L’Ospedale attualmente intitolato alla Duchessa di Galliera, di cui si ce-lebrano i 120 anni dalla fondazione, è la tangibile testimonianza di una vicenda storica, singolare e significativa, dipanatasi coniugando la tradizione assi-stenziale del passato con l’odierno profondo rinnovamento tecnico ed orga-nizzativo, che ha visto Genova in questo lungo periodo distinguersi per un originale ed emblematico rapporto tra le componenti della società cittadina.
I segni di tale collaborazione sociale si possono cogliere in diversi aspetti della realtà urbana, dal porto ai giardini e parchi, ma l’eredità relativa alla salute pubblica, di tipo ospedaliero, o di assistenza alle categorie più deboli di citta-dini, ha lasciato tracce indelebili nella coscienza civica e nel comune sentire.
È proprio per la conservazione di questa tradizione che si rivela indi-spensabile il ricorso alla ricostruzione storica, che consente di far emergere i valori che sorreggono le istituzioni, le professioni, gli uomini che le hanno esercitate, le strutture in cui hanno operato e la loro funzionalità, per giun-gere, infine, a valutare la evoluzione con il trascorrere del tempo di ognuno di tali fattori, per giudicare il loro contributo al progresso della civiltà.
Genova, come si è sopra accennato, nella sua storia secolare, è stata sempre caratterizzata da un rapporto privilegiato tra le sue antiche istitu-zioni ospedaliere e la realtà sociale in cui operavano, che forniva una multi-forme varietà di ‘possibili utenti’.
Giovanni Battista Grimaldi riteneva, a metà del Seicento, «Non esservi in Italia città alcuna ove tanto denaro si profonda in elemosine, ed ove s’incontri copia maggiore di mendicanti che a Genova». Il termine usato non ha un significato negativamente valutativo, ma serve piuttosto a identi-ficare un complesso di persone, con vari gradi e situazioni di disagio sociale, poveri e malati soprattutto, ma anche viandanti e pellegrini, a cui una con-tingente situazione di itineranza poteva fare emergere momenti di difficoltà:
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* Testo letto il 18 aprile 2008 a Palazzo Ducale-Sala del Maggior Consiglio in occa-sione del Convegno Innovazione tecnologica e umanizzazione - Celebrazioni 120 anni E.O.
Ospedali Galliera.
l’assistenza è rivolta, quindi, a tutti i bisognosi, in ossequio ai princìpi ed ai precetti caritativi cristiani. L’obiettivo fondamentale rimane quello di ga-rantire asilo, un pasto e qualche empirico e basilare sussidio medico ad una massa di diseredati. Questo standard organizzativo che, ad occhi moderni, può apparire minimale, è stato forse l’unico supporto per le popolazioni dei secoli passati: una significativa espressione di ‘humanitas’ le cui fonti di fi-nanziamento sono sempre state esclusivamente private.
È in questo sistema organizzativo e concettuale, nutrito di cultura istitu-zionale e teologica, oltre che economica, che occorre inserire, ad esempio, il provvedimento del Papa Sisto IV che, con una bolla del 28 novembre 1471, concede l’aggregazione di tredici dei piccoli ospedali esistenti (circa un cen-tinaio), tutti annessi a conventi, e gestiti da religiosi, nel grande complesso assistenziale di Pammatone.
Questa istituzione, infatti, che in qualche decennio diviene il centro as-sistenziale più importante della città, si propone subito come modello di organizzazione e punto di riferimento scientifico per l’attività ospedaliera.
La sua nascita ed il successivo sviluppo, si devono al disegno maturato da un privato, il giureconsulto Bartolomeo Bosco, attivo nella prima metà del Quattrocento, il quale decide di devolvere alle persone sofferenti le ricchez-ze accumulate con una lunga ed operosa attività di consulente: terreni ed edifici, e altri beni di sua proprietà, sono destinati alla costituzione di un grande centro di assistenza, dedicato alla Beata Vergine della Misericordia, ma denominato Pammatone per la sua collocazione nell’omonimo quartiere.
Pammatone rappresenta dalla metà del Quattrocento, per quattro secoli e mezzo, il centro principale di cura per gli infermi, ma anche un laboratorio di studio e di specializzazione per i medici appartenenti al «Collegio dei medici collegiati di Genova».
Il caso di Pammatone non è, peraltro, unico nel panorama assistenziale genovese tra XVI e XIX secolo. Un ospedale degli incurabili è finanziato dal notaio Ettore Vernazza nel 1550, ma, il monumento più significativo, atto a ricordare la munificenza e la partecipazione della società genovese di Ancien Régime è ancora oggi legato all’opera di Emanuele Brignole. A lui si deve, infatti, il progetto, il reperimento delle risorse necessarie e la spinta realizzativa dell’Albergo dei Poveri (nel 1664), non un vero ospe-dale ma, secondo la visione politico-sociale dell’epoca, un Reclusorio per vecchi, poveri, bambini abbandonati, fanciulle senza dote ed altre catego-rie disagiate.
LA DUCHESSA DI GALLIERA E UN MODERNO OSPEDALE
Non deve stupire, pertanto, la circostanza che il grande disegno assi-stenziale a favore della città, alla fine dell’Ottocento, sia ancora una volta il frutto della solidarietà privata.
Rispetto ai secoli precedenti, però, è completamente cambiato il conte-sto operativo. È il concetto di ospedale e delle sue funzioni quello che si sta evolvendo: esso non è più semplicemente il tetto sotto cui si riparano la mi-seria e la morte prossima, ma le nuove concezioni lo considerano ormai una
«macchina per guarire», una istituzione, cioè, che deve diventare quasi un operatore terapeutico. In pratica tra fine Ottocento e inizio Novecento, l’involucro edilizio ospedaliero assume nuove forme spaziali per diventare esso stesso strumento attivo di guarigione.
È in questa tradizione di partecipazione e in questi ideali di servizio che si inquadra appieno l’azione assistenziale e caritativa svolta, negli ultimi decenni dell’Ottocento, da Maria Brignole Sale, Duchessa di Galliera, che offre le sue ricchezze per la costruzione dell’ospedale di Sant’Andrea, compiuta tra il 1876 ed il 1884, con l’intendimento di dotare la città di Genova di un ospedale che nulla avesse da invidiare alle più avanzate realizzazioni in questo campo, quali il londinese ospedale di Saint Thomas. L’utilizzazione della scelta architetto-nica di una organizzazione a raggiera si sposa con le più avanzate tecnologie mediche ed assistenziali, con la conseguenza che le degenze divengono mag-giormente confortevoli, e l’attenzione alla applicazione di adeguate misure igieniche diminuisce notevolmente le infezioni che si contraevano all’interno delle strutture.
Sarebbe, peraltro, una considerazione soggettivamente e socialmente limi-tativa circoscrivere l’opera della Duchessa di Galliera ad un semplice tentativo di miglioramento delle tecniche mediche ed ospedaliere: ne verrebbe sminuita la sua personale adesione e partecipazione alle vicende di una umanità sofferente, che occorre sostenere spiritualmente oltre che materialmente. La Duchessa si può dire che avesse respirato, già nelle mura della casa paterna, una atmosfera di concreta solidarietà verso i malati. Suo padre, infatti, Antonio Brignole Sale, era stato sì esponente di primo piano nella vita politica genovese (e anche Sin-daco della città nel 1827), ma soprattutto era stato nominato, nel 1828, Presi-dente della Giunta degli Ospedali Civili di Genova (allora riuniti per la prima volta) e partecipe, in momenti diversi, della gestione dell’Ospedale degli Incu-rabili e dell’Albergo dei Poveri, come Presidente della Congregazione di Ca-rità. In queste sue funzioni si era ampiamente prodigato, ad esempio, per un progressivo adeguamento proprio del vecchio Ospedale di Pammatone.
Una tradizione di partecipazione attiva, a cui la Duchessa aggiunge l’idea di una istituzione nella quale si integrino le due idee forti della ospita-lità e del conforto: dal punto di vista spirituale ed umano è infatti eccessi-vamente limitativo pensare agli ammalati come soggetti a cui somministrare solo cure mediche, negando loro un contestuale apporto di fede e di speranza.
È in tale luce che deve leggersi la scelta di chiedere agli Arcivescovi di Ge-nova, che si sarebbero succeduti, di essere presenti all’interno del Consiglio di Amministrazione e di ricoprire la carica di Presidente dell’istituzione.
L’inaugurazione ufficiale delle nuove strutture avviene il 4 marzo 1888;
esse vengono pensate e realizzate con un alto livello di qualità, che inizia dalla scelta della localizzazione: l’ospedale sorge, infatti, in una zona ancora con-notata da un paesaggio rurale, costellato da ville e conventi, nascosto da secoli dietro la costa di levante della città medievale; aperto ai malati ed ai poveri, progredisce continuamente nella ricerca di servizi più completi. In quest’ot-tica sono pensati anche il secondo ospedale, questa volta all’avanguardia nella cura delle malattie dell’infanzia, il San Filippo, ed il terzo, il San Raf-faele, per i malati cronici, riuniti in un unico complesso coordinato, con la denominazione di «Opera pia Brignole De Ferrari».
Della Duchessa è stato scritto che «coniugava l’intelligenza alla bontà», ed è indubbio che ci troviamo di fronte ad una persona con doti particolari, la cui lunga vita (nata il 5 aprile 1811, a Palazzo Rosso in Strada Nuova, muore il 9 dicembre 1888), trascorsa tra salotti e ricchezze può, da un punto di vista umano, nonostante tutto, essere senza sforzo definita certamente
«non felice».
Battezzata dall’Arcivescovo di Genova, Cardinal Giuseppe Spina, avendo come padrino lo zio Ridolfo, Vescovo di Aiaccio, era stata allevata in palazzi con ampi spazi (tra Palazzo Rosso appunto, e le estati passate nella villa di Voltri, o in quella di Coronata), e di questo privilegio si ricorderà sempre, specialmente nell’ideazione delle strutture assistenziali cui dedicherà l’ultima parte della sua vita.
Sposa a 17 anni, nel gennaio del 1828, di Raffaele De Ferrari, di carattere difficile e introverso, ma brillante uomo d’affari che, con i suoi investimen-ti, ottiene successi in tutta Europa e anche fuori del vecchio continente, ella trascorre la sua vita tra Genova (Palazzo De Ferrari in Piazza San Domenico) e Parigi, dove vive all’Hotel Matignon, in rue de Varenne, (per inciso attual-mente sede del Primo Ministro del governo francese): due grandi palazzi cui farà sempre riferimento mentalmente nei suoi progetti.
LA DUCHESSA DI GALLIERA E UN MODERNO OSPEDALE
Alla morte del marito, finanziere come si è detto, ma anche grande gio-catore, molto ambizioso, marchese prima, poi duca, poi principe, ed anche Senatore del Regno, (anch’egli, peraltro, negli ultimi anni della sua vita, grande mecenate), si trova a disporre di una cospicua parte delle enormi risorse finan-ziarie, che Raffaele De Ferrari ha accumulato tra il 1828 e il 1877. L’eredità della Duchessa, composta da beni immobili e capitale finanziario, è valutata in oltre 110 milioni di lire, già, naturalmente, decurtata dei 20 milioni donati dal marito per l’ampliamento del porto di Genova e dei 2 destinati alla costru-zione di case popolari, sempre nella sua città, al Lagaccio (complessivamente il 15% del proprio patrimonio). È antistorico e non facile valutare queste cifre in termini contemporanei: mi permetto solo di sottolineare che i venti milioni destinati al porto corrispondevano allora al costo di 5 milioni di giornate di lavoro di un operaio specializzato.
Così come Parigi e Genova erano stati i luoghi in cui la Duchessa aveva passato quasi tutta la sua vita, è in queste città e nei loro dintorni, che nei suoi ultimi undici anni dopo la morte del marito (dal 1877 al 1888) compie le grandi realizzazioni cui lega il nome suo e quello dei familiari, quasi per perpetuarne nel tempo il ricordo: si può, in pratica, affermare che in questo periodo la vita della nobildonna sembra protesa esclusivamente alla realizza-zione, al miglioramento ed alla sistemazione finanziaria delle istituzioni cui voleva garantire non solo la parte edificata ma anche le risorse per il loro successivo funzionamento.
Come è stato scritto, «… si era commossa soprattutto all’esistenza di due debolezze: l’infanzia priva di guida … e la vecchiaia piena di delusioni …».
Queste sono infatti le categorie di soggetti verso i quali indirizza all’inizio la sua pietosa attenzione.
Diversamente da quanto spesso viene ricordato, è la Francia la destinata-ria del flusso finanziario maggiore: il complesso delle donazioni per le opere programmate e realizzate a Parigi risulta, infatti, quasi più grandioso di quello genovese e comporta un esborso finanziario intorno ai cinquanta milioni di lire, cioè più della metà del patrimonio che Maria Brignole ha ereditato dal marito. Le realizzazioni più importanti sono costituite da due imponenti complessi assistenziali, amministrati da una apposita Fondazione Brignole Galliera, situati fuori Parigi, a Fleury-Mendon e a Clamart, fatti costruire su terreni appositamente acquistati nelle vicinanze di una ampia zona boscosa.
Il riferimento a queste opere non è funzionale solo a segnalare la forte presenza della Duchessa nel campo della beneficenza d’oltralpe, ma le loro
caratteristiche architettoniche sono la testimonianza dei ricordi familiari della sua giovinezza, cui si è già accennato, e dei suoi precisi propositi: gli edifici, infatti, sono immensi, in quanto Maria Brignole De Ferrari non vuole delle costruzioni qualunque e senza personalità, magari con una forma severa e neutra, come una caserma o un classico monastero. In quest’ottica essa de-sidera un vero e proprio castello per gli orfani cui vuole provvedere, di stile neogotico, tutto in pietra, pieno di sole, perché situato su una collina creata artificialmente, circondato da un parco di quasi cento ettari, alimentato da sorgenti d’acqua e cascate, con alberi di venti specie diverse. Anche gli interni sono grandiosi: gli scaloni ricordano Palazzo Bianco e Palazzo Rosso di Via Garibaldi dove era cresciuta; corridoi, saloni, dormitori, si susseguono, tutti con grandi finestre e colonnati, organizzati intorno ad ampie corti interne;
se la grande cappella nel parco è dedicata a San Paolo, quella più piccola, all’interno dell’edificio, è per San Filippo (il nome del secondo figlio).
Non diversa la filosofia della «Maison de Retraite», gestita dalle «Seurs de la Sagesse» istituite dal Beato Monfort (che la Duchessa chiama anche a Genova, all’Ospedale Sant’Andrea); anche questa è situata vicino ad un gran-de bosco, affinché gli anziani possano gogran-dere negli ultimi anni gran-della loro vita di un ambiente piacevole.
Se importante è l’impegno umanitario in Francia, Genova non è certo trascurata: oltre alle due Opere pie in Voltri e in Voltaggio, è con l’Opera pia De Ferrari Brignole Sale che la Duchessa (l’atto è redatto il 22 dicembre 1877, in Palazzo De Ferrari dal notaio Borsotto) definisce completamente il disegno benefico verso la propria città, sulla cui condivisione con il marito (si ritiene che il progetto sia stato pensato intorno agli anni 1875-1876) concordano ormai tutti gli autori. Come è stato scritto, dopo la scomparsa del Duca (era avvenuta il 26 novembre 1876) essa «è andata alla carità come a una festa, con tutti i suoi gioielli». Nel contempo definisce e fa costruire le opere con un decisionismo autoritario e pragmatico, attenta sempre a pretendere per i diseredati una funzionalità agiata.
All’interno dell’istituzione De Ferrari Brignole Sale, grandiosamente concepita, sono previste, come si è già sottolineato all’inizio, tre strutture ospedaliere diversificate, ma costituenti nel loro insieme un complesso mirato ad una assistenza sanitaria globale e nello stesso tempo specializzata: il primo in Genova, denominato San’Andrea Apostolo, capace di 300 letti, per la cura e l’assistenza di poveri ammalati di malattie acute; il secondo, pure in Genova, denominato San Filippo Apostolo, capace di 36 letti per la cura e l’assistenza
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dei poveri fanciulli infermi; il terzo di 160 letti, a Coronata, denominato San Raffaele, per la cura e assistenza di poveri ammalati cronici. Anche se le vicen-de vicen-dei due ultimi sono state importanti per la società genovese e per la storia della medicina ed i suoi sviluppi (il riferimento è specialmente all’ospedale pe-diatrico, uno dei pochi operativi in Italia nella seconda metà dell’Ottocento), la nostra attenzione è oggi concentrata sullo sforzo istituzionale, progettuale e finanziario funzionale all’ospedale di Sant’Andrea, che supera da ogni punto di vista innovativo le pur celebri prove dell’assistenza civile a Genova.
La precisa ed illuminata azione fondatrice di Maria Brignole Sale De Ferrari non è certo improvvisata: gli studi preliminari commissionati all’in-gegner Cesare Parodi, suo importante consigliere anche per altre realizzazio-ni, concernono, prima di tutto, un attento esame della più aggiornata edilizia ospedaliera europea; eguale attenzione, peraltro, è dedicata alla struttura del-l’organizzazione interna e dell’amministrazione, al punto da far redigere un questionario «per completarne l’impianto definitivo» concernente la Direzio-ne tecnica, il numero dei medici Direzio-necessari con i criteri per la loro assunzioDirezio-ne, la necessità di «turni di guardia notturni», la Farmacia, ma anche la richiesta di precise informazioni sul «costo medio della giornata di un ricoverato, tutto compreso, escluso però il valore dell’immobile». Nell’Archivio dell’Ospedale sono conservate le risposte dei principali ospedali d’Europa (Francoforte, Berlino, Londra, Parigi solo per citarne alcuni) e d’Italia (una decina), con commenti, calcoli e persino riferimenti bibliografici, sulla base dei quali la Duchessa fa proposte e commenti in una lettera autografa del 21 aprile 1887: ella dimostra una spiccata preferenza per il sistema inglese, «che ri-sponde maggiormente al genio e alle tradizioni del nostro paese», dichia-rando contemporaneamente che in Francia «parmi [si] abbia un carattere spiccatamente burocratico, il quale corrisponde pienamente alla organizza-zione politica e sociale di quella naorganizza-zione».
Il primo Statuto Organico dell’Opera pia che recepisce quindi (art. 6) idee e suggerimenti altamente qualificati, comprende, altresì, l’istituzione di una Casa di salute con 16 stanze destinate e riservate «… alla cura ed assi-stenza non gratuita degli infermi», oltre a 4 stanze con sale di conversazione per persone facoltose: il tutto, peraltro, allo scopo che
«il ricavo [venga] … destinato a benefizio degli ammalati poveri i quali, uscendo dall’Ospedale abbisognino di qualche speciale soccorso, sia in danaro, sia in qualche ap-parato chirurgico».
Se comunque «i malati devono essere curati per tanto tempo nello spe-dale finché siano capaci di lavoro», in altra sede si sottolinea che l’Ospedale di S. Andrea deve essere «esercitato e conservato [per] la cura paterna ed affettuosa, quale la domestica, degli ammalati». Proprio per adempiere me-glio a questa funzione è previsto nello Statuto originario e sempre ribadito successivamente che nei tre ospedali «è interdetto qualunque insegnamento di clinica» cioè non dovrà servire come luogo e argomento di studio a scopo di insegnamento.
«L’impianto delle cliniche – è argomentato in una relazione dei primi anni di funziona-mento come realtà fortemente negativa – importa la libertà ai docenti di prendere dalle diverse sale comuni quei malati che meglio credessero rispondenti all’insegnamento e di rimandarli al primitivo letto [solo] quando avessero servito alle proprie indagini ed esperienze…»; «… siccome d’altronde si desidera che lo scopo sia raggiunto in ogni sua parte, e specialmente quindi nella scientifica, è d’uopo provvedere perché il corpo sani-tario abbia a sua disposizione tutto ciò che è necessario per raggiungerlo, e quindi bi-blioteca e gabinetti forniti di instrumenti per indagini fisiche, analisi chimiche, osserva-zioni microscopiche e necroscopiche, applicaosserva-zioni elettroterapiche e studi anatomopa-tologici; tutto diretto ad agevolare e completare metodi diagnostici e curativi; infine il tesoro di fatti e di osservazioni raccolte nelle diverse sale, saranno coordinati e discussi in seno all’Accademia formata dal Corpo Sanitario, il quale pubblicando i suoi Atti po-trà fare preziose contribuzioni al progresso delle mediche discipline».
Lo sviluppo scientifico e tecnologico, in pratica, pur rappresentando un indubbio fattore di progresso, non deve far correre il rischio di portare nel tempo a rapporti sempre più impersonali tra medico e malato.
La formazione è prevista solo per il personale infermieristico (per il quale, così come per le altre numerose figure lavorative la Duchessa non di-sdegna definire precise regole sull’abbigliamento). Una istituzione teorico-pratica all’inizio; una vera e propria Scuola Convitto, attuata nel 1934.
Comunque, si regolamentava, che «nessuna donna che non conosca l’aritmetica che non sappia leggere e scrivere correttamente e ben cucire, non possa essere ammessa come infermiera novizia». Vedova o senza prole (questa norma è abolita solo nel 1962), tra i 18 e i 30 anni ; le aspettava un periodo di prova da due a sei mesi.
Tutta la complessa organizzazione, anche strutturale, è definita con seve-ri cseve-riteseve-ri di razionalità ed efficienza; si veda, tra esse la lavandeseve-ria, a proposito della quale la Duchessa annotava che «in Inghilterra il locale destinato per il bucato raramente … si trovava nel medesimo complesso dell’Ospedale» e ne accettava l’idea.
LA DUCHESSA DI GALLIERA E UN MODERNO OSPEDALE
LA DUCHESSA DI GALLIERA E UN MODERNO OSPEDALE