione tra rifugiati e comunità locale, senza tuttavia rinunciare al protagonismo e alla titolarità del terzo settore e delle istituzioni locali, si è tentato di immaginare diverse progettualità che favorissero da un lato l’istaurarsi di relazioni interculturali significative e d’altro lato la promozione dei percorsi di integrazione di quei rifugiati intenzionati a stabilirsi in Italia e nello specifico a Parma. In questa presentazione verranno brevemente illustrati e commentati tre diversi progetti che incarnano in forme differenti questa sfida politica e operativa. “Rifugiati in famiglia”, incardinato nello Sprar, prevede l’accoglienza di titolari di protezione all’interno di nuclei familiari del territorio di Parma per una durata di 6-9 mesi. Dal suo inizio nel febbraio del 2015 sono stati accolti circa 20 rifugiati, sia uomini che donne sole con bambini, delle più diverse provenienze. Rifugiati in famiglia si è confermato una preziosa occasione per abbattere quei muri invisibili a cui si è accennato, aprendo spazi reali di confronto e scambio interculturale: ritrovare una “casa”, legami caldi, qualcuno che si preoccupa se non torni la sera, persone con cui confrontarsi quotidianamente – fuori dai reciproci stereotipi – sulle possibilità di una reale convivenza interculturale, che si misuri con le diverse visioni dei ruoli di genere, con le pratiche religiose, con le abitudini che tutti – italiani e rifugiati – diamo per scontate: più ancora che un’opportunità per trovare “casa e lavoro”.

“Tandem” si realizza attraverso il co- housing e il co-networking di giovani rifugiati e giovani studenti/lavoratori italiani (attualmente 2 appartamenti) e si focalizza sulle potenziali affinità biografiche di ragazzi che pur con storie molto diverse

condividono tra l’altro la stessa prospettiva di precarietà. Una convivenza che parte da zero e rifonda un nucleo di comunità possibile, in cui condividere abitudini, gestione dello spazio e del tempo domestici, forme del rispetto reciproco, al di fuori delle regole non scritte che comunque condizionano nel bene e nel male l’inserimento di un rifugiato in un nucleo familiare già costituito, come avviene in Rifugiati in famiglia. Oltre a dare l’occasione vivere insieme, inoltre, andem offre la possibilità di sperimentare forme di sostegno e di condivisione intra- generazionale e si propone come nucleo di riflessione e pratica con possibili ricadute anche al di fuori delle singole convivenze, costituendo un “moltiplicatore” e un “esempio” che si può diffondere in particolare tra le giovani generazioni.

Il “tutor territoriale per l’integrazione”, ultima sperimentazione che ha preso avvio nei primi mesi del 2017, cerca di saldare l’uscita dai progetti di accoglienza con il contatto con la parte più “sana” della comunità locale, per limitare il rischio di una caduta nel vuoto alla fine dei percorsi di accoglienza. Associazioni, cooperative, parrocchie, gruppi di amici, comunità di stranieri altri contesti di socialità e di relazione si possono proporre per “adottare” il percorso di integrazione di un rifugiato. Una relazione significativa con una persona che viene così ricollocata in un contesto di supporto, affettività, cura che esca dall’ambito dei professionisti e degli operatori sociali e che ricrei piuttosto un legame sociale che si rivela cruciale per la tenuta dei percorsi. Essere accompagnati a vedere un appartamento da prendere in affitto, leggere insieme bollette e contratti di lavoro, poter fare le guide per prendere la patente, avere qualcuno che ti tiene in bambini mentre fai un corso o vai a lavorare: sono solo alcuni degli esempi di possibili declinazioni del tutor che – se affiancato anche a misure materiali per

favorire l’autonomia (a questo proposito è stato attivato un Fondo apposito) – si propone come reale alternativa alla retorica dei “lavori socialmente utili” dal momento che mette al centro non tanto un’idea distorta di “restituzione” ma la

significatività di un legame sociale, di un prendersi cura gli uni degli altri che ci sembrano i semi di una reale comunità interculturale non solo possibile ma anche auspicabile.

Progetto Vesta: accoglienza in famiglia per neomaggiorenni titolari di