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L’OPERA D’ARTE COME TOUR DE FORCE NEL PENSIERO DI ADORNO

Nel documento Desiderare. Tra stanchezza e disagio. (pagine 151-167)

In musica ogni particolare è ambiguo, sibillino, mitico – e il tutto è chiaro. Th. W. Adorno

L’in-finita crisi dell’umano

Il problema che ogni opera d’arte autentica deve affrontare – scrive Adorno in una pagina della sua Teoria estetica1 – è quello del suo comin-

ciamento, del suo “inizio”, ma è anche, simmetricamente, quello del suo compimento, della sua chiusura formale.

E tale problema ripete, da sempre, quello dello spirito. Quand’è, e come, dalla “natura” sorge lo spirito e dove (e come) una tale emersione giunge a

compimento?

Queste domande adorniane non sono astrattamente teoriche ma tentano di corrispondere a quella Krisis degli “ordini simbolici”2 che ha inizio tra 1 Th. W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, To-

rino 2009, p. 137.

2 Cfr. il classico saggio di M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976; cfr. anche i grandi testi filosofici della crisi della filosofia europea: E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it. di E. Filippini, Il Saggiatore Net, Milano 2002; M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’evento), trad. it. di A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007; L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. di R Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995. Per uno sguardo

la fine Ottocento e i primi decenni del Novecento e con cui, come è noto, pensatori (non a caso) “epocali” quali Husserl, Heidegger e Wittgenstein si sono confrontati, seguendo differenti strade, fino all’aporia.

Accanto ad essi è necessario porre i pensatori della prima scuola di Fran- coforte (e, in particolare, Adorno) che, tra gli anni Quaranta e gli anni Ses- santa dello scorso secolo, facendo reagire con la teoria filosofica anche gli apporti – in parte dichiaratamente anti-filosofici – della psicoanalisi freu- diana, del pensiero marxiano e dell’etno-antropologia, sono stati in grado di affrontare quella Krisis con una strumentazione teorico-critica forse meno “pura” dal punto di vista della filosofia accademica ma senz’altro più complessa ed efficace.

Le domande che Adorno rivolge all’opera d’arte sono quindi, per così dire, “epocali”, perché corrispondono – così come avevano compreso, cia- scuno a suo modo, Husserl, Heidegger e Wittgenstein – ad una crisi ormai “radicalizzata”, sia perché segnata da manifestazioni sempre più “estreme” di scissione, disagio, violenza, sia perché caratterizzata dall’emergere di

radici che sembrerebbero avere a che fare con la civilizzazione occidentale

nel suo complesso.

Sotto molti aspetti l’epoca in cui i francofortesi operavano, quella della seconda guerra mondiale, non è più la nostra; sotto altri aspetti è stata un’e- poca, quella del primo capitalismo consumista, che può essere considerata solo un prodromo semplificato di quella in cui viviamo; in base ad altre ca- ratteristiche, in particolare quelle tecnologiche, è stata un’epoca superata dalla cesura imposta dalla rivoluzione informatica, che, invece, sottende – accanto all’ingegneria biologica3 – la nostra contemporaneità. Nonostante

le notevoli differenze, l’epoca storica vissuta da Adorno ha tuttavia un trat- to che la rende simile alla nostra. Come allora, con la guerra mondiale e il nazismo, così oggi con il terrorismo internazionale, un evento storico “ra- dicale” (nel senso della sua “estrema” violenza) sembra portare alla luce le radici della nostra civilizzazione profonda, se non il fenomeno umano in quanto tale.

contemporaneo sulle radici della crisi novecentesca europea cfr. ora utilmente P. Sloterdijk, Sfere III. Schiume, trad. it. di G. Bonaiuti e S. Rodeschini, Raffello Cortina Editore, Milano 2015; e Id., Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, trad. it. di S. Franchini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.

3 Cfr. M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

Nonostante che una certa vulgata interpretativa lo leghi per alcuni tratti al pensiero ou-topistico, Adorno è un pensatore sostanzialmente tragico. In quanto tale sa bene che né l’ottimismo utopico né il pessimismo distopico sono in grado di pensare ciò che potremmo definire il “luogo” dello spiri-

to. Mentre l’utopista lo ritiene raggiunto o comunque raggiungibile, il di-

stopista lo ritiene una semplice illusione consolatoria. Entrambi però sfug- gono al problema stesso, potremmo dire, ritenendolo o già risolto oppure irrisolvibile. Il pensatore tragico, invece, è consapevole che il fenomeno umano in quanto tale ha a che fare con un’impossibilità, ma non nel senso che è impossibile che un tale luogo – pensato però come luogo dello spiri-

to – si dia, ma nel senso che esso può darsi solo come impossibile, nelle

modalità dell’impossibilità; esso può essere solo ripetendo in-finitamente la sua stessa crisi.

Ma è solo nell’opera d’arte (riuscita) che questa impossibile possibilità del fenomeno umano, in quanto possibilità dello spirito, si manifesta, se- condo Adorno, nella sua radicale problematicità. È per tale ragione che egli, in un paragrafo assolutamente centrale della sua Teoria estetica, carat- terizza l’opera d’arte “riuscita” come tour de force.

Quando si interpretano opere d’arte mettendovi in luce il tour de force, oc- corre trovare il punto di indifferenza in cui si annida la possibilità dell’impos- sibile4 – egli, infatti, scrive.

Tour de force e apparenza

Quando nelle opere d’arte si mette in luce il tour de force, vale a dire il luogo in cui si annida la possibilità dell’impossibile, ecco che in esse qual- cosa finge di non essere quel che è, vale a dire semplice virtuosismo. Quan- do ciò accade l’opera appare ciò che non è in verità. Ma, secondo la carat- teristica dialettica degli estremi (senza sintesi) che Adorno mette in campo, vale anche il contrario: solo come “apparenza” la verità dell’opera d’arte può sottrarsi all’ideologia del far credere “realizzata” la compiuta spiritua-

lizzazione dell’umano.

[…] Opere concepite come tour de force sono apparenza, perché devono comportarsi essenzialmente come ciò che essenzialmente non possono essere; esse si correggono mettendo in rilievo la propria impossibilità: questa è la le-

gittimazione dell’elemento virtuosistico nell’arte che viene vietato da un’ottu- sa estetica dell’interiorità5.

Nell’opera d’arte riuscita la forma, la costruzione formale, dà a vedere, fa apparire qualcosa che letteralmente, e in verità, non è. È questo il suo

sforzo, è questo il suo tour de force.

Adorno gioca molto sulla nozione di apparenza (Schein) che, a seconda dei contesti, e spesso anche nello stesso giro di frase, come abbiamo appe- na visto, assume differenti significati. C’è un significato, per così dire “neutro”, secondo il quale Schein indica la forma dell’opera, nel senso del suo apparire aisthetico. C’è poi un altro significato del termine, che è quel- lo per cui apparenza significa inganno, illusione ingannevole, al limite ide- ologia. È ciò che rende l’arte simile al mondo così com’è e, nello specifi- co, al mondo della réclame, al mondo fantasmagorico delle merci6. C’è

infine un suo ultimo significato: si tratta dell’apparenza in quanto manife- stazione dell’essenza. In questo caso lo Schein è una Erscheinung, è appun- to una manifestazione dell’essenza. L’opposizione Schein – Erscheinung sembrerebbe una perfetta ripresa della logica di Hegel. Ma non è così, per- ché mentre per Hegel l’arte è manifestazione sensibile dell’essenza-Idea, vale a dire è manifestazione sensibile di qualcosa di reale, per Adorno l’es- senza semplicemente (e paradossalmente) non-è, non è (ancora) reale. Ed è questo che complica le cose, rendendo non solo ambivalente l’apparire dell’opera d’arte ma paradossalmente impossibili i suoi stessi comincia-

mento e compimento. Come e perché si dà inizio all’opera? Quando e per-

ché l’opera appare compiuta? Ciò che appare nell’opera manifestazione (Erscheinung) del suo “contenuto di verità” (Wahrheitsgehalt) è, quindi, sempre, paradossalmente, Schein, vale a dire apparenza di un mondo cui esse stesse danno solo fittizia esistenza. Insomma, le opere d’arte autenti- che sono Schein e Erscheinung nello stesso momento:

Le opere d’arte sono apparenza [Schein] perché procurano a ciò che esse stesse non possono essere una specie di esistenza seconda, modificata; sono manifestazione [Erscheinung] poiché quel non-essente in loro, per il quale esi- stono, giunge a un’esistenza, per quanto frammentaria, grazie alla realizzazio- ne estetica […] L’essenza che si trasforma nella manifestazione e la conia [prägt], sempre anche la frantuma [sprengt sie stets auch]7

5 Ibidem.

6 Cfr. W. Benjamin, I “passages” di Parigi, ed. it. a cura di E. Ganni, 2 voll., Einaudi, Torino 2000-2002.

Quindi l’opera d’arte autentica, in quanto tour de force, deve necessaria- mente frantumarsi, deve necessariamente entrare in dissidio con se mede- sima. Il fare artistico appare come un fare impossibile, come un fare ciò che non potrebbe mai essere fatto né detto:

Tutto il fare dell’arte – scrive Adorno – è un unico sforzo per dire ciò che il risultato stesso del fare non sarebbe e ciò che essa non sa: proprio questo è il suo spirito8.

In ciascuna opera d’arte riuscita9 si ripete, ogni volta, il tentativo dell’u-

mano di creare un mondo dello spirito, in quanto mondo della libertà. Usando un’altra terminologia, potremmo dire che in ciascuna opera d’arte si ripeta il tentativo del simbolo di fare i conti con il suo essere sintomo10;

si ripete il tentativo di sublimare la natura – che per Adorno e Horkheimer è mito, vale a dire cieco dominio, regno della necessità e della pura e sem- plice lotta per la sopravvivenza – in uno spirito in grado di prenderla in ca- rico senza reprimerla. È questo il vero tratto ou-topico del pensiero ador- niano. Ma si tratta di un tratto ou-topico segnato sempre da profonda tristezza. Si tratta della tristezza che le opere d’arte “riuscite”, a suo dire, portano sempre dentro di sé, come una sorta di a priori atmosferico. Del re- sto è anche per tale ragione che l’opera d’arte – secondo la tesi più nota di Adorno – è promesse du bonheur. Ovviamente una promessa che, nel mo- mento in cui è fatta, non può essere mantenuta. Da qui la sua tristezza, che fa pendant con una riflessione, che nelle opere di Adorno è una sorta di re-

frain – dai Minima moralia alla Teoria estetica al Beethoven –, e che è re-

lativa alla relazione della “promessa di felicità” con l’infanzia. Quest’ulti- ma è infatti nello stesso tempo strutturalmente perduta – non si è mai “data” così come a volte la ricordiamo – e strutturalmente sempre presen-

8 Cito dalla pagina 188 della traduzione di De Angelis della Teoria estetica (Einaudi, Torino 1975) e riporto la frase in tedesco: «Alles Machen der Kunst ist eine einzige Anstrengung zu sagen, was nicht das Gemachte selbst wäre und was sie nicht weiß: eben das ist ihr Geist» (Th. W. Adorno, Ästhetische Theorie, in Id., Gesammelte Schriften, Band 7, herausgegeben von G. Adorno und R. Tiedemann, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1972, p. 198).

9 Adorno, nella sua teoria estetica, a differenza dell’estetica analitica oggi ancora troppo di moda, non parte mai da una definizione neutra e “generale” dell’arte ma da una imprescindibile domanda di senso che necessariamente si fonda su una “valutazione” di ciò che nella contemporaneità ha senso e ciò che non lo ha. 10 Per una ampia discussione sulla questione mi si permetta il rinvio al mio Apocalissi

simboliche. Il sintomo Sloterdijk, in Kaiak. A Philosophical Journey, n. 2, Apocalissi culturali, 2015 (www.kaiak-pj.it).

te nello sguardo dello spirito. Sì, forse è proprio questo che Adorno ci vuo-

le dire: lo spirito è tale solo nello sguardo dell’infanzia11. È presente solo

in quanto tentativo dell’impossibile. Solo tale sguardo guarda oltre il recin- to della mera sopravvivenza. Questa precisazione ci dà la possibilità di chiarire un punto che, diversamente, potrebbe generare qualche equivoco. Affermare che un luogo dell’umano non c’è se non nella modalità dell’im- possibile, non significa affatto ritenere che la specie umana, concepita nel- le sue determinate caratteristiche bio-culturali, non ci sia. Significa solo che la civilizzazione umana – secondo la tesi cardine di Dialettica dell’il-

luminismo – non è stata ancora in grado di creare spirito, irretita come è

stata, e come ancora è, nelle maglie del mito, cioè del dominio tecnico di sé e della natura al fine della sopravvivenza.

Quello sguardo d’infanzia, che è in grado di andare oltre il pur necessa- rio ambito della sopravvivenza, quello sguardo che è al centro di ogni ope- ra d’arte autentica, è ciò che le fa essere spirito ma solo nelle modalità del

tour de force, nelle modalità dell’impossibile che appare ogni volta per poi

svanire, nei modi dell’apparition, come scrive Adorno in un’altra impor- tante pagina della sua Teoria estetica12.

Il primo appunto del suo incompiuto libro su Beethoven dice:

Ricostruire come ho ascoltato Beethoven quando ero bambino13

Poi, a dispetto di ciò che si potrebbe pensare, egli ricorda che ciò che, nella sua infanzia, lo aveva colpito della musica di Beethoven non era af- fatto la sua magia sonora, ma quella della sua scrittura.

11 Bisognerebbe approfondire, a tal proposito, la “costellazione” tra l’infanzia, gli animali, i “matti” e i clown, che Adorno indica, a proposito dei «momenti insulsi delle opere d’arte», in un’altra pagina della sua Teoria estetica: «quella dei bambini con i clown è un’intesa con l’arte di cui poi, come dell’intesa con gli animali, gli adulti fanno perdere loro l’abitudine […] La costellazione animale- matto-clown è uno degli strati fondamentali dell’arte» (Th. W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 161).

12 «Se l’apparition è lo sfavillante, l’esser-toccato, allora l’immagine è il tentativo paradossale di avvincere questo qualcosa di assolutamente fuggevole. Nelle opere d’arte qualcosa di momentaneo si fa trascendente; l’obiettivazione rende l’opera d’arte attimo […] Le opere d’arte non sono solo allegorie, ma la loro catastrofica attuazione» (Ivi, p. 114).

13 Th. W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, trad. it. di L. Lamberti, Einaudi, Torino 2001, p. 3.

Mi ricordo chiaramente la magia che scaturiva nella mia infanzia da una partitura che indica i nomi degli strumenti e che mostra di ognuno di essi esat- tamente che cosa suona […] Se devo essere sincero, più che ad esempio il de- siderio di conoscere la musica come tale, era piuttosto quella magia che mi spingeva, già da bambino, ad imparare a trasportare di tonalità e a leggere la partitura e che in fondo mi fece diventare musicista. Così forte era quella ma- gia che la sento ancora oggi, leggendo la Pastorale, forse una delle prime espe- rienze nelle quali essa mi si rivelò. Ma questo non succede quando la si suona – ed è forse questo un argomento contro l’esecuzione musicale in genere14.

Magia della scrittura: un vero e proprio ossimoro, se restiamo alla vul- gata musicologica. Eppure è questo ossimoro che Adorno ha sempre in mente. Ciò ha a che fare con il carattere linguistico della musica inteso come scrittura enigmatica, come écriture e Rätsel, scrittura ed enigma. Si tratta di una scrittura muta, non significativa e non traducibile in comuni-

cazione linguistica. E si tratta di un enigma che non ha molto a che fare con

l’ineffabilità della musica, ma che assume la modalità di un rebus allegori- co di cui non si hanno le chiavi di interpretazione, come accade, secondo l’esempio figurativo fatto a tal proposito da Adorno, con i vasi etruschi di Villa Giulia.

I vasi etruschi di Villa Giulia – egli scrive nella Teoria estetica – sono elo- quenti in misura estrema e incommensurabili rispetto a ogni linguaggio comu- nicativo. Il vero linguaggio dell’arte è muto, il suo momento muto ha il prima- to su quello significante della poesia, che anche alla musica non manca interamente. Ciò che è simile al linguaggio nei vasi è contiguo semmai ad un “sono qui” o “sono ciò”15.

Il nome allo stato dell’impotenza assoluta

Nell’opera d’arte lo “spirituale” è paradossalmente unito al non-spiri- tuale; in essa la costruzione formale è unita alla mimesi. Questo è il motivo per cui nell’opera d’arte coesistono il mito e la critica al mito.

La via storica dell’arte in quanto spiritualizzazione è quella della critica del mito tanto quanto quella che porta al suo salvataggio16 – sostiene Adorno.

14 Ibidem.

15 Th. W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 151. 16 Ivi, p. 159.

Già in Dialettica dell’illuminismo Adorno (con Horkheimer) aveva ab- bozzato una teoria dell’impulso mimetico17. Questo ha, per così dire, come

Giano bifronte, una faccia distruttiva e un’altra conservativa. Secondo la prima faccia è l’impulso del vivente “umano” alla perdita dispendiosa del sé fino all’assimilazione (auto-distruttiva) all’ambiente, quindi alla mor- te18. Secondo l’altra faccia l’impulso mimetico è strumento di auto-conser-

vazione del vivente attraverso la modalità della mimesi del morto. Pulsio- ne ancipite, l’impulso mimetico è auto-distruttivo e auto-conservativo19.

Nell’opera d’arte autentica questa doppia tensione mimetica si trans-for-

ma, nel senso che appare del tutto interna alla forma-opera nelle modalità

della dissonanza e della disarmonia. Nell’opera l’ambivalenza dell’impul- so mimetico viene a forma e, in tal modo, diviene scrittura enigmatica di una “conciliazione” (Versöhnung) tra natura e spirito che è l’apparire stes- so dello spirito, nelle modalità però del suo necessario catastrofizzare, del suo necessario fallimento. Allora – ma solo nell’arte sottolinea Adorno – l’impulso mimetico assume, come in un’apparizione, un ulteriore aspetto, perché si trans-forma da violento impulso all’assimilazione (del sé all’am- biente oppure dell’ambiente al sé) in tensione alla somiglianza20. È forse

per tale ragione che la più antica e persistente teoria dell’arte la concepisce come imitazione, mimesi21, ma ciò è anche la radice di tutte le teorie della 17 Cfr. sulla questione della mimesi W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976, pp. 68-71.

18 Cfr. ancora utilmente l’articolo di Ch. Wulf, Il ritorno della mimesis, in Nuova corrente, Th. W. Adorno. Mito, mimesis, critica della cultura, n. 121-122, 1998, pp. 155-172; nella stessa rivista cfr. anche F. Desideri, Mimesis e techne nella Teoria estetica, pp. 173-187. Infine, cfr. il classico studio di J. Fruchtl, Mimesis. Konstellation eines Zentralbegriffs bei Adorno, Köningshausen und Neumann, Würzburg 1986.

19 «Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo – scrivono Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo – L’ebbrezza narcotica, che fa espiare l’euforia in cui il Sé resta come sospeso con un sonno simile alla morte, è una delle antichissime istituzioni sociali che mediano tra l’autoconservazione e l’autoannientamento, un tentativo del Sé di sopravvivere a se stesso» (Id., Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di L. Vinci, Einaudi, Torino 1974, p. 42). 20 «L’affinità – scrive Adorno nella sua Dialettica negativa – è l’acme di una dialettica

dell’illuminismo. Esso si ribalta in abbaglio, in esecuzione cieca da fuori, non appena recide completamente l’affinità. Non c’è verità senza di essa» (Th. W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, p. 241). 21 Cfr. S. Halliwell, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, trad.

distanza estetica. Questa trasformazione dell’impulso mimetico in affinità

e tensione alla somiglianza ricorda infatti molto da vicino la teoria di Nietzsche de La nascita della tragedia fondata appunto sulla trans-forma- zione della “violenza dionisiaca” in “forma apollinea”, implicante un di-

stanziamento estetico da quella violenza22. Tuttavia c’è da sottolineare che,

rispetto al modello nicciano, la teoria dell’arte di Adorno manca di un ele- mento – per altro centrale in gran parte delle teorie artistiche da Aristotele a Nietzsche (e a Freud). Questo elemento è la catarsi, intesa come purifi- cazione delle pulsioni attraverso il loro “sfogo” rituale. La catarsi, infatti, sia nelle modalità più socializzate e dionisiache, che in quelle più interio- rizzate, è vista da Adorno con estremo sospetto, in quanto proprio attraver- so la catarsi delle pulsioni e delle emozioni l’arte ha potuto essere storica- mente anche un formidabile (e indispensabile) complemento del “dominio” della società sui singoli e del Sè sulle pulsioni stesse: l’arte – è questo il suo lato conservativo per così dire – è stato strumento consolatorio nella mo- dernità (specie ottocentesca)23 ed è divenuta un vero e proprio tranello per

le debolissime soggettività contemporanee – per le quali vale alla lettera il titolo di un famoso aforisma dei Minima moralia: l’io è l’Es24 – che, irreti-

Nel documento Desiderare. Tra stanchezza e disagio. (pagine 151-167)