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Intervento di: Gabriella Gaetani, Alisso onlus, Sassari Raramente coloro che richiedono asilo nel

nostro paese sono considerate persone capaci di intendere e volere, in grado di poter scegliere, persone normali che si trovano in condizioni straordinarie.

I richiedenti asilo vengono “spersonificati”. Non sono uomini, donne, giovani, bambini; sono delle entità astratte, senza anima, sentimenti, senza pensieri. La “spersonificazione” è strumentale a chi gestisce un sistema fallimentare in cui non vengono forniti gli strumenti per permettere alle persone di continuare la loro vita in modo dignitoso, ma risulta strumentale anche all’opinione pubblica, infatti, nel momento in cui si scoprono i volti, le storie, le realtà, ci si sente in dovere di “fare qualcosa” e “fare qualcosa” in questo ambito non è semplice neanche per chi lavora da anni sul campo.

Considerare le persone non persone, invece, permette di sentirsi meno colpevoli della propria inerzia e della propria mancanza di interesse complice di un sistema costantemente emergenziale non in grado di far sentire gli esseri umani uomini.

Durante la mia esperienza di volontaria, soprattutto negli ultimi anni in cui sono ritornata a Sassari, ho potuto vedere alcune delle conseguenze di questo modo di pensare.

La mancanza di riconoscimento ha conseguenze devastanti su persone che si trovano in condizione di vulnerabilità. La vulnerabilità e i connessi problemi legati alle sventure vissute emergono anche dopo mesi dall’arrivo in Italia ed è necessario tempo per riprendersi, ma ciò non vuol dire che nel frattempo le persone smettano di essere capaci di agire/reagire.

Invece, molto spesso, nei CAS, i giovani richiedenti asilo arrivano a non avere neanche un nome, il loro nome viene sostituito da un numero o dal numero della camera in cui si trovano a dormire. Perdono il senso del tempo, dello spazio, perdono la propria identità. Si trovano in un limbo per un tempo non definito, senza possibilità di essere seguiti in un percorso che consenta loro di superare i traumi subiti e che permetta loro di avere gli strumenti necessari per vivere in un paese completamente diverso dal proprio. Anche considerare il richiedente asilo come un corpo da assistere e da salvare provoca una mancanza di riconoscimento estremamente pericolosa. Infatti, ciò non permette alle persone di costruire gli strumenti necessari per poter vivere in modo autonomo e, invece, rende il richiedente asilo un eterno bambino di cui qualcun altro deve occuparsi in tutto e per tutto.

I richiedenti asilo rispondono a questa mancanza di riconoscimento attraverso piccole azioni, considerate strategie di agency, come, per esempio, la ricerca di un lavoro. Questi sono tentativi di ricostruire un senso del tempo e un’esistenza dopo il trauma della fuga.

Bisogna costruire un progetto che deve tenere conto della percezione del sé delle persone, andando oltre lo sguardo assistenziale e solidaristico in cui ci si dimentica che non si devono salvare corpi, ma dare strumenti. Il progetto deve contenere al suo interno un processo di integrazione, che non si risolve in una struttura, in un corso di italiano, in un’occasione di lavoro. E’ necessaria una rete di relazioni e quindi bisogna considerare i richiedenti asilo membri della società in cui si trovano. Solo così i richiedenti asilo possono evitare di rimanere ai margini del contesto sociale. In caso contrario la persona non verrà mai integrata e nemmeno vorrà integrarsi nel tessuto sociale.

Al fine di arrivare ad un’accoglienza e integrazione effettive e quindi considerare i richiedenti asilo persone con un nome, una storia, una famiglia, dei desideri così come chiunque altro, bisogna conoscersi, incontrarsi. La conoscenza sconfigge la paura che è invece frutto dell’ignoranza. Quando, infatti, si riesce ad incontrare queste entità considerate astratte e si ha l’occasione di capire chi sono, da dove vengono e comprendere il motivo per cui hanno dovuto lasciare il loro paese, si riconoscono le persone di nuovo come tali. L’incontro e l’inclusione nel tessuto sociale permettono ai richiedenti asilo di creare relazioni che contribuiscono alla creazione di un bagaglio di strumenti indispensabile per continuare la propria esistenza.

Questi sono i ragionamenti alla base di progetti che prevedono l’incontro e lo scambio culturale attuati a Sassari e che hanno avuto un riscontro positivo sia da

parte dei richiedenti asilo, sia da parte dei giovani italiani coinvolti. Da un lato i richiedenti asilo da “non-persone” sono “tornati” ad essere considerati giovani “normali”, dall’altro i richiedenti asilo hanno avuto l’occasione di essere riconosciuti, di avere un ruolo attivo, di conoscere i propri coetanei, di conoscere il territorio, di sentirsi parte della comunità. Alcuni dei giovani richiedenti asilo hanno deciso di non proseguire il proprio viaggio verso paesi terzi, ma di rimanere sul territorio perché hanno trovato un proprio posto nel tessuto sociale, anche senza magari avere ancora un lavoro.

I dubbi che ci si pone anche in un’approccio simile sono diversi. Il rischio di nuove etichette è costante, soprattutto se il rapporto che si instaura non è di supporto al fine di ottenere strumenti. Un elemento da tenere in considerazione quando si lavora con i richiedenti asilo è il tempo necessario a superare alcuni traumi che potrebbero notevolmente influire nel percorso di riappropriazione della propria autonomia. Il dubbio che come operatori ci si pone è se la persona che segue il percorso sia pienamente cosciente di tutto ciò che viene proposto e porta avanti. E’ necessario riconoscersi, entrambi - operatore e richiedente asilo - membri a pieno titolo della società in cui si trova.

Positivo è per un giovane, in generale, durante la propria crescita, essere parte di un gruppo, avere un ruolo al suo interno e avere una rete di relazioni stabile; gli effetti che si sono notati sono positivi per la maggior parte delle persone coinvolte nel progetto nella città di Sassari.

Un elemento che ha favorito una crescita condivisa di tutti i giovani (italiani e migranti) è, forse, dato dal fatto che il progetto era rivolto ai giovani in generale e si è data molta attenzione a un equilibrio tra i partecipanti coinvolti. Altro elemento importante è la libera scelta di partecipare al progetto data a tutti i partecipanti, che

hanno avuto modo di leggere progetto, scopi e partecipare ad un incontro iniziale in cui venivano spiegati gli obiettivi.

Spesso, invece, ai giovani in generale non viene spiegato il perché di un percorso formativo. Soprattutto alle persone richiedenti asilo non viene data l’opportunità di scegliere. Ci sono corsi, laboratori, attività a cui possono partecipare senza però verificare che siano le attività più adatte a loro o che interessino loro. Questo è uno dei motivi per cui nel corso del progetto si era lasciata l’opportunità di cambiare attività e argomenti da trattare e quindi si sono modificate alcune attività, seguendo le istruzioni dei partecipanti stessi che hanno dato la loro disponibilità a contribuire alla riuscita del progetto, mettendo in campo i loro saperi ed esperienze.

Il problema riscontrato è la mancanza di un sistema che preveda percorsi di crescita per i più giovani o percorsi, in generale, per le persone che vivono nel nostro Paese. I progetti sono affidati alle associazioni di volontariato e ai volontari. Questo porta degli ovvi rischi. All’interno delle associazioni ci sono persone che possono essere qualificate, conoscere la situazione in cui vanno ad operare come persone, che benché abbiano le migliori intenzioni, non sono in grado di rispondere alle necessità

delle persone che incontrano. Il rischio è che non venga fornito lo stesso percorso a tutte le persone che, invece, si trovano nella medesima situazione.

Il lavoro che le associazioni portano avanti è prezioso, ma non ci si può basare su questo. Dovrebbe esserci un sistema che funziona e le associazioni dovrebbero servire da supporto a tale sistema. Non il contrario. Quando si discute, inoltre, di questi temi sarebbe opportuno dare la possibilità ai diretti interessati di essere coinvolti nei processi sia di scambio di idee sia di buone pratiche. Invece, molto spesso, non viene data loro l’occasione di dare il contributo che invece sarebbe fondamentale. Ritengo sia necessario dover lavorare insieme al fine di creare un sistema realmente capace di rispondere alle reali necessità e offrire gli strumenti più adeguati.

Vorrei analizzare anche attraverso casi pratici gli effetti negativi che ha il mancato riconoscimento e poter discutere di come poter realizzare progetti che permettano il pieno riconoscimento dei richiedenti asilo come persone capaci di agire “sensatamente” e di come poter contribuire a creare un sistema che non si basi sul lavoro volontario (quando c’è), ma un sistema strutturato che riporti all’indipendenza delle persone coinvolte.

Soggetti allo spazio. Grammatiche strutturali e agency della resistenza