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Dinamiche di attivazione delle comunità locali nei processi di integrazione sociale dei rifugiati: il ruolo delle metafore generative e dell’innovazione sociale. Il caso di Padova e

del progetto “Protetto, rifugiato a casa mia” di Caritas Italiana Intervento di Marcello Feraco Università Ca’ Foscari Venezia Il seguente lavoro è frutto di una ricerca sul

campo svolta tra i mesi di febbraio e ottobre del 2016 presso la Caritas Diocesana di Padova con la quale ho collaborato come operatore volontario del progetto “Protetto, Rifugiato a casa mia” di Caritas Italiana. A partire dal metodo dello studio di caso la ricerca è stata condotta in prima battuta mediante la consultazione della bibliografia disponibile e il reperimento di materiali online, dati statistici, atti amministrativi, documenti di progetto. Fondamentale per

l’impostazione qualitativa della ricerca è stata però l’osservazione partecipante, a partire dalla quale ho potuto individuare i destinatari ed elaborare le tracce per 14 interviste in profondità con coordinatori di enti gestori, operatori dell’accoglienza, volontari, famiglie e beneficiari.

Riportiamo qui uno schema generale del progetto di ricerca, che riassume sia gli attori principali del sistema dell’accoglienza locale padovano, che quelli che interagiscono direttamente nello specifico del progetto

“Rifugiato a casa mia”:

La frontiera, cosi come è intesa nella ricerca, non è una linea di separazione, ma una liminalità abitabile, che in quanto tale non può che rimandare alle case: i luoghi fisici dell’accoglienza in famiglia. Qui i ruoli non sono predeterminati, ma vengono ridefiniti nella quotidianità e nella convivenza: il confronto, lo scontro, implicano la messa in

gioco di aspetti simbolici dell’identità, di caratteristiche della categoria sociale.

Questa dinamica di reciprocità - che diventa “politica” nella sua capacità di generare e coordinare risorse volte al bene comune della comunità locale - risalta anche nell’analisi delle mappature di rete dinamiche che abbiamo elaborato nel corso della nostra ricerca sul campo, e nelle quali il determinante della condivisione dello spazio fisico segna un confine decisivo tra l’accoglienza.

diffusa in appartamento e in famiglia. Figura 1 - schema generale del progetto di

ricerca

Nell’accoglienza in appartamento un’efficace azione di coinvolgimento degli attori locali può portarli ad attraversare la distanza che c’è tra loro e il beneficiario, difficilmente però assistiamo ad un movimento inverso: le reti costruite direttamente dal beneficiario non entrano in contatto con gli attori locali. Si ricade facilmente in un’ottica paternalista in cui il beneficiario è oggetto passivo dell’aiuto: è come se ci fosse uno spazio

neutro, attraversabile solo in una direzione che muove dai soggetti promotori dell’accoglienza verso il beneficiario. A partire dagli stessi operatori e volontari coinvolti nel progetto, che faticano a far rientrare nella logica dei loro interventi la progettualità reale del beneficiario, spesso legata a dinamiche di rete che rimangono “misteriose”. Questo perché l’atteggiamento passivo del beneficiario lo spinge a tenere nascoste le sue reti supportive nella speranza di avere maggiori aiuti.

D’altronde sono le stesse realtà “accoglienti” che difficilmente accettano di mettersi in

gioco. Se osserviamo la realtà parrocchiale, ci accorgiamo che questa fatica a coinvolgersi come “comunità”, tende piuttosto a destinare all’accoglienza delle risorse specifiche e ben delimitate. L’accoglienza si svolge pertanto come attività parallela alle altre attività parrocchiali.

È quindi un attraversamento

monodirezionale, ma anche temporaneo e allo stesso tempo estemporaneo. Non ne può nascere un coinvolgimento attivo, continuativo e strutturale del beneficiario nella realtà locale.

Figura 2 - Mappatura dinamica "accoglienza in appartamento"

Figura 3 - mappatura dinamica "accoglienza in famiglia" Al contrario, con la presenza della famiglia, il

contatto con la realtà del beneficiario non è discrezionale, ma inevitabile, necessario, in quanto egli va ad occupare uno spazio, quello familiare, che i vari attori territoriali già attraversano. Anche qualora si trattasse di realtà nuove per la famiglia, comunque la conoscenza del territorio, lo status e la credibilità che la famiglia ha, permette di creare più facilmente connessioni informali tra il beneficiario e tali realtà.

In secondo luogo l’ingresso nell’équipe di lavoro della famiglia, la quale ha più facilità nello sviluppare interconnessioni con le reti primarie del beneficiario, permette di integrare negli interventi a supporto del beneficiario problematiche e progettualità

connesse a quelle reti “etniche”, che altro non sono che una parte delle reti primarie del beneficiario, le quali altrimenti rimarrebbero “misteriose” agli occhi degli operatori. Di più, questa bi-direzionalità dà alle reti primarie (anche etniche) del beneficiario la possibilità di interagire attivamente con le realtà locali, andando a costituire, attorno al nucleo famiglia/beneficiario, una rete informale di prossimità. Un processo visibile nel coinvolgimento attivo non solo del vicinato, ma anche di organizzazioni, come quella parrocchiale, legate a luoghi con un grande valore di domiciliazione simbolica per la comunità locale.

Queste reti di famiglie accoglienti, realtà parrocchiali e associative, in parte

preesistenti, sono rigenerate e rese più dense e interdipendenti dall’interesse condiviso per la co-costruzione del progetto di autonomia dei beneficiari. Nel momento in cui tale progetto prende corpo dentro e in funzione delle reti primarie di prossimità (solo in parte etniche) che il beneficiario ha creato sul territorio, ecco che queste rigenerate energie locali diventano risorse di innovazione sociale per l’intera comunità locale, e non solo per i beneficiari dell’accoglienza.

Se ragioniamo a livello macro sul sistema di accoglienza italiano possiamo essere certi che non saranno le sperimentazioni di accoglienza in famiglia a risollevarne le sorti. Questo però non ci impedisce di considerare come, dall’analisi del sistema locale di accoglienza, fosse emersa come problematica principale la frammentazione a livello verticale e orizzontale nella gestione dell’accoglienza, soprattutto in assenza di una volontà politica di gestione del fenomeno e di coordinamento del sistema di accoglienza da parte delle amministrazioni locali.

E allora ci sentiamo di affermare che il risultato più significativo dell’analisi della rete nei progetti di accoglienza in famiglia sta proprio nell’individuazione di luoghi, tempi e modalità per sviluppare un rapporto di reciproca implicazione tra tutti gli attori sociali coinvolti, a diversi livelli, nell’accoglienza. Si è dimostrato come rifugiati, comunità locali, terzo settore e istituzioni possono essere attori di una progettualità negoziata e condivisa che emancipi la questione dell’accoglienza da una dimensione solidaristica, caritativa o rivendicativa, riconoscendole invece un ruolo generativo in termini di inclusione sociale e comunitaria e rendendola così parte integrante delle politiche di integrazione territoriale. 4

4 CIAC ONLUS. (2016). A chi tocca l’accoglienza.

Riflessioni a margine del progetto “Rifugiati in famiglia”. A chi tocca l’accoglienza. Riflessioni a

margine del progetto “Rifugiati in famiglia”. Parma.

Perché è qui, la frontiera dell’accoglienza: sulle righe di un affollato campetto da calcio, sulla portiera di un pulmino in partenza per un campo estivo, nelle persiane che nascondono gli sguardi fugaci al nuovo arrivato. È qui che si costruisce il senso e la concretezza di una civiltà dell’accoglienza. Ed è alle porte di queste case che vengono a bussare, ai signori del welfare, i “nuovi cittadini”.

Tratto da http://www.ciaconlus.org/a-chi-tocca- laccoglienza/

Ripensare l’integrazione, reinventarsi una comunità. Esperienze di relazioni