1. La malattia e le politiche assistenziali
La società medievale ha teorizzato, e spesso operato, tutta una serie di emarginazioni verso categorie di persone che, per eterogeneità comporta-mentali, o per vizio fisico, morale o religioso turbassero l’armonia e la per-fezione dell’universo cristiano. La pratica applicazione di tali concezioni si estrinseca nella tendenza ad isolare anche fisicamente i gruppi anomali. Il primo scopo che si vuole ottenere è quello di evitare i rischi di contagio, fi-sico e morale, e lo strumento prescelto è la limitazione dei contatti reciproci solo alle contingenze indispensabili, senza precludersi la possibilità di pro-curarsi ricadute di tipo spirituale attraverso opere di carità nei confronti delle persone così emarginate. Il secondo scopo è la rimozione di questi casi di anomalia, oltre che dal corpo, anche dalla coscienza dei cristiani e so-prattutto dei loro governanti.
L’isolamento, oltre a riguardare gli ebrei, che ne sono colpiti fisica-mente oltre che socialfisica-mente ed economicafisica-mente, si rivolge verso alcune categorie di malati come i lebbrosi ed i portatori di patologie mentali 1. Il lebbroso, la cui infermità è ritenuta segno esterno del peccato, è, quindi, tra i primi ad essere separato dal resto della società ed isolato, in quanto rite-nuto fonte e produttore di un ribrezzo e di una paura con origine e testi-monianza biblica, che si esternano come elementi di separazione superiori addirittura alle stesse preoccupazioni sanitarie 2. In questo tipo di approccio si
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* Pubblicato in: Malsani. Lebbra e lebbrosi nel medioevo, a cura di G. DE SANDRE GASPARINI -M.C. ROSSI, Caselle di Sommacampagna 2013 (Quaderni di Storia Religiosa, 19), pp. 131-146.
1 Gli ebrei, pur senza essere reclusi, erano obbligati a vivere ai margini della società e a portare un marchio: la rotella. La reclusione dei malati di mente, successiva a quella dei lebbrosi, è anteriore o simultanea a quella dei poveri. Cfr. LE GOFF 1969, p. 372 e sgg., e GEREMEK 1973a.
2 Cfr. SERRA 1941, pp. 7-11; IMBERT 1947, p. 149 e sgg.; GALASSI 1966, p. 30 e sgg. e LE
GOFF 1969, p. 378 e sgg. Per i numerosi aspetti di questa ed altre problematiche collegate si ri-manda al lavoro sempre valido ed all’ampia bibliografia in BRODY 1974; più recente BÉRIAC 1988.
deve, tuttavia, ricordare l’importante passaggio socio-culturale dal concetto biblico malattia-peccato a quello evangelico, che emerge nel XII e XIII se-colo, che attribuisce alla malattia quasi una funzione catartica attraverso un collegamento ideale tra peccato e conversione 3: «Egritudo corporis meri-tum accumulat et maiorem coronam acquirit … Tribulatio enim patientiam, patientiae vero spem eterne salutis operatur» 4.
Sul tema si diffondono ampiamente i sermoni dei predicatori medievali, tendenti da un lato a sollecitare una maggiore attenzione verso questi malati, bisognosi di carità cristiana, (ed il più comune riferimento è all’insegnamento ed all’umile semplicità di San Francesco 5), dall’altro a sottolineare come la sofferenza debba essere intesa come elemento fondamentale nel processo che porta i soggetti infermi alla conversione e, quindi, della loro redenzione 6.
Malati, ma specialmente indesiderati sociali, i lebbrosi vengono convo-gliati in ghetti, fuori dalle mura delle città 7, chiamati ospedali, ma che in termini moderni è forse più giusto definire istituzioni di tipo totale, cioè ca-ratterizzate dall’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno 8. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’ingresso nel lebbrosario cor-risponde ad una morte civile, e la cerimonia con cui il malato viene accolto non rifugge da simbolismi e da toni che si riallacciano al rito dei morti.
Questo aspetto si accentua specialmente dopo che, con il Concilio Latera-nense del 1179, i lebbrosari sono obbligati a rendere operativa per le funzioni religiose, anche una propria cappella e/o chiesa con annesso un cimitero.
Altre volte la segregazione è minore e il lebbroso può vagare per la campagna,
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3 Si veda in particolare BÉRIOU - TOUATI 1991; MARCHESANI 1999, p. 36.
4 DE VITRY 1991, p. 107.
5 Su questo tema si veda l’ampio lavoro di DE SANDRE GASPARINI 1984; Carte dei leb-brosi 1991.
6 Sulla mentalità e il modo di pensare relativamente alla lebbra, cioè l’approccio nei con-fronti di questa malattia da parte dei padri e dottori della Chiesa, vedi anche PICHON 1984.
7 Esiste tutta una serie di consuetudini sulla localizzazione dei lebbrosari. Cfr. per la Francia, IMBERT 1947, p. 154; per l’Italia, BREDA 1909, pp. 11 e 133-194; NASALLI ROCCA
1938a, pp. 266-267, e più in generale, LE GOFF 1969, p. 373.
8 Secondo l’analisi di E. Goffman (GOFFMAN 1968, p. 34 e sgg.) i lebbrosari, insieme agli ospedali psichiatrici e ai sanatori per tubercolotici cronici, fanno parte della categoria (che l’A.
chiama seconda) di istituzioni totali rivolte a tutelare coloro che rappresentano un pericolo per la società, anche se non intenzionale.
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ma solo preavvisando del suo arrivo con il rumore della battola e osservando tutti i divieti prescritti dagli Statuti dell’Ospedale, spesso recepiti nella nor-mativa civile delle città 9.
Già diffusa certamente la malattia nell’Alto Medioevo, e in qualche modo ricordata anche nell’antichità, è comunque a partire dal XII secolo che le fondazioni ospitaliere per accogliere i malati di lebbra si fanno più numerose. L’aumento demografico, la mobilità delle persone (pellegrinaggi, crociate, accentuarsi dei traffici) dilatano l’area del contagio dalle terre d’Oriente verso l’Occidente. Nonostante il tentativo della Chiesa nel disci-plinare i comportamenti dei ‘malsani’ e la spinta a professare voti di povertà, castità ed obbedienza, nell’ottica di una assimilazione ad una comunità più tecnicamente religiosa 10, specialmente nelle città dell’Italia settentrionale le condizioni del lebbroso sotto il controllo della Chiesa risultano piuttosto sfumate 11. Il dualismo lebbrosario- monastero è certo valido nel nuovo clima in cui si vede sviluppare il fervore della carità: in teoria i numerosi obblighi di osservanza di regole di partecipazione alla vita ed alle funzioni religiose possono essere accettati nell’ottica di ritenere le comunità di questi malati assimilabili a quelle monastiche degli Ordini ospitalieri in genere 12.
Da un altro punto di vista, nell’ambito dei sistemi sanitari cittadini, i ri-coveri dei lebbrosi rappresentano un’istituzione singolare, forse l’unico esempio di ospedale specializzato funzionante già dal XII secolo 13. È in questo periodo, infatti, che i lebbrosi si moltiplicano, fino all’inizio del Tre-cento; nel XV e nel XVI secolo la lebbra è ormai in Italia una malattia quasi scomparsa. I lebbrosari, peraltro, continuano ad esistere e a funzionare, ospitando in pratica gli affetti da qualsiasi malattia cutanea contagiosa e/o deturpante della pelle, ma divenuti ormai grossi centri di raccolta di elemo-sine, di canoni e di redditi diversi, distribuiti tra pochi malati. Raramente,
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9 Cfr. NASALLI ROCCA 1938a, pp. 270-271; IMBERT 1947, p. 156 e pp. 163-173; MAJOR
1959, I, p. 312; BERTOLANI DEL RIO 1961; BERTOLANI DEL RIO 1962, p. 198. Solo nell’Otto-cento si discuterà «se sia più confacente curare i lebbrosi in appositi asili separati o nelle loro famiglie». Cfr. DE ROSSI 1848, p. 6.
10 Una realtà ben diversa da quella precedente quando ai lebbrosi venivano talora rifiu-tati persino i sacramenti. Si veda ROUFFIÉ - SOURNIA 1985, p. 141.
11 MARCHESANI 1999, pp. 27-36; DE SANDRE GASPARINI 1983, pp.40-45.
12 BÉRIOU - TOUATI 1991, p. 8 e sgg.
13 Gli ospedali degli ‘incurabili’ sono posteriori. Cfr. CARPANETO 1938, pp. 4-8, 40 e sgg.
però, essi vengono conglobati nei più ampi e organizzati complessi ospeda-lieri (gli Ospedali Maggiori) che si vanno formando dopo la seconda metà del XV secolo, con l’intervento a livello organizzativo e finanziario non più solo delle autorità religiose, ma anche di quelle civili 14. La paura della malat-tia fa sì che vengano esclusi dal concentramento. Solo nei secoli successivi si manifesta in misura sempre maggiore l’interesse delle autorità cittadine e delle magistrature preposte alla pubblica assistenza verso i ricchi lebbrosari, accusati di limitare l’utilità sociale dei loro beni.
Sussistono però ancora complessi problemi organizzativi e sanitari che non rendono sempre facile l’attuarsi di un processo di fusione materiale, ac-canto ad una comprensibile resistenza delle comunità dei lebbrosi, abituati ad autogovenarsi e ad amministrarsi in piena indipendenza, nella forma della Universitas infirmorum (con le preoccupazioni patrimoniali ormai superiori a qualsiasi altra). Si arriva, nella maggior parte dei casi, ad un assorbimento esclusivamente amministrativo: una volta acquisito da parte delle autorità cittadine il diritto di sovrintendere ai redditi delle comunità, passa in secon-do piano la convenienza di un trasferimento dei pochi malati in ali apposite degli ospedali dentro le mura 15.
2. Pubblico e privato alle origini del lebbrosario di Genova
Fra i ricoveri per lebbrosi che mantennero più a lungo nel tempo la lo-ro destinazione originaria è senz’altlo-ro quello genovese. Fondato nel 1150, forse tra i primi dell’Italia settentrionale 16, da Buonomartino, presso Capo di Faro, cioè nella zona occidentale dell’insenatura del porto di Genova,
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14 MARCHESANI - SPERATI 1981, in partic. p. 64 e sgg. Più in generale GRMEK 1985;
PAZZINI 1948, e MAJOR 1959, pp. 11-312. Sulla lebbra e la sua storia, vedi anche PAZZINI 1968, pp. 451-464.
15 NASALLI ROCCA 1938a, p. 263, e pp. 288-90; dello stesso Autore vedi anche NASALLI
ROCCA 1956, p. 82 e sgg.; NASALLI ROCCA 1935-1941, 1935, pp. 165-167 e 1941, pp. 75-93;
NASALLI ROCCA 1938b; NASALLI ROCCA 1939. Non tutti gli Ospedali italiani di San Lazzaro subiscono la stessa sorte. Per un’ampia casistica vedi NASALLI ROCCA 1938a, pp. 288-291;
MIRA 1957, pp 171-172; BERTOLANI DEL RIO 1962, pp. 200-211; GALASSI 1966, pp. 141-152.
Sulle vicende dei singoli lebbrosari esiste una ampia serie di monografie alle quali si farà ulte-riormente riferimento in questa sede solo per sottolineare eventuali importanti affinità o di-scrasie istituzionali.
16 Degli stessi anni è la Domus di Pavia, su cui BALDUCCI 1933, pp. 1-7; di poco succes-sivo, 1190, è l’Ospedale di Como, su cui vedi GRANATA 1980.
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cino alla riva del mare 17, esso sopravvive con alterne vicende fino alla metà del XIX secolo 18.
Il contagio era, infatti, più facile nelle città poste sulle strade maestre, cioè lungo gli itinerari più frequentati da mercanti, pellegrini, soldati prove-nienti dall’Oriente. Le città di mare, in quest’ottica, erano particolarmente esposte: precisi canoni determinavano spesso la distanza di queste istituzioni dal centro abitato. Tutta la Liguria partecipa del fenomeno: lebbrosari esistono ad Albenga, Savona, Caperana, Carasco, Rapallo, Lavagna, Chiavari, Sarzana 19. Nel caso genovese in cui il lebbrosario prende appunto il nome dalla pro-pria localizzazione presso il faro (la Lanterna) che chiude a ponente l’arco portuale, e tradizionalmente caratterizza anche l’iconografia della città, la co-stituzione di un centro pensato esclusivamente per questi malati è il risultato dell’incontro di volontà diverse: il Comune, i privati e l’Arcivescovo Siro II 20. All’autorità civile si fa risalire la cessione del terreno necessario; a Buonomar-tino ed alla moglie la prima forma di organizzazione interna; sotto la tutela, il patrocinio ed il controllo dell’Arcivescovo viene posta la nuova istituzione.
Come la maggior parte degli omonimi ospedali dell’Italia settentrionale si tratta, quindi, di una struttura indipendente dall’Ordine ospedaliero di San Lazzaro 21 e, come si vedrà in seguito, è amministrato da una apposita congregazione. Nei primi secoli della sua esistenza l’Ospedale di Capo di Faro ha, quindi, il carattere di istituzione ecclesiastica e si regge pratica-mente in maniera autonoma, regolato dalle norme del diritto canonico e solo formalmente sottoposto all’autorità dell’Arcivescovo e del Papa.
In questo caso il complesso dei pauperes o infirmi o leprosi o miserrimi costituisce la mansio o domus o domus hospitalis (hospitale). L’ente, di tipo collegiale-conventuale nello schema delle istituzioni ecclesiastiche e paraec-clesiastiche medievali, ha una autonomia astratta come persona giuridica
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17 Liber iurium 1854, col. 155, anno 1150. Cfr. BANCHERO 1846, pp. 129-134; Descri-zione di Genova 1846, II, pp. 229-230 e pp. 273-74; ALIZERI 1847, pp. 1212-1214;
PORTIGLIOTTI 1923, pp. 1031-1037; PORTIGLIOTTI 1934; PESCE 1953, pp. 300-302. Più nello specifico MARCHESANI - SPERATI 1981, pp. 72-103, e MARCHESANI 1999, p. 45.
18 Si veda da ultimo MASSA 2013. Descrizione di Genova 1846, p. 13, nel 1846 ancora afferma «… il fabbricato giace sulla pubblica via che porta della Lanterna …».
19 FERRETTO 1910; CASOTTI 1950, pp. 45-48; BARNI 1960; POLONIO 2004, pp. 326-327.
20 POLONIO 2004, p. 326.
21 NASALLI ROCCA 1938a, pp. 268-269, 273 e 284-285.
(l’ospedale) che si immedesima nella domus materiale composta da tre tipi di persone fisiche con caratteristiche diverse: i ministri, i conversi (di ambo i sessi che si occupano della gestione e della cura), gli infermi.
Dopo la fondazione, per il mantenimento della Domus non si fa attende-re il sostanziale contributo di donazioni e di lasciti testamentari che, a mano a mano, si intensificano con offerte e lasciti di ogni genere, dagli oggetti di prima necessità alle proprietà immobiliari (per lo più fondi rustici o terreni coltivati) e somme di danaro, non sempre di importo rilevante ma assai frequenti 22. D’altra parte la caritas dei Genovesi ha nei secoli XII e XIII una tensione psi-cologica più sensibile al soccorso del viandante e dell’estraneo, probabilmente per il carattere di una società il cui territorio è fondamentalmente un luogo di incontro di vie di terra e di vie di mare. In quel periodo sono già censite in modo ufficiale in città, senza contare il lebbrosario, almeno altre diciassette fondazioni, sia pure con capacità di accoglienza limitata a pochi pasti 23.
L’atto costitutivo del 1153 24 e la copia del primo statuto andato per-duto 25 (pur cronologicamente successiva) ci permettono di penetrare con
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22 A questo proposito si veda l’ampio lavoro di MARCHESANI - SPERATI 1981, p. 39 e sgg.
e pp. 290-306, dove sono stati regestati duecentodieci atti notarili, compresi tra il 1150 e il 1474, redatti da notai diversi, tutti relativi a legati, lasciti, donazioni o amministrazione del patrimonio degli infermi. Numerosi anche gli atti reperibili nel Liber Magistri Salmonis 1906, in particolare p. 44, dove il 2 marzo 1222, in un atto testamentario, il testatore dona i suoi crediti all’Ospedale a favore della propria anima in presenza di un rappresentante degli infermi e di due presbiteri «fratribus ecclesiae Sancti Lazari». Per il periodo successivo, presso l’Ar-chivio Storico del Comune di Genova (da ora ASCG), oltre alla contabilità dell’Ospedale, con i libri mastri e i corrispondenti giornali, con qualche lacuna, dal 1556 al 1806 (in avanzata ela-borazione per uno studio specifico) esiste anche la serie dei Contratti dei livelli, dal 1379 al 1759, che potranno offrire, al termine del lavoro in corso, un quadro più omogeneo delle En-trate dell’Ospedale, sia per la parte dei lasciti monetari incassati, sia per quanto concerne più specificatamente il valore dichiarato dei beni e i redditi degli stessi, peraltro quasi tutti con-cessi in enfiteusi con canoni costanti e tendenzialmente bassi.
23 POLONIO 2004, pp. 319 e 325. Da non sottovalutare l’aiuto che a queste istitituzioni veniva dalle Confraternite. Per quanto concerne i lebbrosi genovesi, ad esempio, ACCINELLI
1851, p. 92, con riferimento al 1260, ricorda che poiché «in quei tempi era molto copioso il male della lebbra» lo spirito di carità favorisce il diffondersi del movimento de Disciplinanti:
«si fondarono vari oratori di uomini e donne che andavano vestiti di bianco per la città … determinarono a vicenda fra loro ... di servire agli ammalati di tal morbo che residevano nell’Ospedale di San Lazzaro».
24 Liber iurium 1854, col. 155, doc. CLXXI, riportato integralmente da vari Autori come il BANCHERO 1846, p. 129; ALIZERI 1847, p. 126 (si veda nota 17). Solo CUNEO 1842, pp. 8-9,
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maggiori dettagli all’interno del lebbrosario di Capo di Faro, seguendo nelle sue incombenze e nelle sue regole la vita, i compiti, le problematiche che doveva affrontare ogni leprosus, o infirmus, pauper, lazarus. Non compare nella documentazione genovese, se non in un caso peraltro assai sintomati-co, il termine frater o soror, tipico delle comunità monastiche e diffuso in altri cenacoli consimili: si tratta proprio del decreto istitutivo, nel quale, dopo la concessione del terreno necessario
«A ponte Clericolio in ipsum versus mare, a ripa fossati usque ad aliam, et usque ad la-pidem illum in quo crucem designaverunt, tali ordine aedificet ibi ecclesiam in honorem Dei et B. Lazzari …facta ecclesia possit aedificare domus et omnia aedificia eidem eccle-siae necessaria»;
Bonomartino viene nominato fino al termine della propria vita ‘procuratore’
praedictorum pauperum; nel caso tuttavia che per forza maggiore non possa svolgere più questo compito,
«habeat tamen ipse et uxor ipsius dum vixerit, de bonis praedictae Congregationis victum et vestitum sicuti unus ex maioribus fratribus in praedicta congregatione commorantibus»;
viene, inoltre, sottolineato subito dopo che
«in praedicta congregatione possint esse fratres inter sanos et aegros L et plus in ordi-natione domini archiepiscopi si ei visum fuerit» 26.
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corda che la sede dell’Ospedale era fuori della Porta di San Tommaso, limite occidentale del territorio cittadino, e che il rivo Clericolo (detto in quella sede ‘di San Lazzaro’) costituiva già nel XII secolo il limite «di chi va in Provincia per sale», con conseguente obbligo del paga-mento di un pedaggio che sembrerebbe a favore dell’istituzione.
25 I primi Statuti successivi all’atto di approvazione non sono mai stati reperiti. Parimenti non si ha attualmente traccia di una probabile copia trecentesca degli stessi, in dialetto genovese, trascritti dall’originale in un codice pergamenaceo del Cinquecento, rintracciata negli anni Venti del Novecento dal Portigliotti nell’Archivio dell’Albergo dei Poveri (PORTIGLIOTTI 1923 e PORTIGLIOTTI 1934, che ne riporta solo alcuni brevi passi. L’Archivio si trovava allora assai di-sordinato e non schedato. In seguito al trasferimento del fondo Albergo dei Poveri presso l’ASCG e ad un suo iniziale riordino, e’ stato rintracciato un fascicolo cartaceo, copia indubbia-mente degli stessi, datato 1395. Si tratta di un testo di 11 carte, cui seguono due successive ri-conferme ufficiali, a testo invariato, nel 1438 e nel 1461. Del testo completo è prevista la pubbli-cazione in un lavoro più ampio sull’Ospedale di Capo di Faro, ancora in corso. Questa stesura ha appunto la caratteristica di essere redatta in dialetto genovese con alternate alcune espressioni in latino ed in volgare. Nel prosieguo del lavoro si farà riferimento ad essa come Statuti 1395.
26 Si veda la nota 17 per i riferimenti testuali.
Poco si sa dei primi tempi di vita dell’istituzione e della domus, in pratica, come si è visto, costruita sulla spiaggia, oltrepassato un corso d’acqua che nei secoli successivi diventerà assai importante in funzione delle necessità idriche della città, ormai espansa con il suo porto verso occidente : esso dà origine ad un vero e proprio Acquedotto di San Lazzaro ma, in quel momento, rappre-senta il limite estremo del golfo naturale, mentre la città è arroccata all’in-terno delle mura costruite per il temuto assalto di Federico Barbarossa.
L’aver affidato ad un preceptor o minister o gubernator (e talora rector) all’inizio la gestione della domus corrisponde alla consuetudine: ma nel 1299 i lebbrosi ottengono il diritto di nomina autonoma e facoltà decisionali di ampio respiro 27. L’elenco dei precettori che la documentazione notarile mette a disposizione fino a metà Quattrocento 28 ci svela, tra gli altri nomi-nativi, quello del successore di Bonomartino: Goffredo, fin dal 1162. Indi-cato come procurator infirmorum Capitis Faris eorum minister humilis, egli è anche medico: l’unico di cui si abbia ufficialmente menzione anche con rife-rimento ai secoli successivi.
Il fatto che gli infermi ricoverati nella domus partecipino attivamente alla vita amministrativa della comunità è confermato dalla ricca documenta-zione che dal Quattrocento permette di seguirne le vicende, in particolare per quanto riguarda la gestione dei beni: il protagonista è infatti costan-temente il Collegium infirmorum Sancti Lazari, dizione che corrisponde anche alla intestazione della Colonna dei luoghi della Casa di San Giorgio a disposizione della comunità di cui si ha traccia a partire dalla metà del Trecento nel Cartularium Burgi 29. Gli infermi si riuniscono more capitolari, all’inizio nella totalità dei degenti; col passare del tempo secondo regole variamente stabilite ma che di norma richiedevano la partecipazione dei
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27 MARCHESANI 1999, p. 41. In un documento senza data, ma della fine del Trecento, così vengono sintetizzati i compiti del Precettore: «… Itaque, ipse ellectus et institutus, dic-tam domum tenere, regere et gubernare ac illius fructus, redditus et proventus exigere et per-cipere et in substentatione vestra et leprosorum successorum ac domus huiusmodi utilitate convertere et exponere possit, valeat et debeat, auctoritate apostolica …».
28 MARCHESANI - SPERATI 1981, pp. 79-86 e 290-305. Per il periodo successivo la fonte di riferimento è rappresentata dai citati volumi dei Contratti dei livelli e dai Libri mastri e dai corrispondenti Giornali in ASCG.
29 MARCHESANI - SPERATI 1981, p. 79. Più in dettaglio, in ASCG, fondo Albergo dei Poveri, Ospedale di San Lazzaro, Colonne di San Giorgio intestate all’Ospedale, 1409-1638 e Ristretto dei luoghi spettanti allo Ospedale,1663-1673.
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due terzi dei dimoranti presso la domus in quel momento; solo i malati
due terzi dei dimoranti presso la domus in quel momento; solo i malati