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Eduardo de Filippo e Carlo Cecchi: “Napule è nu paese curiuso”

1. P RIMO TEMPO DI FORMAZIONE: L‟ATTORE REGISTA (1959-1971)

1.5 Eduardo de Filippo e Carlo Cecchi: “Napule è nu paese curiuso”

Napule è nu paese curiuso: è nu teatro antico, sempe apierto. Ce nasce gente ca, senza cuncierto, scenne pe‟ ‟e strate e sape recità244

. All‟indomani del Woyzeck del 1969 e prima della nascita dello storico Granteatro nel 1971, si colloca l‟esperienza concreta di Carlo Cecchi “a bottega” da Eduardo. Nel maestro e nel fermento popolare napoletano il giovane attore-regista sembra trovare la metà mancante del suo teatro: è proprio quando agli elementi più d‟avanguardia egli aggancia una tradizione che nasce il «Granteatro».

I contatti tra De Filippo e Cecchi, che si concentrano nella stagione 69- 70, furono incentivati dalla collaborazione con attori eduardiani, in particolare Angelica Ippolito, che lavora negli stessi anni con entrambi. Sappiamo che dopo Woyzeck, Cecchi e Peter Hartmann, regista du coté de chez Living, cominciano ad organizzare l‟allestimento di Lu curaggio di nu pompieri napuletano di Scarpetta nell‟adattamento di Eduardo (che poi lo stesso Eduardo metterà in scena nel 1974); l‟operazione sfuma, ma l‟attore fiorentino viene coinvolto nel progetto di messinscena di Il monumento di De Filippo (per problemi di vario ordine lo spettacolo debutterà solo nel 1970 e senza Cecchi).

Nello stesso frangente, finalmente, l‟attore interpreta la parte di Federico in Sabato, Domenica e Lunedì (1969), svolgendo anche la funzione di assistente alla regia, così come è aiuto regista per la riproposta di Le voci di dentro del 1969. Tra il capocomico e il giovane attore si crea un rapporto che Cecchi definirà “schizofrenico”, amicale e nel contempo fatto di incompatibilità, purtuttavia dall‟effetto fecondo e di lunga durata. Cecchi racconta che fu Eduardo stesso a consigliargli di recitare in napoletano nella maschera che era stata di Eduardo Scarpetta, quella di Don Felice Sciosciammocca; non è dunque un caso che lo spettacolo inaugurale della Cooperativa Il Granteatro sia stato appunto Le Statue movibili di Petito (marzo 1971, Beat 72 di Roma). E non è infine per caso che padrini di battesimo di quello che sarà, nonostante le diverse etichette, uno degli ensemble più longevi del nostro teatro, siano stati Elsa Morante e appunto Eduardo De Filippo.

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Quello che costituisce quasi un capitolo a parte nella formazione di Cecchi, per amore di chiarezza, sarà trattato seguendo una suddivisione funzionale alla ricognizione a tutto tondo sull‟influenza di Eduardo nel teatro di Cecchi. Tre sotto- paragrafi saranno dunque dedicati ciascuno ad aspetti differenti. Alla questione della scelta dell‟universo teatrale napoletano: Alla ricerca di una tradizione: il ruolo centrale della forma-farsa; allo specifico del lavoro di scena: I tre livelli di influenza di Eduardo De Filippo nel teatro di Carlo Cecchi; alla descrizione di un comune atteggiamento nei confronti del teatro, che fungerà anche da conclusione di questa prima tranche formativa del giovane attore-regista: Come un epilogo: l‟identificazione con il teatro.

Alla ricerca di una tradizione: il ruolo centrale della forma-farsa

«Popolare» e «avanguardia» non furono termini opposti fino agli anni ‟10. […] Quei due termini si dissociarono, fino a farsi antagonisti, con lo pseudo-avanguardismo fascista e con il populismo di destra e di sinistra, restando tali per mezzo secolo; poi, se il ‟68 sembrò riavvicinarli, negli anni ‟80 la cultura delle strutture sancì che inducevano a una dialettica ottocentesca. […] In tal senso fu vissuta la sintomatica dissolvenza incrociata degli anni ‟60-‟70, per cui alla nascita del Nuovo Teatro corrispose la fine, o quasi, degli spettacoli intimamente popolari245.

Altra necessaria premessa per non ingarbugliare i fili della formazione di Cecchi è chiarire in quale rapporto si ponga il Cecchi degli anni ‟60 con l‟universo teatrale a lui contemporaneo – in cui Meldolesi registra il movimento di avvicinamento e distacco tra popolare e avanguardia – e cosa abbia fatto scattare il riconoscimento di Eduardo quale maestro, custode della tradizione da far propria. Ciò che incuriosisce ragionando sul primo Cecchi è questa sua tendenza alla ricerca (alla dialettica tra gli opposti di cui sopra); parlando di lui si è soliti affiancare i termini tradizione e sperimentazione, senza specificare il fatto che se la sperimentazione è consustanziale alla sua generazione e che quindi gli è naturale, la tradizione è una conquista, anche perché quella cui arriva è una tradizione non genealogicamente sua.

La tradizione è paradossalmente l‟elemento estraneo e dunque è “la teatralità”, teatralità tanto consolidata e storicamente acquisita in un patrimonio di tecniche e mestiere, da non conferire falsità, ma autenticità al suo teatro e alla sua recitazione.

245 Claudio Meldolesi, Questo strano teatro creato dagli attori artisti nel tempo della regia che ha rigenerato l‟avanguardia storica insieme al popolare, in «Teatro e Storia» a. XI, n. 18, 1996, pp. 15-

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Lo sottolinea Franca Angelini in un confronto del 1976 tra la poetica genettiana e quella eduardiana nel teatro di Cecchi:

Una nozione accomuna Eduardo, il teatro napoletano e dialettale, e il drammaturgo francese [Genet], quella della “teatralità”, all‟opposto della mimesi e del realismo, si muove per estrazione e condensazione, allusione e metafora, utilizzazione dei mezzi essenziali di cui la scena dispone. La “teatralità” serve, in concerto, a convertire il teatro dialettale, con accentuazione della distanza e una riduzione a schemi comici fondamentali, al teatro dell‟avanguardia. I Petito di Cecchi sono messi in scena come preziosi tessuti meccanici in cui varietà, burattini, canzonette, passano al filtro di Mejercho‟d e della biomeccanica; i tempi della biomeccanica nella memoria di una tradizione italiana, e coi suoi mezzi specifici246.

Si tratta di una teatralità che fa uso dei mezzi di cui la scena dispone, quindi degli elementi essenziali del rito teatrale: testo, attore, pubblico. Attraverso l‟uso non corrotto di questi elementi che vede pulsare a Napoli, e che apprende osservando Eduardo attore, Cecchi riesce a far confluire e dialogare nel suo teatro l‟antica tradizione popolare italiana, che non è solo Eduardo, ma che risale indietro da Scarpetta a Petito, ai comici dell‟Arte e il teatro europeo pressoché contemporaneo dei maestri della regia europea e dei grandi testi.

Prima ancora di Eduardo – dice Cecchi – è stato determinante l‟incontro con il caleidoscopico universo teatrale napoletano dell‟inizio degli anni Sessanta, quando a Napoli frequentavo l‟Università; andavo al Trianon, al Duemila, e scoprivo artisti sublimi come Trottolino, Beniamino Maggio, Lino Crispo, Formicola. Era stata, la mia, un‟attrazione immediata, e in quest‟attrazione c‟era un riconoscimento profondo: “Questo è il teatro”; un teatro che era l‟ultima testimonianza vivente di quella che si chiama tradizione247.

Cecchi parla di attrazione immediata, che si ricollega ad una predilezione nei confronti del “gioco” teatrale, di un palcoscenico abitato con iniziale e adattativa istintualità, palcoscenico da liberare da qualsivoglia pretesto retorico-teorico o intellettualistico; aspetti questi che non vengono tralasciati ma criticizzati.

«Quali erano i fari teorici per uno che si occupava di teatro in quegli anni? Brecht, ma prima di tutto in ordine logico per me Artaud, i grandi russi, Mejerchol‟d specialmente e Vachtangov». || Stanislavskij no? || «No, Stanislavskij è stato per me una scoperta successiva: tutti vengono di lì, però per me è venuto molto più tardi. Poi c‟erano gli spettacoli del Berliner che avevo visto, non potevo vedere quelli di Artaud, di Mejerchol‟d non è rimasto niente. Ero molto acceso contro quella che mi sembrava la piattezza del teatro per cui venivo preparato, e quindi cosa potevo opporvi? Teatri e teorie, e pratiche del teatro differente»248.

Da questo stralcio di conversazione è possibile fotografare l‟effervescente panorama europeo, e non solo, che si poteva intravedere in quegli anni e che già

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Franca Angelini, Su un teatro «teatrale»: L‟Uomo, la Bestia e la Virtù di Carlo Cecchi, in «Rivista di studi pirandelliani», n. 1, marzo 1984, p. 109.

247 Carlo Cecchi in Simonetta Izzo, Grazie a lui sono stato Felice, in «Hystrio», aprile-giugno 2000. 248 Carlo Cecchi in Franco Quadri, Carlo Cecchi, Palermo e una trilogia, in La porta aperta,

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andava a formare il bagaglio culturale del giovane Cecchi, il quale, come si diceva, “sceglie” sulla base di una consapevolezza e di una cultura teatrale già molto ricca. Sappiamo ad esempio che Cecchi vide Madre Courage del Berliner già nel 1960 a Parigi249, ma è da sottolineare come diventi focale l‟accostamento di una cultura altra, “di lunga durata”, per rendere le teorie e le pratiche di Brecht, e non solo le sue, funzionali mezzi del proprio teatro.

Ma poi andavo a vedere il varietà napoletano e i capitoli sullo straniamento li trovavo miracolosamente al Trianon o al Teatro Duemila, in un teatro più assoluto del Berliner Ensemble; alla base c‟era una simpatia immediata per quegli attori, però riflettendo criticamente mi trovavo a osservare: “Ma come, Trottolino e Beniamino Maggio sono altro che „distanziati‟, altro che „biomeccanici”. Constatavo l‟immediatezza semplice del rapporto tra una scena, per citare Benjamin, e una sala, che era quella dei teatri napoletani quando stavo all‟Università250

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Cecchi scopre a Napoli un modo diverso di fare teatro, un teatro che comunica il “come è” (formula attraverso la quale Cecchi indica la recitazione autentica) pur trovandosi al grado massimo di convenzionalità, ma di una convenzionalità culturalmente e antropologicamente condivisa:

Nel teatro napoletano esistono medi, piccoli e minimi attori, ma è quello spazio che è diverso. È un diverso modo di essere in quello spazio, dove l‟elemento gioco, il play, è molto importante, vitale. In teatro avviene nel momento in cui avviene, lì e allora, e questo non l‟ho mai ritrovato nel teatro italiano251.

Il Cecchi ventenne è immediatamente e istintivamente portato a guardare alle innovazioni e allo sperimentalismo dell‟orizzonte europeo (e non solo europeo), ma attraverso il recupero del microcosmo tradizionale, di una tradizione particolare che è quella napoletana, sebbene non riducibile al solo Eduardo: «lui era la punta dell‟iceberg ma c‟era un enorme teatro vivente popolare come la sceneggiata o il varietà»252. Tuttavia è grazie all‟approccio eduardiano alla tradizione che il giovane Cecchi filtra nel suo teatro le due macro-aeree alle quali ci si riferisce: le teorizzazioni e sperimentazioni europee (Brecht e Artaud) e la tradizione popolare italiana. È l‟Eduardo drammaturgo-attore e regista, innovatore della tradizione napoletana, a diventare da un lato tramite tra Brecht e Petito, dall‟altro tra Petito e Artaud.

249 Carlo Cecchi in Stefano De Matteis, Vittorio Dini, Intervista con Carlo Cecchi. La lingua, il corpo, la scena, cit., p. 32.

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Carlo Cecchi in Franco Quadri, Carlo Cecchi, Palermo e una trilogia, cit., p. 55.

251 Carlo Cecchi in Maurizio Grande, Datemi un attore, in «Rinascita», n. 37, 1984.

252 Carlo Cecchi in intervista audio di Giovanni Fattorini, RSI RETE DUE, riportato in Marta Porzio, La resistenza teatrale in Italia: Il teatro di ricerca a Napoli dalle origini al terremoto, Roma, Bulzoni,

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Per quanto riguarda la prima linea di influenza si può focalizzare l‟attenzione sull‟Eduardo drammaturgo e regista, in modo da concentrarsi sulle tecniche attraverso le quali ritraduce e ricolloca una certa idea vicina allo straniamento nella bottega del suo teatro. Cecchi scopre sulla scena del maestro una scrittura di primo grado, epica e straniante per tradizione e non per imposizione (si pensi a tutto quel teatro popolare di cui Eduardo è solo la punta dell‟iceberg). Lo straniamento in Eduardo è uno strumento, non un “fine”; ciò che lo salva dal suo statuto di teoria è “lo spazio”, che, così legato ad una tradizione di lunga durata (Petito ecc.) crea un rapporto immediato tra scena e pubblico e consente di verificare l‟efficacia delle tecniche dello straniamento nell‟immediatezza di quel rapporto. Cecchi impara attraverso il filtro eduardiano ad applicare a tutti i testi che intende proporre le forme e le dinamiche teatrali della tradizione popolare. Da questa prospettiva le teorie di Brecht a proposito dello straniamento e del teatro epico si ritrovano spesso nelle parole del Nostro. Egli porta avanti, in particolare durante i primi anni del Granteatro, una “critica” rivolta all‟auspicabile superamento della “teoria” in modo che quelle riflessioni possano trovare in scena una loro sempre nuova verifica, rimanendo utilissime nella “scatola degli attrezzi” dell‟attore, ma al contempo continuamente aggiornate e messe alla prova. Racconta Cecchi:

[…] Nel recitare va da sé, o dovrebbe andare da sé, che ci sia quello che, da Brecht in poi, si può dire un elemento brechtiano. E poi vengo a dire cosa è poco interessante, cosa giustamente è caduto presto nella teoria brechtiana. C‟è un elemento sostanziale, che è appunto il fatto che recitare è raccontare agendo e agire raccontando: attraverso ciò che faccio racconto Amleto e attraverso il raccontare Amleto faccio Amleto. Questa dialettica è dentro il recitare. […] Ciò che ormai è poco interessante e riduttivo nella teoria di Brecht è il rapporto fra l‟attore e il personaggio, che secondo lui dovrebbe essere un rapporto quasi da funzionario di non so quale ministero: dovrei mostrare il personaggio affinché poi il pubblico prenda coscienza… tutte balle, perché invece le cose più interessanti di Brecht come regista sono quelle in cui tutto questo non c‟è. Allora riferiamoci al lavoro di Brecht come uomo di teatro, non alle sue teorie! Per tornare alla domanda, certo, il recitare in una lingua non mia, il napoletano, è stato un esercizio di straniamento253.

Ed è qui che Eduardo svolge la sua funzione di chiave:

Il punto intermedio fu Eduardo, il teatro di Scarpetta e le sceneggiate che avevo visto da ragazzo a Napoli. Esiste un territorio del teatro italiano al di là del cimitero che è il teatro in lingua (detto anche birignao) e ad esso intendevo riferirmi (intendo soprattutto ad “esso” come recita di esso). Con riferimento appunto a un rapporto tra un attore e una cultura e una tecnica, un rapporto con un linguaggio vivente e reale. Questa è la

253 Stefano De Matteis, Vittorio Dini, Intervista con Carlo Cecchi. La lingua, il corpo, la scena, cit. p.

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tradizione che il Granteatro riconosce e in rapporto a essa e ai suoi strumenti, forme, modi, tecniche, il teatro è possibile254.

Viene ravvisata, ancora in Eduardo, e in uno dei sui testi più amati – amato anche da Cecchi che lo porterà in scena a più riprese dal 2000 – Sik Sik, l‟artefice magico, quella componente epica che si fonda sulla necessità di un racconto autentico. L‟Angelini si serve degli Scritti teatrali di Brecht per esemplificare la natura epica di Sik Sik. Il riferimento va all‟osservazione di Brecht sul modello-base del teatro epico. Scrive Brecht:

È relativamente semplice costruire un modello-base per il teatro epico. Per esperimenti pratici, io solevo scegliere come esempio di teatro epico elementare, e per così dire «naturale», una scena che può accadere a un qualsiasi angolo di strada: il testimonio oculare di un incidente stradale mostra a un assembramento di gente come è capitata la disgrazia. I presenti possono non aver visto il fatto o semplicemente essere di parere diverso dal dimostratore, «vederlo altrimenti»; ciò che importa è che il dimostratore rappresenti il comportamento dell‟autista o del pedone investito, o di entrambi, in modo tale che gli astanti possano formarsi un‟opinione sull‟incidente255.

Il punto di incontro tra il testimone di Brecht e il guitto Sik Sik sta nell‟atto di raccontare. Il prestigiatore, infatti, per reclutare in strada una nuova spalla improvvisata, “racconta”, metateatralmente o epicamente, a Rafele la struttura dello spettacolo, svelandole a priori il trucco, il presunto naturalismo.

L‟invenzione di Eduardo sta nel contro-numero, nel numero interrotto ovvero fallito; sta nella epicizzazione consapevole del numero di Varietà, nella messa a nudo del trucco, nel percorso che si inceppa, che tartaglia e perciò mostra come è fatta la parola. In Sik

Sik, del 1929, il fallimento ovvero il contro-numero mette di fronte, in collisione

tragicomica, illusione e realtà ma anche scena e pubblico; Nicola si sottrae al ruolo di falso pubblico che l‟illusionista vorrebbe assegnarli e, nel ruolo di pubblico „vero‟, fa fallire l‟illusione256.

Anna Barsotti in riferimento al malinteso naturalismo di Eduardo colloca spazialmente la sua operazione innovatrice e l‟aggancia, al di là e oltre il brecthismo, ad una tradizione:

La drammaturgia di Eduardo, partendo da una tradizione napoletana che affonda le sue radici nel «teatro dei professionisti», dei comici dell‟Arte (attori ma spesso anche attori-autori), giunge alla rifondazione di un teatro dove l‟individuazione dello spazio

dell‟attore in rapporto con quello del personaggio, ma anche con quello dello

spettatore, porta all‟inclusione del pubblico stesso e del suo spazio nello spettacolo. Non attraverso un processo intellettuale o metafisico (come in Pirandello) ma attraverso un processo fisico257.

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Carlo Cecchi, Lo spazio tragico, in Franco Quadri, L‟avanguardia teatrale in Italia, materiali

1960-1976, Torino, Einaudi, 1977, p. 391.

255 Berthold Brecht, Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 1962 (1957).

256Franca Angelini, Rasoi: teatri napoletani del „900, Roma, Bulzoni, 2003, p. 59. 257

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Il naturalismo è considerato da Cecchi, e uguale funzione riveste anche in certe pièce di Eduardo, “una prigione” necessaria però all‟attore in quanto “situazione” scatenante della farsa258. Quanto più quotidiana risulta essere la situazione, tanto più simpatetico sarà il riconoscimento con essa del pubblico e tanto più “dirompente” sarà l‟esplosione dell‟antinaturalismo farsesco, “interferenza” che scatena il riso. Eduardo, in questo senso, è stato soprattutto per Cecchi una tradizione vivente, ma già nel lavoro del maestro la tradizione aveva quella caratteristica di apertura e dialogo con il fuori che il regista-attore ha incentivato ed espanso. Eduardo ha sempre parlato della tradizione come di un trampolino da cui ottenere più slancio, “slancio” già vivo in lui, rivolto verso il nuovo e non verso il museale.

Eduardo lo dice a suo modo nel 1983 a Montalcino: «Se un giovane sa adoperare la tradizione nel modo giusto, essa può dargli le ali… se ci serviamo della tradizione come d‟un trampolino… arriveremo più in alto che se partissimo da terra». Il trampolino di Eduardo è il comico delle parodie, dei travestimenti, della coppia Pulcinella- Sciosciammocca nella versione greve di Petito259.

Quindi della forma-farsa.

Approfittando della sagoma dello Sciosciammocca partenopeo è possibile esemplificare un rimando diffuso alla poetica artaudiana, recuperando così il secondo termine al quale si faceva riferimento a proposito della funzione di Eduardo come filtro, ovvero quello relativo ad Artaud e Petito. In questo caso l‟attenzione si sposta sull‟Eduardo attore e nello specifico sulla lingua del corpo di questo attore popolare: un corpo dolente, un corpo “in lingua”, una lingua a suo modo originaria, come quella ricercata da Artaud. Prendendo come esempio la messinscena di Le state movibili di Antonio Petito, nella versione di Cecchi del 1971, rintracciamo il teatro della crudeltà di Artaud in un atteggiamento di “cattiveria” da parte dell‟attore nei confronti del suo personaggio. L‟effetto di oscuramento e ombreggiatura, causata da una recitazione dalla fisicità a tratti violenta e dolente come quella dell‟attore fiorentino, è incentivata dal cortocircuito con la maschera tragica, ma pur sempre allegra, della tradizione farsesca partenopea. L‟esperimento si dimostra infatti riuscito perché applicato adesso alla forma-farsa, e non ad un contenitore tragico, o tragi-comico, come poteva essere il primo Woyzeck. In questo cambio di direzione

258«Ne L‟uomo, la bestia e la virtù abbiamo imprigionato in uno spazio strettissimo sia il

“naturalismo” nel senso proprio in cui il naturalismo è una prigione per l‟attore ma è la “situazione” della farsa, sia la maschera, che è l‟emblema della teatralità. La recitazione dell‟attore rappresenta qui il punto di equilibrio tra situazione e teatro, naturalismo e maschera»; Carlo Cecchi in Franca Angelini, Su un teatro «teatrale»: L‟Uomo, la Bestia e la Virtù di Carlo Cecchi, cit., p. 113.

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viene recuperata quella metà popolare assente nell‟allestimento del Woyzeck pre- eduardiano.

La sua cattiveria personale [di Cecchi] è di aver «ombreggiato» il Don Felice celeberrimo napoletano in una serie di presenze-assenze, le une ordinate per compensazione di gesto-parola e le altre di sguardo-movimento, su una filigrana di conoscenze e di ammiccamento, di relazioni e di rinvii. […] È chiaro che lo studio di Cecchi per questa sceneggiata ha il limite della sperimentazione di un metodo di lavoro che si è visto assai bene nel Woyzeck di un paio di anni fa; metodo di lavoro che comporta un tracciato ed un procedimento, di chiarissima identificazione straniante e però di violentissima trascrizione corporea260.

Pur nella negativa considerazione di fondo, Bartolucci sottolinea la volontà di sperimentazione e ne indica una direzione che, tornando ancora a Meldolesi, è quel