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LA DUALITÀ DEL SACRO

Nel documento Desiderare. Tra stanchezza e disagio. (pagine 183-193)

1. La modernità apre un processo di desacralizzazione del reale, un per- corso, guidato dalla pura ragione, associato all’idea di un movimento pro- gressivo, alla produzione e alla realizzazione di uno scopo, e, in tal senso, all’inseguimento di un limite, di ciò che sarà e che non è ancora. La post- modernità, con la secolarizzazione compiuta, matura il completo prosciu- gamento del limite. Il movimento processuale è incondizionato, senza al- cun limite di principio. Il limite si contrae in un puro limite di fatto, giacché l’altro, per la realtà tecnica e mercantile, è solo una variazione percepibile di ciò che è, è il tassello di una continuità che muta la salvezza in crescita e nullifica la storia.

Risacralizzare il reale è, allora, richiamare e ripetere una salvezza ultra-

mondana? È pensarsi in un arco teologico e smarrire ogni autonomia razio- nale?

La risacralizzazione non è il semplice rovescio o il consumo del laici- smo moderno. Per comprenderne la complessità è necessario interrogarsi sul senso stesso del sacro, richiamandone anche il carattere di elemento strutturale e non temporale della coscienza.1 Così come è necessario chie-

dersi a quale condizione possa riapparire la sacralità del reale e come, per- ché questo accada, del reale debba strapparsi la “maschera” della formaliz- zazione capitalistica, uno strappo associato alla ricerca del reale perduto.2

Il sacro non è una origine o una premessa, da cui si allontana, col tempo e con la storia, la lunga pista della modernizzazione. È, piuttosto, una con- dizione strutturale segnata dal bipolarismo dell’accettazione della norma e, insieme, del suo rifiuto. È il senso che Callois attribuisce alla coesistenza

1 M. Eliade, Il sacro e il profano, trad.it. di E.Fadini, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

2 Cfr. A. Badiou, Alla ricerca del reale perduto, trad.it. a cura di G.Tusa, Mimesis, Milano 2016.

di due nuclei opposti, alla convergenza e alla dissociazione di forze di co- esione e di forze di dissoluzione, che trovano significativamente espressio- ne nel sacro di rispetto e nel sacro di trasgressione.3 L’ambivalenza del sa-

cro dà luogo, con il sacro di rispetto, il sacro destro, alle prescrizioni che garantiscono la stabilità del sociale, e con il sacro di trasgressione, il sacro

sinistro, alla violazione delle leggi e al dispendio, al dissolvimento del vec-

chio ordine. Non c’è nulla, nell’universo, «che non sia suscettibile di for- mare un’opposizione bipartita e che dunque non possa simboleggiare le differenti manifestazioni accoppiate e antagonistiche del puro e dell’impu- ro»: la «mano destra è quella dello scettro, dell’autorità, del giuramento, della buona fede; la sinistra quella della frode e del tradimento».4

La duplicazione interna al sacro è, dunque, opposizione e coesistenza di un sacro di coesione e di un sacro di dissoluzione, di un sacro di regolazio- ne e di un sacro di infrazione, un regno ambivalente attivato, in particola- re, dalla festa o da una frenesia esaltante che interrompe la ripetizione quo- tidiana.5 Una rottura, quella della festa, che produce la duplicità del sacro,

ma anche la opposizione e la convergenza tra il sacro e il profano: con la festa il sacro raddoppia la duplicazione, duplica il suo essere doppio, per- ché immette nell’ordinario e nel profano la complessità propria, l’essere due del sacro. “L’economia, l’accumulazione, la misura, definiscono il rit- mo della vita profana; la prodigalità e l’eccesso quello della festa, del pe- riodo intermedio ed esaltante di vita sacra che la interrompe restituendole giovinezza e salute”:6 il tempo dello scatenamento, della fluidità e della

confusione irrompe nel tempo della regola e della normalità, attiva la crea- tività e l’eccezione. E quando “le forze dell’eccesso necessarie a rinvigori- re devono cedere il posto allo spirito di misura”, quando alla “frenesia su- bentra il lavoro; all’abuso il rispetto”, il “sacro di regolazione, quello degli interdetti, organizza e fa durare la creazione conquistata dal sacro di infrazione”.7

Il sacro è sempre, allora, un’ambivalenza o un passaggio, è lo spazio delle lente passerelle, diceva Heidegger. Le “passerelle” sono ponti che non sembrano ponti, si uniscono e si separano dalle sponde, fanno parte de- gli stessi luoghi tra cui stabiliscono un passaggio. “È quasi come se la pas-

3 R. Callois, L’uomo e il sacro, trad.it. a cura di U. M. Olivieri, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 53 e 89.

4 Ivi, p. 36-37. 5 Ivi, pp. 89 sgg. 6 Ivi, p. 112. 7 Ivi, p. 116.

serella fosse nata insieme all’acqua melmosa e alle canne, insieme a onta- ni e betulle, insieme al torrente e ai sassi”.8 Il passare, l’avvicinare, è

sempre anche un indugiare. Il sacro, nel passare, è un far avvenire la vici- nanza che conserva la lontananza. È l’apertura dei Quattro – la terra, il cie- lo, i divini e i mortali –, è il dischiudersi di una Quadratura che è, insieme, “reciproca appropriazione” e “semplicità del traspropriare”,9 appartenenza

reciproca e liberazione di ciascuno. Il sacro mostra, cioè, i suoi elementi in un’appropriazione traspropriante. L’uomo, nel discorso heideggeriano, non è padrone dell’ente, ma è “pastore dell’essere”, perviene alla verità dell’essere solo attraverso la “povertà” del pastore: l’uomo non assimila il reale, si fa solo custode di un’apertura per accedere alla dimensione del sa- cro, ma questa può rimaner “chiusa persino come dimensione, se l’apertu- ra dell’essere non è diradata”.10 Il sacro non è altro che il sorgere dell’Aper-

to, della Lichtung, della “radura” e, dunque, non appartiene alla dimensione di un dio ma solo alla “traccia degli Dei fuggiti”.11

Se il sacro non appartiene alla dimensione di un dio ma solo alla traccia della sua fuga, non a un principio ultramondano e potente ma alla moltipli- cazione degli eventi del mondo, è possibile ritenere che il sacro scompaia con la scomparsa del reale e che la risacralizzazione richieda, come sua condizione, la ricerca del reale se questo è perduto.

La forza del reale, il suo riapparire dallo smarrimento, richiama il pen- siero ed eccede i saperi.

Oggi il reale è affidato al sapere, in particolare al sapere economico. È l’economia che conosce il reale e conoscendolo ce lo impone: per questo il sapere economico si presenta «come il guardiano e il garante del reale».12

Quanto l’economia dice e prevede non ha mai fatto altro che confermare del reale un carattere intimidatorio, il suo imperativo di sottomissione. Il reale consegnato al sapere ha solo un potere di imposizione.

Ma la forza del reale, se sollecita oltre il sapere il pensare, può farsi an- che imperativo di emancipazione. Il reale si risacralizza se aggiunge all’in- timidazione e alla coazione la riapertura di uno spazio libero e indipenden-

8 M. Heidegger, L’inno Andenken di Holderlin, trad.it. di C. Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 1997, p. 108.

9 M. Heidegger, Saggi e discorsi, trad.it. a cura di G.Vattimo, Mursia, Milano 1976, p.119.

10 M. Heidegger, Lettera sull’”umanismo”, in Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 295, 303.

11 M. Heidegger, Sentieri interrotti, presentazione e traduzione di P. Chiodi, “La Nuova Italia” Editrice, Firenze 1968, p. 250.

te, se dà vita all’evento, allo smascheramento, allo strappo dannoso della maschera del capitale, ad un atto che giunge da «altrove», un altrove «dif- ficilmente situabile».13

La indecidibilità dell’evento è, certo, «strutturata dalla figura del mondo così com’è, vale a dire di un mondo sottomesso all’imperativo del reale come intimidazione».14 Ma per evento si intende anche e soprattutto una

rottura radicale con la situazione, una interruzione traumatica che fonda un nuovo evento e un nuovo soggetto.

La complessità del reale, sottratto al sapere e restituito al pensiero, pro- duce l’evento e fa divenire il soggetto, il cui «agire etico è il perseverare in ciò che eccede ogni perseveranza, il rimanere nell’interruzione radicale».15

È, dunque, solo «un punto fuori formalizzazione che dà accesso al reale. E ciò perché si tratta non di un calcolo interno alla formalizzazione, ma di

un atto che fa momentaneamente svanire la formalizzazione a vantaggio

del suo reale latente». L’accesso al reale nascosto «è sempre in procinto di distruggere una formalizzazione parziale, perché l’impossibile particolare e puntuale di questa formalizzazione si realizzi».16

Il reale conserva la complessità dell’essere sacro e risacralizzabile solo se è, insieme, reale determinato e reale nascosto, formalizzato e latente, ri- trovato e smarrito; solo se, oltre la maschera capitalistica o l’estremismo distruttore, lascia apparire quanto vi è di reale nel reale; solo se, oltre il lut- to della storicità progressiva, consente alla ragione di restare in vita come una sicura passione del reale.17

2. Il pensiero sottratto al sapere, il pensiero in atto, attivo e attuale, fa coincidere il “fuori” con il “contro”, quando attiva una “tensione di natura politica”.18 È un pensiero che pensa il politico nella sua “inevitabile dimen-

sione conflittuale”.19 È un pensiero che pensa il politico pensando la risor-

sa e, al tempo stesso, la fine del suo nucleo teologico, la vita e la morte del-

13 Ivi, p. 23. 14 Ivi, p. 12. 15 Ivi, p. 59. 16 Ivi, p. 30.

17 «E’ questo che ci serve» – conclude Badiou – «una ragione che elabori il lutto della storicità benigna, che rimanga tuttavia nella passione del reale, che cerchi di comprendere nella sperimentazione politica locale ciò che vi è di reale nel reale, e che si metta al riparo dall’estremismo distruttore» (ivi, p. 51).

18 R. Esposito, Da fuori, Einaudi, Torino 2016, pp.158-159. Sul senso del “fuori”, dell’alogon o dell’incommensurabile, si veda anche J.-L. Nancy, La dischiusura, trad. it. di R. Deval e A. Moscati, Edizioni Cronopio, Napoli 2007, p. 18. 19 Ivi, p. 170.

la teologia politica, che della secolarizzazione costituisce insieme l’espressione e il rovescio.20 La secolarizzazione ha, infatti, una “struttura

ancipite”, non è solo il dissolvimento, nella modernità, del nucleo teologi- co, ne è anche e soprattutto la “trasvalutazione”: “tutt’altro che contraddi- re il messaggio cristiano, essa ne costituisce parte integrante o addirittura il portato ultimo”.21 Solo i nuovi controlli dell’economia e della tecnica com-

pletano il consumo della teologia politica: il politico, oggi, non ha più alcu- na potenza identitaria, non è più la forza di una sovranità personale, ma è solo una dimensione al servizio del funzionamento di un sistema. L’aucto-

ritas è senza volto e senza responsabilità: il “Politico non può più avanza-

re alcuna ‘autorità’ che non si presenti al ‘servizio’ del funzionamento del sistema tecnico-economico”.22

Il consumo della teologia politica, in quanto dissociazione del comune dal singolare, della regola dall’eccezione, sembra essere, così, il tradimen- to del sacro. La sparizione del teologico coincide, infatti, con la cancella- zione di ogni potere altro e indicibile, di ogni forza di eccezione a fonda- mento della norma.

Risacralizzare il reale non vuol dire tanto riaffidarlo al teologico, quan- to piuttosto dissociarlo da esso. La risacralizzazione, riproponendo del sa- cro la dualità dinamica di forma e latenza, di determinato e indeterminato, esclude ogni riduzione e assimilazione al potere di un dio. La realtà sacra- le resta il consumo irreversibile della teologia politica: lo spazio politico è sacro perché privato di ogni apertura a una sovranità esterna che ne deter- mini le regole o che imponga le modalità di una pratica, è sacro perché si riappropria dell’eccezione e del dissenso solo all’interno delle sue condi- zioni e delle sue formalizzazioni determinate.

La norma, senza un sovrano che la emana e la impone, è, così, l’effetto di una produzione rituale, di schemi operativi riconosciuti e collaudati, che, in un certo senso, associano ragione e religione, metodi e riti. Il rito, come il metodo razionale, genera, infatti, una normatività forte.23

Il rito addomestica il sacro, è un culto che non premette dogmi e sovra- nità, è esso stesso produzione cultuale di energie normative, è espressione simbolica che precede i racconti mitici.24

20 Ivi, p. 185. 21 Ibidem.

22 M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013, p.122.

23 Cfr. J. Habermas, Verbalizzare il sacro, trad. it. di L. Ceppa, Laterza, Roma-Bari 2015, p.53.

Sicché la religione, assimilata alla pratica rituale, produce le regole del collettivo sottraendole all’espressione teologica o alla emissione di un capo. La forza della religione porta a compimento il consumo del teologi- co. È il senso che Walter Benjamin attribuisce al culto religioso, quando vede nel capitalismo una religione e non una teologia: «Nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’ap- pagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in pas- sato davano risposta le cosiddette religioni…il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nes- suna particolare dogmatica, nessuna teologia».25 Il capitalismo è una reli-

gione perché è assimilabile a una pratica rituale e non alla fede in una so- vranità personale.

La crisi della teologia politica, associata a una sacralità senza un capo, si apre, dunque, al potere della religione. La forza del religioso è, allora, l’af- fermazione di una religione senza Dio, di una fede atea, dell’ateismo di un culto senza trascendenza,26 dove il dio negato è il suo divenire-oggetto, è

l’essere soltanto un simbolo, un symballein o un legare,27 il tramite e il luo-

go mobile dell’incontro e del comune.

La religione senza Dio, l’ateismo religioso, è la cancellazione di un dio personale e al tempo stesso la produzione nel rito e attraverso il rito di una dimensione normativa. Diversamente dalla teologia la religione non rico- nosce una sovranità e non impone l’adorazione di un dio, ma risponde so- prattutto, con la ritualizzazione, al bisogno di un appagamento di inquietu- dini. Se, dunque, la teologia fonda un dominio monistico, la religione si addensa e si contrae nella esclusiva pratica rituale che, senza un fine ester- no e senza una dogmatica che rinvii a una sovranità, si fa solo garante del- la permanenza del culto. La religione è ritualità, non è adorazione di un dio, è solo pratica di un sistema di regole.

Il rito è una pratica comune, connessiva e inclusiva, e, al tempo stesso, aperta alla dispersione transistemica; è disciplinamento e, insieme, molti- plicazione; è coerente con il comuniale, ma anche con il pluralismo com- petitivo. Il rituale conserva la dualità dinamica di norma e di eccezione ed

25 W. Benjamin, Capitalismo come religione, in Aa.Vv., Il culto del capitale, a cura di D. Gentili, M. Ponzi e E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2014, p. 9.

26 R. Dworkin, Religione senza Dio, trad. it., presentazione di S. Veca, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 17 sgg.

27 M. Augé, Il dio oggetto, trad.it. a cura di N. Gasbarro, Mimesis, Milano 2016, p. 27.

è perciò, diversamente dal mitologico e dal teologico, l’ambivalenza del sacro.

La religione sembra mostrare un ritorno al sacro per il coinvolgimento nel rito della norma e della singolarizzazione. Ma è anche un culto che, spesso, si contrae nel ripetersi e nel permanere, e dunque aperto al rischio della rovina del sacro. Se la religione non è teologia, se non è adorazione di un dio ma riguarda solo pratiche processuali, essa è anche abituata e re- golata; può così contrarsi nel dare ordine, può divenire un ordine continuo e senza eccezioni, una forza processuale che tradisce l’ambivalenza sacra- le. La religione può farsi imposizione rituale della norma.

La religione regola l’elettricità del sacro, diceva Callois.28 In realtà,

spesso la consuma e la spegne. La regolazione continua, senza interruzio- ne, prosciuga, infatti, ogni energia sacrale.

Dunque, il rito continuo, irrigidito nei codici e nelle norme, esclude il sovrano e fonda il governo, legittima la governamentalità e le regole del buon vivere. La religione, disciplina e vincolo, diviene, così, solo ammini-

strazione del sacro.29

Per la buona amministrazione e il buon governo può esistere un sacro senza dei, ma mai un sacro senza sacerdoti,30 senza gli interpreti e i custo-

di, senza i guardiani delle discipline e dei vincoli: il saper governare, il buon governo, è la pratica di un sacerdozio, è difendere e controllare la co- erenza delle azioni alle regole imposte e adatte alla conservazione del cam- po amministrato. La buona amministrazione del sacro è, in realtà, il consu- marne la dinamica e l’eccedenza, per difendere regole certe e per garantire il dominio e la potenza del religioso.

L’amministrazione del sacro impone, così, un protettore, un patrono, un angelo custode, un guardiano, che non è mai una divinità ma è solo un og- getto totemico. È, cioè, come il totem arcaico, strumento di culto, mezzo ri- tuale, espressione simbolica assimilata al rito e produttiva del mito. Ammi- nistrare è un processo senza un capo e tuttavia adatto a legittimare un ordine, è garantire il funzionamento di regole per il mantenimento e la cre- scita di un processo.

28 «Tale appare il sacro… è il principio essenziale della vita e la sorgente di ogni efficacia, forza pronta a scaricarsi e difficilmente isolabile, sempre uguale a se stessa, pericolosa e insieme indispensabile. I riti servono a captarla, ad addomesticarla… la religione non è altro che la regolazione di questa elettricità onnipotente e invisibile» (R. Callois, L’uomo e il sacro, cit., p. 145).

29 Ivi, p. 14 (l’espressione è citata da Henri Hubert).

L’ordine del processo è sempre e solo la durata permanente del culto, è il suo prodursi non per la decisione o l’imposizione di una forza esterna, ma per il corso stesso delle cose in movimento. È la sovranità della cosa o il senso dell’oggetto a prevalere nell’amministrare. L’amministrazione è, infatti, l’esecuzione di un campo normativo già dato.

La religione come amministrazione del sacro, in realtà, lo consuma, perché è culto totalizzante o pratica impositiva di un processo ordinato. In questo senso il totalitarismo capitalistico è la religione del nostro tempo.

3. La mancanza del dio, l’ateismo religioso, la potenza del culto, la for- za esclusiva di un ordine processuale è l’imposizione del capitale. E’ l’”infamia” del tecno-capitalismo e il superamento dell’umano. L’accumu- lazione del capitale, accompagnata all’espansione tecnica indefinita, non è solo un processo senza dio ma è il superamento dell’uomo. “L’umanesimo sfocia nell’inumanità, questo potrebbe essere il riassunto spietato della situazione”.31

La dimensione inumana è la esclusione di ogni scopo, di ogni fine, di ogni meta dai processi. È il consumo di ogni finalizzazione nell’imposizio- ne seriale, nello scorrere del sempre uguale. È il prevalere, oltre la storia progressiva, dell’avvertimento, in ogni istante, del movimento, della velo- cità, del passaggio rapido, della fine improvvisa e della catastrofe. Nell’e- ra digitale, con la crisi della storia, la memoria si decompone in un presen- te continuo di punti indifferenziati. La memoria non è più una narrazione e un racconto, non ha un passato, ma “consiste di punti-di-presente indiffe- renziati, per così dire morti viventi”.32 E dunque “l’accelerazione totale av-

viene in un mondo nel quale tutto è diventato additivo”.33 Il tecno-capitali-

smo, in quanto forza esclusiva di un ordine processuale, consuma l’umano nella cancellazione di ogni salvezza a vantaggio della crescita.

La tecnica ha smarrito il rapporto mezzo-fine per essere solo fine a se stessa. Il fine è solo il movimento e così la tecnica si autoproduce e si ac- cumula, secondo un percorso indeterminato e indefinito. È pura crescita. La crescita, oltre la salvezza, è, così, il processo anonimo oltre la libertà dell’umano. In questo contesto l’infrazione non è mai la creazione, ma solo la variazione minima percepibile di un movimento accelerato di accumulo senza scopo.

31 J.-L. Nancy, La dischiusura, cit., pp. 31, 44.

32 B.- C. Han, Psicopolitica, trad. it. Nottetempo, Roma 2016, p. 80. 33 Ivi, p. 84.

Per poter vivere nel mondo e rafforzare l’umano la ragione e la religio- ne producono schemi operativi collaudati, rispettivamente metodi e riti. Per crisi della ragione e della religione si intende, perciò, il consumo, nel- la post-modernità, di sistemi collettivi e normativi, una crisi che apre alla disseminazione della potenza nella vita dei singoli (la “diaspora del sacro”)34, alla dispersione singolarizzante della forza e a una elettricità in-

controllata transistemica.

L’evento si apre alla forza e questa apertura è l’attivazione del sentire, la sua sollecitazione, in presenza della valorizzazione del singolare o della sua estetizzazione. Ma lo sviluppo tecno-economico del capitale, il suo di- venire produzione postindustriale e immateriale, elabora un controllo tota- le di questa singolarizzazione, per via di una seduzione e di una sorveglian- za che producono di fatto l’”uso” della libertà35 e la “dittatura

dell’emozione”.36

Il consumo della ritualità delle norme o di un processo ordinato è, dun-

Nel documento Desiderare. Tra stanchezza e disagio. (pagine 183-193)