Intorno a un anniversario freudiano
1. Nell’anno decisivo della grande guerra, il 1917, il periodico Interna-
tionale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse – che aveva continuato le
pubblicazioni con relativa regolarità conservando nel nome un riferimento internazionalista che alcuni dei suoi responsabili avrebbero ritenuto giusto eliminare1 – presentò un articolo di Freud destinato a influenzare enorme-
mente lungo tutto il secolo successivo il campo dei lavori psicoanalitici e psichiatrici, ma anche parte notevole degli studi antropologici, sociologici, estetici, filosofici variamente dedicati alle esperienze umane del lutto, del- la tristezza estrema, dell’afflizione. Parlo evidentemente di Trauer und Me-
lancholie, di cui Freud aveva ultimato una redazione quasi definitiva già
mesi prima, nel maggio 1915, nell’atto di tentare una sistematizzazione e un rilancio delle prospettive teoriche fino ad allora elaborate. Il saggio è in effetti l’ultimo della serie “aperta” dei cinque scritti che compongono Me-
tapsicologia, tutti elaborati nel corso della prima metà dello stesso anno. Lutto e melanconia è forse uno dei lavori brevi di Freud in cui più si
trovano messe a frutto le sue grandi doti di ispiratore, coordinatore, organizzatore di lavoro e idee altrui. Il contributo di colleghi e allievi, di sodali e amici – da Abraham a Ferenczi, fino a Tausk, a Landauer e allo stesso Binswanger – è ben percepibile in molti degli snodi argomentativi
1 Cfr. E. Jones, The life and Works of Sigmund Freud, Basic Books, 1953, 1955, 1957; trad it. Il Saggiatore, Milano, 2014, p. 445: «Ferenczi insisteva perché nel titolo della Zeitschrift si omettesse la parola “internazionale”, non più valida, ma io supplicai che questo non avvenisse […] Alla fine delle ostilità Freud poté dire con orgoglio che quello era l’unico periodico scientifico che aveva tenuto alta la bandiera internazionale malgrado l’odio che divideva le varie nazioni in quel pe- riodo». Dove ritenuto necessario, tutte le traduzioni italiane citate sono state modificate.
del testo2. Non senza ragione si potrebbe sostenere che l’articolo è il pro-
dotto di un vero e proprio sforzo collettivo, tanto vi si condensano una plu- ralità di scambi, un impegno collegiale, una collaborazione insistita, che Freud continuamente sollecita e anima, attingendo poi «senza esitazione»3
alla discussione teorica comune gli elementi concettuali e clinici per la co- struzione di una personale prospettiva sul problema.
D’altra parte è impossibile non pensare alla presenza, in questa concen- trata riflessione freudiana sul lutto e il sintomo melanconico, di un elemen- to di estrema urgenza attuale, anche considerata la rapidità – sicuramente notevole, persino per lo scrittore facondo che fu Freud – della stesura del lavoro, scritto nel giro di soli dodici giorni. Il contesto teso, doloroso della guerra globale di massa vi è insomma tutt’altro che estraneo, e così la con- sapevolezza del carattere dirompente di quanto stava accadendo4, accom-
pagnata dalla fortissima apprensione arrecata dalla partenza per il fronte dei figli Ernst e Martin5. Solo pochi mesi prima, inoltre, Freud aveva perso
il fratello Emmanuel, cui sin dall’infanzia si era sentito estremamente lega- to. Da circa un anno poi il cancro, pur non ancora diagnosticato con certez- za, aveva cominciato a palesarglisi come probabile.
Che sia in ragione della natura “collettiva” della riflessione di cui le pa- gine freudiane sono tributarie oppure del loro carattere di contravveleno in- tellettuale a quanto avveniva sulla scena del mondo, nelle relazioni affetti- ve fondamentali del loro autore e nel suo stesso corpo, Lutto e melanconia è un testo estremamente potente, fin nei suoi punti più problematici e nella sua enigmaticità, e la cogenza delle sue argomentazioni nodali appare so-
2 Su questo punto ha insistito efficacemente L. Laufier, «Préface» a S. Freud, Deu- il et mélancolie, Éditions Payot & Rivages, Paris 2011.
3 Vedi la lettera ad Abraham del 4 maggio 1915, data in cui Freud scrive di aver ter- minato la stesura di Lutto e melanconia: «Le Sue osservazioni sulla melanconia mi sono preziosissime. Vi ho attinto senza esitazione tutto ciò che mi è parso uti- le riportare nel mio saggio». Cfr. S. Freud – K. Abraham, Briefwechsel 1907- 1926, S. Fischer, Verlag Turia & Kant, Wien 2009, Band 2, p. 492.
4 A Lou Andreas-Salomé Freud aveva scritto poco prima: «non dubito che l’umani- tà sopravviverà anche a questa guerra, ma sono certo che né io né i miei contem- poranei vedremo più un mondo felice. Tutto è ributtante, e la cosa più triste è che tutto questo corrisponde esattamente al modo in cui, secondo le nostre previsioni psicanalitiche, avremmo dovuto immaginare l’uomo e il suo comportamento», lettera citata in: E. Jones, cit., p. 438.
5 Dopo un fugace incontro alla stazione con Martin, in divisa da caporale e in par- tenza per la Galizia, il 25 gennaio 1915 Freud scrive ad Abraham: «Lucidamente mi è venuto il dubbio: lo rivedremo, e come?». Cfr. S. Freud – K. Abraham, Briefwechsel, cit., p. 474.
stanzialmente intatta, così come la pertinenza dei numerosi interrogativi cui – apertamente e consapevolmente – non riesce a offrire risposte soddi- sfacenti.
La mossa teorica inaugurale che guida il saggio è ben nota: Freud e il suo entourage – è in particolare ad Abraham che egli è debitore su questo punto – propongono un confronto tra due fenomeni eterogenei, intendendo con tale accostamento ricavare lumi per la comprensione dell’enigma che entrambi rappresentano dal punto di vista psichico. Da una parte, l’espe- rienza generale del lutto, in quanto attitudine umana di risposta alla morte dell’altro amato, attitudine certificabile a tutte le latitudini e in ogni epoca (un’esperienza universale, dunque, sulla quale Freud aveva già ragionato nel 1912 in Totem e tabù)6. Dall’altra di qualcosa di molto più specifico,
l’affezione mentale della melanconia, termine assunto nel suo significato strettamente psicopatologico, psichiatrico, prescindendo dunque dall’inte- ra tradizione greca antica, medievale e moderna relativa alla sindrome atra- biliare, oltre che da qualsiasi riferimento al campo della filosofia, della teo- logia, dell’arte o della mitologia. La peculiarità dello studio sta così in qualcosa di cui non sempre ci si è sorpresi quanto sarebbe stato giusto fare. Per chiarire uno specifico sintomo, altamente problematico da ogni punto di vista (topico, economico, dinamico) – e già croce di alienisti e psichiatri del calibro di Pinel, Esquirol, Falret, Cotard, Griesinger o lo stesso Kraepe- lin7 –, viene chiamata a comparire una certa generale modalità affettiva di
reazione alla morte e al morto, modalità che, di età in età, di civiltà in civil- tà, è stata non solo considerata del tutto “normale”, ma anche significativa- mente codificata, ritualizzata, condivisa socialmente.
Meglio rievocare brevemente la logica generale che innerva l’argomen- tazione. Il lutto è definito come la modalità con cui gli uomini rispondono «invariabilmente» (regelmäßig) alla perdita di qualcosa che aveva rappre- sentato un elemento di unificazione e totalizzazione del loro universo libi- dico. Esso è cioè descritto come la posizione assunta dal soggetto di fronte alla scomparsa di qualcosa che per lui è stato tutto, il suo tutto, il suo “og- getto totale”. Gli esempi di Freud sono indicativi: non solo, naturalmente, la perdita della «persona amata», ma anche quella «di un’astrazione che ne
6 S. Freud, Totem und Tabu. Über einige Übereinstimmungen im Seelenleben der Wilden und der Neurotiker, Helle, 1913; trad. it. Totem e tabù. Alcune concordan- ze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, in Opere di Sigmund Freud, Edi- tore Boringhieri, Torino 1975, vol. VII, pp. 59-73.
7 Cfr. in proposito la sintesi proposta da O. Douville, «Genèse et présentation», in S. Freud, Deuil et mélancolie, Éditions in Press, Paris 2016, pp. 29-51.
ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via».8
Il lutto è insomma la reazione al dileguarsi della stella polare della vita di qualcuno. Reazione orientata a condurre a un effettivo riconoscimento di tale perdita, a un ritrarsi della libido dall’oggetto e dunque alla possibilità di nuovi investimenti. Con il Trauer, secondo Freud, avviene infatti che, tra il momento della perdita e quello in cui l’Io è in grado di accettarla, «l’esi- stenza dell’oggetto perduto viene psichicamente prolungata»9. Ciò acca-
drebbe grazie a qualcosa come una mimesi, da parte del soggetto, con l’og- getto perduto, ovvero grazie a una «identificazione» (Identifizierung) inconscia con la “cosa totale” scomparsa. Non riuscendo ancora a disto- gliere da essa i propri investimenti, l’Io non giunge in alcun modo a stac- care da quanto è scomparso le proprie reminiscenze e le proprie attese. Egli resta fedele all’oggetto e declina tale fedeltà sforzandosi, sulla scena incon- scia, di mantenerlo in vita, imitandolo proprio in quanto perduto, “facendo il morto”, si potrebbe dire. Eviterà così i più minuti piaceri della vita, si ini- birà ogni tipo di attività, sprezzerà l’esistenza. Anche se vivo, la persona in lutto è come morta: in questo modo è il morto, ciò che è stato perduto, l’“oggetto totale” svanito, ad essere preservato dalla sparizione e dall’o- blio, continuando a vivere, per tutto il tempo necessario all’effettiva am- missione della perdita, negli atti, nelle parole, nel corpo del soggetto, intro- iettato e custodito in una sorta di cripta interiore che questi porta penosamente in ciò che fa, dice ed è. Ora, uno degli aspetti più considere- voli nell’economia di queste pagine è che in esse Freud rileva che questa fase del lutto è riscontrabile, con altra accentuazione – e ben altri esiti – an- che nella reazione melanconica alla perdita. Una reazione che, al contrario di quanto accade con il lutto, non conduce in alcun modo il soggetto ad af- francarsi dalla cosa perduta. Con la melanconia il triste prolungamento psi- chico dell’esistenza della “cosa totale” grazie alla sua incorporazione non conosce più termine e vota il soggetto a un differimento del riconoscimen- to della perdita per un tempo indefinito, durante il quale l’Io viene come sopraffatto dall’oggetto, impoverendosi e svuotandosi, fino a percepirsi come uno scarto, una rovina, un residuo insignificante. L’«ombra (Schat-
ten) dell’oggetto» – è la celebre (ed enigmatica) clausola adottata da Freud
– cade sull’Io.10
8 S. Freud, «Trauer und Melancholie», Internationale Zeitschrift für Psychoa- nalyse, 4 (6), 1917; trad. it. Opere di Sigmund Freud, cit., vol. VIII, pp. 102-103. 9 Ivi, p. 104.
10 Ivi, p. 108. «L’ombra [Der Schatten] dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti poté esser giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisa-
Come poi numerosi commentatori del testo (soprattutto di area francese) regolarmente osserveranno11, dal discorso di Freud risulta così che il sinto-
mo melanconico (di cui lo studio, non senza esitazioni e grandi difficoltà, tenta d’identificare le condizioni specifiche: oltre alla “perdita”, il caratte- re “narcisistico” della scelta oggettuale e l’“ambivalenza” emotiva attiva in tale scelta) non è semplicemente un altro tipo, patologico, di reazione al ve- nir meno dell’oggetto, ma anche un tratto essenziale del lutto abituale, ge- nerico – una stazione della sua dinamica – e ciò al punto da renderlo in qualche modo misterioso nella sua stessa normalità. In definitiva, dal pun- to di vita metapsicologico, il lutto appare essere in effetti più l’eccezione che la regola. Non per niente più volte Freud è costretto ad ammettere di non riuscire a spiegare in modo esauriente i processi che condurrebbero dalla scorata identificazione con l’oggetto perduto allo scioglimento del le- game con esso e alla possibilità di rivolgersi verso nuovi oggetti.12 Nel te-
sto, «lavoro del lutto» e «lavoro della melanconia» risultano sì differenzia- ti, ma al contempo anche caratterizzati da dinamiche inconsce stranamente sovrapponibili, al punto che la discordanza dei loro esiti non giunge ad es- sere pienamente spiegata.
Si è detto che in nessun luogo Freud fa leva sulla memoria culturale, particolarmente filosofica, che intorno alla melanconia aveva proposto ri- flessioni del più vario tipo. Né lo pseudo-Aristotele del Problema XXX, né le considerazioni dei Padri della Chiesa sulla tristitia o l’acedia, né le sug- gestioni offerte dal neoplatonismo rinascimentale, né le analisi kantiane precritiche e critiche, né le elaborazioni dell’idealismo o del post-ideali- smo tedesco fino a Nietzsche sono in effetti convocate – fosse pure allusi- vamente – per affrontare qualcosa che pure in tutti questi luoghi del corpus
mente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata in un dissidio fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione». Vale ricor- dare che Lacan potrà definire la melanconia come un vero e proprio «trionfo dell’oggetto»: cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre X. L’angoisse, Seuil, Paris, 2004; trad. it. Einaudi, Torino 2007, p. 367.
11 Si possono qui ricordare, ma evidentemente solo a titolo di esempio, i lavori clas- sici di M. Torok, «Maladie du deuil et fantasme du cadavre exquis», Revue de psy- chanalyse, n. 4, 1968; P. Fedida, «Le cannibal mélancolique», Nouvelle Revue de psychanalyse, n. 6, 1972 (poi in ID., L’absence, Paris, 1978). Si vedano inoltre i più recenti M. Czermack, «L’oralité melancolique», in Le trimestre psychanalyti- que, 1, 1990; J. Allouch, Érotique du deuil au temps de la mort sèche, EPEL, Pa- ris, 1997; C. Soler, «Perte et faute dans la mélancholie», in Aa. Vv., Des mélanco- lies, Éditions du Champ lacanien, Paris 2001.
filosofico non aveva mai cessato di costituire un privilegiato oggetto d’in- terrogazione. Le singolari complessità e ambiguità dell’affettività melan- conica, tradizionalmente considerate foriere di possibilità letteralmente op- poste – torpore o genialità, vizio mortale o acuto senso morale, estrema creatività o inaridimento intellettuale, esaltazione fanatica o chiara consa- pevolezza di sé e dei propri limiti – hanno rappresentato, lo sappiamo sem- pre meglio, un sorta di sfida permanente per il pensiero filosofico.
Non sono mancati studiosi le cui analisi testuali hanno portato a rileva- re come, nel quadro di un sistema lessicale privo di relazioni esplicite con i campi di definizione precedenti, la descrizione e l’eziologia freudiane della melanconia non siano così imparagonabili alle considerazioni presen- ti nel quadro della fenomenologia temperamentale, della psicologia patri- stica o della tradizione rinascimentale, primo-moderna e moderna.13 Resta
però il fatto che nel suo testo Freud, le cui nozioni di “perdita d’oggetto”, “ambivalenza”, “narcisismo” avrebbero facilmente potuto trovare puntelli nelle elaborazioni concettuali che presiedono all’apparizione della melan- conia nel campo del discorso filosofico, ritiene senz’altro di dover rinun- ciare a un simile sostegno e di votarsi a una considerazione del fenomeno che riduce al minimo lo spazio di presupposti non corroborati da evidenze cliniche. Non è impossibile che proprio questa scelta di delimitazione del campo di discussione, l’azzeramento o la sospensione della pressione auto- ritativa della tradizione, siano tra i motivi della grande influenza esercitata dallo studio, forse uno dei segreti della sua forza persistente. Testo inscrit- to in una tradizione di pensiero plurisecolare, a cui però il suo autore deci- de di non domandare alcun salvacondotto – da cui decide di rinunciare ad autorizzarsi – Lutto e melanconia pare costituire una sorta di nuovo inizio, o quanto meno un sostanzioso rilancio, su basi differenti, del corpo a cor- po del pensiero con la realtà sintomale melanconica.
Si può dire però che le pagine freudiane hanno contribuito a modificare notevolmente il modo in cui il pensiero filosofico si è poi rivolto alla que- stione della melanconia, e abbiano consentito sviluppi teorici di grande ri- lievo. Se il saggio del 1917 è rimasto essenziale per l’ambito psicoanaliti- co – tanto più che per lo stesso Freud (e poi per Klein e Lacan) è risultato
13 Cfr. per esempio J. Starobinski, «Le rire de Democrite. Mélancolie et réflexion», Bulletin de la société française de philosophie, CXXXIII, 1, janvier 1989, pp. 5-20; J. Kristeva, Soleil noir. Dépression et melancolie, Paris, 1988; trad. it. Fel- trinelli 1988; R. Forthomme, De l’acédie monastique à l’anxio-dépression, Synthélabo, Paris 2000; M.-C. Lambotte, Le discours mélancolique. De la phéno- menologie à la métapsychologie, Anthropos, Paris 2003.
foriero di aperture teoriche decisive, a cominciare da quelle relative all’i- dentificazione, all’istanza superegoica, allo statuto dell’oggettualità – e se esso è ancora rilevante in ambito psichiatrico e psicologico (malgrado la categoria di melanconia sia stata espunta dalle descrizioni del Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali, a favore di nozioni come de-
pressività, depressione maggiore o disturbo bipolare)14, l’argomentazione
che Freud ha proposto va considerata decisiva anche per la complessiva ri- formulazione delle modalità di considerazione della figura del melanconi- co che la filosofia contemporanea ha elaborato.
2. Due sono gli autori a cui vorrei riferirmi – a grandi linee e a titolo di esempio – per indicare alcuni elementi nucleari di questa rimodulazione della riflessione filosofica sulla melanconia che il lavoro freudiano, diret- tamente o indirettamente, ha stimolato. Da un lato Walter Benjamin, con la sua attenzione al tema dello “sprofondamento” melanconico e la sua pro- posta di “neutralizzazione” del negativo. Dall’altro Maurice Blanchot e la sua riflessione sull’’“esperienza-limite” e la “morte d’altri”, nel ruolo che ricoprono nell’economia complessiva della soggettività. Si tratta, sia detto
en passant, dei due pensatori contemporanei, tra i moltissimi in cui si rin-
vengono riferimenti alla patologia melanconica, che più hanno evitato la tentazione di valorizzarla attraverso la relativizzazione – o l’idealizzazione – della sua terribile realtà vissuta (nel Novecento un esempio quasi proto- tipico di un simile gesto filosofico, assai comune, è ben riconoscibile nello Heidegger di Essere e tempo o di Concetti fondamentali della metafisica)15.
Moltissimo si è scritto sulle modalità con cui melanconia e lutto appaio- no nel corpus benjaminiano. L’opportunità, poi, di riferirsi al saggio me- tapsicologico per cogliere il senso di tali modalità è stata sovente segnala- ta. Non sono pochi in effetti gli indizi che permettono di ritenere che, più delle ricerche di Panofsky e Saxl, sia il discorso freudiano sulla realtà del- la melanconia, quello che illumina con una luce più viva il pensiero di Benjamin».16 In consonanza con la logica, più che con la lettera, del testo 14 A proposito di questa espunzione si vedano le iportanti osservazioni di J. J. Tyszler, «Dépressivité», La clinique lacanienne, n. 17, 2010/1 (n° 17), pp. 159- 166.
15 Sul punto rinvio al mio «Limite ed Ereignis. Dentro la “svolta”: Schwermut», in C. Colangelo, Limite e melanconia, Loffredo, Napoli 1998, pp. 128-164. 16 B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Guida, Napoli, 1984,
p. 409. Sul punto – e in generale sul rapporto tra Benjamin e la psicoanalisi – uti- li considerazioni si leggono in: R. Nägele, Theater, Theory, Speculation: Walter Benjamin and the Scenes of Modernity, Johns Hopkins University Press, Baltimo-
freudiano, nel lavoro sul dramma barocco (scritto nel 1926 ed edito nel 1929) una effettiva distinzione tra “lutto” e melanconia” risulta tutto som- mato assente (quando non intercambiabili, i due termini appaiono forte- mente contigui). E si può dire che le questioni della “perdita”, della “fedel- tà all’oggetto” e di un “lavoro” luttuoso, anche rese con diverso lessico, siano ampiamente presenti. Benjamin si concentra sia sull’esperienza del- lo “svuotamento del mondo” che su quella dell’attaccamento alle cose pe- riture – all’oggetto creaturale – insistendo poi sulla dinamica di uno speci- fico lavoro di “approfondimento”.
Nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels la disperazione irrimediabi- le, l’immersione nella desolazione, l’indugio presso le cose morte che ca- ratterizzano il melanconico sono il portato di una sorta di lavoro del nega- tivo inasprito all’inverosimile, privo di sintesi e sprovvisto di qualsiasi possibile impiego o esito. Si tratta di un lavoro di nientificazione così deci- so da coinvolgere non solo l’oggetto, ma la soggettività stessa. Questa ri- sulta scavata, impoverita, svilita. Il melanconico nega in sé l’oggetto mor- to che lo ha invaso, che ha “trionfato” su di lui assimilandolo a sé. L’intensità della fedeltà melanconica alle cose perdute, il tenace preservar- le presso di sé, le assume nella loro essenza di rovine, di resti. L’annichili- mento di ogni essere e della stessa soggettività – proprio in quanto questa resta fedele a oggetti essenzialmente precari, umbratili, già sempre afferra- ti dalla morte – si spinge al punto che non resta più nulla da negare. Quel- lo del melanconico è un indefinito precipitare, un restare fuso alla “cosa” proprio in quanto perduta e priva di senso. La sua è una sistematica lacera- zione di qualsiasi velo immaginario abbia potuto avvolgere l’oggetto – un’oggetto che, invadendo allora esperienza e intenzione soggettive, da un