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3.9 TRATTAMENTO

3.9.2 DURATA DEL TRATTAMENTO

La durata ottimale della terapia anticoagulante nell’embolia polmonare è uno degli aspetti più critici della gestione di questa patologia, sulla base del fatto che la scelta di interrompere la terapia al termine della durata convenzionale del trattamento, prolungare il trattamento di qualche mese o addirittura a tempo indeterminato con rivalutazione su base periodica, tipicamente annuale, deriva dal compromesso clinico tra rischio di recidiva embolica in mancanza di terapia anticoagulante e rischio di sanguinamenti, maggiori* e

minori clinicamente rilevanti, sotto terapia anticoagulante (che si attestano su una frequenza di circa 1-2% annui).

Non esistono score appropriati per valutare il rischio di sanguinamento in pazienti in terapia anticoagulante per TEV; fattori di rischio sono: età > 75 anni, precedenti sanguinamenti gastro-intestinali (soprattutto se non associati ad una causa reversibile e temporanea), ridotta funzione renale o epatica, terapia concomitante con antiaggreganti (che andrebbe evitata), precedenti stroke (sia ischemici che emorragici), scarso controllo della terapia anticoagulante o altri condizioni mediche acute o croniche rilevanti.

Un’ampia metanalisi del 2003 ha analizzato l’impatto clinico della terapia anticoagulante in pazienti con pregresso TEV, evidenziando un rischio emorragico per sanguinamenti maggiori su base annua del 7% e un’incidenza del 0,4% di letalità emorragia-correlata in pazienti trattati con anticoagulante per almeno 3 mesi; le implicazioni pratiche a lungo termine sarebbero frequenti controlli ematici, astensione dal lavoro, potenziali reazioni avverse dei farmaci, implicazioni per future procedure mediche o odontoiatriche e implicazioni future sulla qualità di vita. [70]

Si tratta di identificare i pazienti in cui il rischio di recidiva è superiore al rischio di sanguinamento, considerando che il rischio di recidiva è praticamente nullo in corso di profilassi secondaria con anticoagulante (il trattamento a tempo indefinito riduce il rischio di TEV ricorrente del 90%), ma ritorna a livelli elevati al momento della sospensione del trattamento in modo indipendente dalla durata della terapia anticoagulante precedentemente assunta (il rischio di recidiva dopo 6 o 12 mesi di terapia è simile a quello in seguito ai 3 mesi canonici di terapia); il rischio di recidiva può arrivare fino al 10% nel primo anno in seguito alla sospensione della terapia anticoagulante. In uno studio che seguiva i pazienti con primo episodio di EP si è dimostrato che il tasso di recidiva dopo la sospensione dell’anticoagulante era di circa il

*Un sanguinamento viene definito maggiore nei seguenti casi: se sono richieste trasfusioni di almeno due unità di

emoderivati, sanguinamenti intracranici, intrapericardici, intraspinali, intramuscolari con sindrome compartimentale, intraarticolari, emovitreo con perdita del visus, retroperitoneali o che determinino un calo di almeno 2 g/dL di emoglobina.

55 2,5% per anno in pazienti con EP “provocata” e fino al 4,5% per anno in pazienti con EP apparentemente “non provocata” [71].

Inoltre la scelta della durata si basa sulla distinzione di embolia polmonare tra apparentemente “provocata” e “non provocata”; questa distinzione viene eseguita sulla base del riconoscimento o meno di un fattore predisponente che può essere rimosso o che è effettivamente stato rimosso: in caso di embolia polmonare provocata (tipicamente in corso di immobilizzazione transitoria, intervento chirurgico, politrauma, etc..) la durata del trattamento va dai 3 ai 12 mesi, nei casi “non provocati” invece il trattamento è solitamente mantenuto a tempo indeterminato rivalutando in corso di follow-up il paziente. La durata minima del trattamento è comunque di 3 mesi. Esistono dei parametri con cui si può identificare, nell’ambito dei pazienti con EP non provocata, pazienti a rischio maggiore di recidiva a lungo termine: uno o più episodi di TEV, SAPL, trombofilia ereditaria, trombi permanenti a livello prossimale del sistema venoso profondo evidenziati all’Ecocolordoppler e disfunzione ventricolare destra persistente all’Ecocardiografia [72]. Più recentemente è stato proposto un ruolo anche per la persistenza di residui difetti perfusori alla SPP di follow-up eseguite a 3/6 mesi dopo l’evento acuto: nei pazienti dello studio citato con almeno due segmenti persistentemente non perfusi alla SPP di follow-up, la probabilità di ricorrenza di TEP era significativamente più elevata; per cui, se opportunamente indagato in futuro, questo aspetto potrebbe avere un ruolo nel guidare la terapia ottimale anticoagulante in seguito a un primo episodio sintomatico non provocato di EP [73].

In pazienti portatori di alterazioni trombofiliche, quelli con positività al LAC (Lupus Anti-Coagulant), deficit delle proteine C e S, omozigosi per il fattore V di Leiden e per la protrombina G20210A potrebbero essere candidati ad una terapia a tempo indeterminato, mentre mancano ancora evidenze di questa necessità in pazienti con eterozigosi per il fattore V di Leiden o la protrombina G20210A.

La recidiva di TEV non dipende dalla manifestazione clinica del primo episodio, anche se il TEV che si è manifestato la prima volta come TEP tende a recidivare come EP sintomatica, mentre in pazienti in cui si è manifestata come TVP tende a ricorrere come trombosi venosa profonda [74].

In pazienti che sviluppano recidiva (entro cui è compresa anche la sola TVP in assenza di TEP) in seguito a sospensione della terapia, quest’ultima è ripresa solitamente a tempo indefinito; approcci ulteriori che potrebbero aiutare nell’individuare il rischio di recidiva del pazienti sono la ricerca delle mutazioni geniche dei fattori della coagulazione (che non ha però prodotto risultati soddisfacenti) e il dosaggio del D-dimero ad un mese dalla sospensione della terapia (livelli persistentemente elevati deporrebbero per un rischio aumentato di recidiva; livelli nella norma sembrerebbero essere un fattore protettivo con RR di 0,4 [75]). [49]

Nella TEP acuta senza instabilità emodinamica, oltre al trattamento con anticoagulante, potrebbero rendersi necessari altri provvedimenti terapeutici.

Dal punto di vista del supporto emodinamico, un rimpiazzo volemico modesto (circa 500 mL) potrebbe favorire un aumento dell’indice cardiaco in pazienti con bassa portata cardiaca in condizioni di

56 normotensione; oltre a questo, in questa condizione, potrebbe essere valutato l’uso di dobutamina e/o dopamina per aumentare l’indice cardiaco.

Dal punto di vista del trattamento trombolitico, questa terapia dovrebbe essere intrapresa in pazienti con rischio intermedio-alto secondo la classificazione prognostica PESI alla comparsa di segni di scompenso emodinamico come shock o ipotensione persistente. In pazienti che devono iniziare il trattamento di trombolisi in terapia con LMWH o fondaparinux, l’iniezione di UFH dovrebbe essere ritardata a 12 ore dopo l’ultima iniezione di LMWH (in bi-somministrazione) o ad almeno 24 ore dall’ultima iniezione di LMWH (in mono-somministrazione) o fondaparinux. Visto il rischio aumentato di sanguinamento durante la trombolisi e la conseguente possibilità di dover antagonizzare l’effetto anticoagulante dell’eparina, in queste situazioni è preferito proseguire la terapia con UFH per molte ore dopo la fine della trombolisi, prima di fare lo switch verso le LMWH o il fondaparinux.

I benefici clinici del trattamento trombolitico in pazienti normotesi senza instabilità emodinamica sono stati oggetto di controversie nel corso degli anni. Il trial randomizzato, in doppio-cieco, “Pulmonary Embolism Thrombolysis (PEITHO)” ha confrontato in 1006 pazienti con rischio intermedio il trattamento con un singolo bolo (aggiustato in base al peso corporeo) di tenecteplase/eparina con la sola eparina in pazienti che presentavano sia disfunzione ventricolare destra documentata all’ecocardiografia o alla TC sia elevazione dei markers di danno miocardico/sovraccarico ventricolare; il trial considerava come outcome primario di efficacia un outcome composito di morte per tutte le cause o scompenso emodinamico durante un’osservazione di 7 giorni; questo outcome era significativamente ridotto nel gruppo dei pazienti trattato con tenecteplase rispetto alla sola eparina, evidenziando però un rischio aumentato di sanguinamenti maggiori o stroke emorragico, che in questo trial si mostrava essere del 2% circa [76].

Nel paziente con TEP acuta senza instabilità emodinamica con un basso rischio di outcome sfavorevole precoce, l’ipotesi della dimissione e del trattamento a domicilio deve essere presa in considerazione. Tra gli score predittivi, il PESI è il più estesamente validato ed in particolare le classi PESI I e II sono il criterio di inclusione per l’”early discharge”; il sPESI possiede un’elevata sensibilità nell’identificare le TEP acute a basso rischio, ma il suo valore nell’identificare i pazienti candidabili per la dimissione precoce ed il trattamento a domicilio deve essere ancora indagato. Un trial randomizzato in 19 centri su 344 pazienti arruolati ha utilizzato le classi I e II (basso rischio) PESI come criterio di inclusione per dimostrare la non- inferiorità del trattamento a domicilio rispetto a quello intraospedaliero: i pazienti erano o dimessi nelle prime 24 ore dalla diagnosi o avviati alle cure ospedaliere, in entrambi i gruppi con enoxaparina sottocute due volte al dì (per almeno 5 giorni) e terapia con VKA per almeno 90 giorni. L’outcome primario di efficacia considerato era il TEV ricorrente e sintomatico e come outcome di efficacia si considerava il rischio di sanguinamenti maggiori (tra i 14 e i 90 giorni) e la mortalità a 90 giorni. Il risultato deponeva per la possibilità di trattare il paziente a domicilio in assenza di aumentato rischio di TEV ricorrente, sanguinamenti maggiori o mortalità totale [77].

57 Lo studio Hestia è uno studio prospettico multicentrico in 12 ospedali dei Paesi Bassi che ha valutato l’efficacia e la sicurezza del trattamento a domicilio in 297 pazienti dimessi entro le prime 24 ore con LMWH (nadroparina s.c) e VKA (iniziati a partire dal primo giorno dalla diagnosi), considerando come outcome primari di efficacia e sicurezza il TEV ricorrente, i sanguinamenti maggiori e la mortalità totale durante il follow-up di tre mesi. I criteri di inclusione erano un’età di almeno 18 anni e una TEP acuta confermata; i criteri di esclusione erano i seguenti: instabilità emodinamica, necessità di trombolisi o embolectomia, sanguinamenti attivi o elevato rischio di sanguinamento attivo, necessità di più di 24 ore di supporto di ossigeno per mantenere una saturazione >90% o di una terapia infusionale per il dolore, necessità di ricovero oltre le 24 ore, ClCr <30 mL/min, diagnosi di TEP acuta durante terapia anticoagulante, alterazione funzione epatica, gravidanza o storia di precedente trombocitopenia eparina-indotta. Il tasso di TEV ricorrente dimostrato in questo studio era del 2%, di cui nessun caso fatale, simile al tasso di ricorrenza in pazienti che ricevono appropriata terapia anticoagulante in regime di ricovero ospedaliero, mentre il tasso di sanguinamenti maggiori era del 0,7%; i criteri Hestia di selezione del paziente non sono stati ancora validati e riproposti esternamente [78].

Il ruolo del dosaggio del NT-proBNP come marker di laboratorio per selezionare i pazienti che possono essere trattati a domicilio è stato studiato in uno studio prospettico in 5 centri su 152 pazienti con età > 18 anni con TEP acuta confermata e NT-proBNP < 500 pg/mL in cui nessun paziente ha presentato TEV ricorrente o sanguinamenti maggiori durate i 3 mesi di follow-up.

Il valore dell’ecocardiografia o la TC per l’esclusione di disfunzione ventricolare destra prima della dimissione non sono ancora stati studiati in trial clinici.

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