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Storia di un teatro Parteno-europeo

2. S ECONDO TEMPO DI FORMAZIONE: IL CAPOCOMICO (1971 1980)

2.1 Storia di un teatro Parteno-europeo

Il secondo capitolo di questo elaborato si concentrerà sull‟attività del decennio Settanta; periodo effervescente e certamente favorevole all‟affermazione dell‟attore- regista e della sua compagnia. Il Granteatro si organizza ufficialmente come cooperativa nel 1971, probabilmente sulla scia di quella rinnovata «spontaneità produttiva» – di cui parla Meldolesi341 – contraddittoriamente favorita da «un‟iniqua politica erogatrice» di sovvenzioni che in quegli anni si stava sensibilmente allargando andando a sostenere, seppure con investimenti modesti, situazioni molto «decentrate» rispetto al teatro ufficiale. Lo studioso, a conclusione del suo libro dedicato alla regia, si sofferma proprio sulla particolare situazione teatrale italiana degli anni Settanta; riteniamo sia utile riepilogare tali riflessioni perché particolarmente attente alla dialettica, e non alla netta contrapposizione, tra spettacoli “conformisti” e “innovatori”, inseriti entrambi da Meldolesi nella griglia di una rinnovata corrente critico-registica:

Verso il 70, la cultura critico-registica poteva essere riproposta sia dai teatri in polemica con il pressapochismo corrente, sia da quelli portati alle modernizzazioni più banali. Non si trattava tuttavia di una cultura trasparente. Si pensi all‟inopinato intellettualismo degli spettacoli conformisti del periodo, e si pensi al tradizionalismo involontario di tanti spettacoli innovatori342.

I primi anni Settanta si configurano allora come contesto attivo, aperto e libero, privo dei consueti giudizi preconcetti che separavano, e separeranno, a priori il teatro “nuovo” e sperimentale da quello ufficiale e tradizionale, come se sperimentazione e tradizione non potessero coesistere nel lavoro di scena. A favorire tale apertura, nota lo studioso, furono soprattutto critici avveduti che seppero produrre ad inizio decennio «notevoli analisi panoramiche»343 che consideravano le regie italiane del periodo come un insieme, sia che si trattasse delle produzioni degli stabili o delle compagnie accreditate, sia nel caso di neonati e interessanti gruppi, tra cui – ed è per

341

Cfr. Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, cit., p. 544.

342 Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, cit., pp. 545-546. 343 Cfr. Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, cit., p. 548.

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questo che tale riflessione ci interessa –, anche il Granteatro di Cecchi. Meldolesi si riferisce alle raccolte critiche di Quadri, Bartolucci, Chiaromonte, Pandolfi, De Monticelli.

Rileggendo e ripensando, mi sono accorto dell‟eccezionalità di quel momento per la nostra intelligenza teatrale. Poi, due o tre anni dopo – seppur con logiche diverse – si riprese dovunque a considerare il teatro non tradizionale come una cosa a parte; compiendo un duplice errore: quello di dimenticare che la distinzione tra teatro tradizionale e non tradizionale, se assunti in termini frontisti, sarebbe divenuta opportunista e negatrice delle molteplicità reali; e quello di veder solo il significato etico del non tradizionale, ignorandone il significato storico344.

L‟ottica errata che si ristabilì di lì a poco portò come risultato ultimo all‟isolamento di certe esperienze di sperimentazione e alle loro, a volte vuote, derive. Perfettamente in linea con l‟analisi di Meldolesi è il caso di Carlo Cecchi: teatro di tradizione e di sperimentazione a un tempo e, si potrebbe osare, per statuto. Proprio nel 1971 questo gruppo definisce il suo profilo professionale costituendosi, come si accennava, in compagnia. Furono anzitutto Quadri e Bartolucci, in notissime “analisi panoramiche” come La politica del regista e L‟Avanguardia teatrale, del primo, e La politica del nuovo, del secondo, a raccogliere e criticizzare il periodo d‟esordio del Granteatro, attraverso uno sguardo intelligente che seppe cogliere a pieno la dialettica che Cecchi istituiva tra la tradizione – quella napoletana – e la volontà nuova di cercare un linguaggio inedito, la sperimentazione.

Sottovalutare, nel caso di Cecchi, il peso della tradizione vorrebbe dire eliminare Eduardo e cancellare Napoli dalla storia biografica del regista-attore. Operazione impossibile se si considera che Napoli è ancora in quel 1971 orizzonte di riferimento principale per Cecchi345: lo spettacolo d‟esordio del gruppo è (a ulteriore conferma di quanto affermato sulla scia meldolesiana) Le statue movibili (1971) di Antonio Petito, una Napoli prima di Eduardo, dunque, e di cui lo stesso maestro, in un certo senso, si fa tramite e garante portando a battesimo la compagnia. Ricordiamo le dichiarazioni346 di Cecchi stesso quando afferma che padrini di battesimo, al momento della costituzione della cooperativa, furono appunto Elsa Morante e Eduardo De Filippo, scrittrice e dramaturg la prima, drammaturgo, attore- autore e regista, di una certa “tradizione”, l‟altro.

344 Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, cit., p. 548.

345 Di Napoli, dell‟apprendistato con Eduardo e del rapporto stratificato e interessante del Granteatro

con la tradizione italiana e soprattutto napoletana si è già detto nel primo capitolo.

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«I nostri padrini di battesimo del “Granteatro”, furono Elsa e Eduardo. Che padrini! Si cercava il nome della compagnia. Elsa disse: «Perché non lo chiamate “Granteatro”? Il “Piccolo” c‟è già…»; Carlo Cecchi, cit., in Concetta D‟Angeli, La triste comicità di Molière, cit.

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Nella bottega eduardiana il giovane attore aveva del resto trascorso un intenso periodo d‟apprendistato successivo allo sforzo del Woyzeck che lo avrebbe preparato ad un nuovo, indipendente inizio; lo spettacolo petitiano segna infatti l‟avvio della fase embrionale, eppure più florida, della compagnia: “Gli anni d‟oro del Garanteatro”. Fanno parte di questa intensa fase di produzione e di messa a punto di un repertorio, oltre alle Statue già citate, messinscene quali Il bagno (1971) e La cimice (1975) di Majakovskij, Tamburi nella notte (1972) di Brecht, A morte dint‟o lietto e Don Felice (1974) ancora di Petito e l‟ultimo Woyzeck (1973), quello torinese, già analizzato. Chiude l‟elenco di questi allestimenti L‟uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello del 1976, spettacolo fortunatissimo di cui, a fine capitolo, verrà proposta una dettagliata analisi favorita dalla videoregistrazione del 1991, curata dal regista stesso. Al nucleo delle prime messinscene fa seguito l‟incontro con la drammaturgia molieriana, di cui si dirà nel capitolo terzo, una Mandragola in maschera (1979) e il primo Pinter di Cecchi, Il Compleanno del febbraio 1980. Dall‟ottobre dello stesso 1980 la compagnia trova sede stabile al Teatro Niccolini di Firenze inaugurando la prima stagione, non a caso, con una ripresa di L‟uomo, la bestia e la virtù.

I sette spettacoli, prodotti tra il 1971 e il 1976, sono particolarmente interessanti perché tendono alla formazione di un teatro di repertorio regolato secondo chiari principi estetici ben riassunti, proprio nel 1976, da un cronista anonimo sulle colonne della «Gazzetta del Popolo» che – a voler testimoniare della curiosità suscitata dal giovane regista e dal giovanissimo ensemble – si chiede e titola il suo pezzo: «Chi è Carlo Cecchi?»:

I principi del proprio modo di far teatro sono così riassunti in una dichiarazione della cooperativa stessa: 1) Il riferimento con una tradizione – cioè con una cultura e una tecnica – al di là di quella ufficiale e codificata attraverso decenni di uso reazionario del teatro: il riferimento cioè alle forme del teatro popolare italiano; 2) l‟uso politico di questa tradizione, ponendola cioè in rapporto ai contenuti e alle tecniche del grande teatro rivoluzionario europeo (esempi: Büchner, Majakovskij, Brecht); 3) l‟affermazione di un linguaggio proprio al teatro, che, nell‟allegria della farsa come nella gravità della tragedia, sia immediatamente comprensibile nei suoi significati e nello stesso tempo testimoni, altrettanto immediatamente, la violenza e il conflitto che, propri al nostro presente storico, non possono essere tenuti fuori da un teatro che questo presente storico intende rappresentare347.

A ben vedere la variabile tradizione è ribadita in tutti e tre i principi attraverso cui il gruppo sintetizza ed espone la propria poetica di base; al punto uno è esplicitata la necessità di far riferimento ad una tradizione, quella del teatro popolare italiano:

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Eduardo, Napoli ma anche la Commedia dell‟arte. Al punto due ecco gli intenti sperimentalistici: tradizione sì, ma politicamente utilizzata in modo da attivare e tradurre per la nostra scena il teatro politico europeo. Le pièces della grande drammaturgia d‟oltralpe, difatti, sulla scena del Granteatro, si ritrovano vivacizzate e colorate da un tocco di meridionalità e dalle tecniche della tradizione comica. Terzo punto: attraverso il lavoro dell‟attore, guidato dai capisaldi dei primi due principi, arrivare alla formazione di «un linguaggio proprio al teatro» capace di parlare al mondo contemporaneo esprimendone le tensioni latenti.

Questa ricerca del linguaggio ha, in ultima analisi, al contempo qualcosa dello scavo all‟indietro, un ritorno alle origini del rito teatrale, immediato e comprensibile, e qualcosa di “a venire”; come a dire che non c‟è possibilità di innovazione al di fuori di una conoscenza profonda dello specifico teatrale, delle sue leggi di «lunga durata» che regolano il lavoro dell‟attore:

Dunque la partita si sta giocando sul terreno dell‟attore. Ma proprio questa condizione che sembrerebbe dar ragione agli ultradelusi, a quanti sentono nell‟aria un salto all‟indietro di mezzo secolo tende a riaprire le prospettive. Quando la temperatura del teatro si misura sotto l‟ascella dell‟attore, vuol dire che l‟ideologia teatralista è debole, priva di efficaci parole d‟ordine generali per la sua prassi mediocre. Ciò comporta una riemersione di elementi della lunga durata teatrale; […] dunque una possibilità d‟iniziativa anche per le realtà registiche non riassumibili nel gioco delle mode348.

Possibilità confermata dalla fortuna del lavoro del Granteatro nel contesto appena descritto; compagnia che proprio negli anni Settanta affina un profilo artistico lontano dal «gioco delle mode» ma che, al contrario, si struttura attraverso una modalità teatrale originale e artigianale, diversa a partire dalle dinamiche di organizzazione interne al gruppo, ai circuiti battuti e al tipo di pubblico al quale ci si vuole rivolgere.

Dati di partenza del lavoro teatrale della compagnia sono: il primato della scena «ma in rapporto al pubblico» e, sulla scena, il primato dell‟attore349. Attore, scena, pubblico: certamente in relazione ai testi che, a cominciare dal debutto del Granteatro, si giustappongono in modo da costituire un‟idea di repertorio, inizialmente, forse, in modo non premeditato, con gli anni acquisendo invece sempre maggiore consapevolezza. Rimandando momentaneamente il discorso specifico su attore e recitazione, gli elementi che ci apprestiamo a chiarire sono: tipologia di compagnia, rapporto col pubblico e carica politica di partenza, circuiti e attività.

348 Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, cit., p. 556. 349

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Quella che Carlo Cecchi costituisce tra il 1968 e 1971 è una compagnia/clan dalle caratteristiche particolari quanto definite: una compagnia laboratoriale- capocomicale organizzata su base cooperativistica; un gruppo di lavoro che integra, anche a livello di struttura, la tradizione delle compagnie di giro all‟antica italiana – non solo Eduardo, ma anche il grand‟attore tardo-ottocentesco (spesso Cecchi cita Eleonora Duse) – e i gruppi di base della sperimentazione contemporanea, dove preponderante è l‟autoformazione e il training. Questi due aspetti sono per il regista imprescindibili se si vuol fare del teatro un mezzo di lotta politica, se attraverso esso si crede di potere veicolare la contestazione. Peccare in tradizionalismo, allora, condurrebbe al museale; cedere alla sperimentazione tout court porterebbe al vuoto della presunta Avanguardia.

Agli occhi del gruppo infatti, le formazioni alternative emerse in questo periodo sembrano aver assunto la contestazione semplicemente come un cliché su cui costruire una prassi scenica capace soltanto di trasmettere messaggi sterili e stereotipi sulla rivoluzione. Ciò che, invece, gli attori intendono promuovere è una ricerca teatrale basata sul rapporto inestricabile tra due aspetti: da un lato approfondire la dimensione popolare dell‟evento attraverso il recupero della tradizione, e dall‟altro modificare il rapporto tra la scena e la sala, misurandosi con spazi e luoghi non deputati alla rappresentazione350.

Gli spettacoli di questa prima stagione del Granteatro, gruppo maturato nel fervore politico e sociale del sessantotto e composto da giovani e giovanissimi attori, nascono dalla fede nella possibilità che il teatro ha di influenzare la trasformazione del mondo. Riprendendo i precetti marxisti e del materialismo storico – anime molto presenti, per esempio, nel teatro di Brecht a cui in questa prima fase il Granteatro guarda attentamente –, il gruppo si convince della necessità di trovare un contatto con il pubblico attraverso la matrice popolare della tradizione (nel caso di Cecchi napoletana). «Esisteva una tensione molto intensa verso il pubblico, una tensione politica […], storica, di trasformazione, eravamo dalla stessa parte, oggi non più»351

, dirà Cecchi in seguito ricordando quegli anni; tale tensione, viva e reale, era resa possibile dal rapporto, in questo caso, tra attore e spettatore, scena e pubblico, instaurabile soltanto in un determinato luogo e in date condizioni. Dice Cecchi:

Col pubblico si stabiliva un rapporto reale, che corrispondeva pienamente al nostro atteggiamento. Bisogna tener conto che si recitava sempre in situazioni diverse da quella del teatro tradizionale: nei circuiti di decentramento, nei quartieri popolari delle

350 Salvatore Margiotta, Il Nuovo Teatro in Italia 1968-1975, cit., pp. 79-80.

351 Carlo Cecchi in Elisabetta Agostini, 1968-1978: esperienze d‟attore, in «Quaderni di teatro», n. 2,

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grandi città. Di conseguenza cambiava anche il nostro modo di recitare, perché naturalmente se cambia la sala, cambia anche la scena352.

La ricerca del pubblico costituiva in quegli anni uno degli obbiettivi cardine, per il Granteatro, infatti, la condivisione di un orizzonte politico prossimo tra scena e sala era una variabile tanto condizionante da influenzare le scelte della compagnia in materia di circuiti e di iniziative alle quali aderire. Non è per caso che nel decennio Settanta troveremo l‟ensemble impegnato in una serie di progetti di animazione teatrale, tutti accomunati da caratteristiche analoghe: nel capitolo precedente si è fatto riferimento all‟operazione di decentramento costituita dal Woyzeck nel quartiere Basse-Lingotto di Torino (1974); il capitolo seguente si soffermerà sul Borghese gentiluomo (1977) prodotto a contatto con la popolazione e gli studenti genovesi; in questo capitolo, invece, esempio di tale modalità di produzione è rappresentato dall‟esperienza della provincia di Reggio Emilia (1974-1975) in occasione dell‟allestimento di La cimice di Majakovskij.

Le vicende appena elencate, se da un lato aiutano a strutturare il discorso sulla spinta ideologica che irrorava lo spirito del gruppo, dall‟altro devono essere considerate anche per l‟importante valore esperienziale e di formazione che costituirono per gli attori della compagnia. Toni Bertorelli, membro del gruppo fin dalla Prova del Woyzeck agli Infernotti (1969), a posteriori ricorda la centralità di quella modalità produttiva e di quel lavoro di costante ricerca nella sua formazione:

Con questo gruppo ho fatto la mia accademia. È stata un‟esperienza di vita e di lavoro indimenticabile […]: la cosa che soprattutto mi è servita è stata l‟esperienza del pubblico, abbiamo girato in quegli anni alla ricerca di un pubblico diverso, che non fosse quello ormai sclerotizzato degli abbonamenti, abbiamo fatto gli spettacoli nei luoghi più assurdi, dalla Casa del popolo di Scandicci ai bar. La ricerca di spazi nuovi e il rapporto con un tipo di pubblico completamente diverso da quello che di solito andava a teatro sono state le cose più formative353.

La compagnia è, come quella capocomicale, luogo di formazione, autoformazione e costante riflessione; questi anni saranno sempre ricordati da Cecchi con una certa dose di nostalgia per lo spirito di estrema autonomia e di libertà entro il quale veniva portato avanti il lavoro artistico; non erano gli attori a doversi adattare ad una determinata forma produttiva o a dei vincoli temporali a discapito del risultato, bensì tutto il contorno, spazio, finanziamenti ecc., appariva subordinato alle esigenze dell‟attore, alle sue necessità artistiche ed espressive. L‟Angelini individua come condizione per questo tipo di lavoro autonomo l‟assestamento della compagnia

352 Ibidem.

353 Toni Bertorelli in Gianni Manzella, Teatro: una faccenda di attori. Conversazione con Toni Bertorelli, in «La porta aperta», n. 13, gennaio-febbraio 2001.

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in una posizione di “centralità marginale” rispetto al mercato e ai modi di produzione vigenti:

Una posizione di “centralità marginale”, cioè di uso pieno delle strutture marginali del mercato, che saranno via via le case del popolo, i teatri periferici delle grandi città e i teatri principali, ma per spettacoli prodotti da enti pubblici. Questo termine di “centralità marginale” vale anche a definire complessivamente il teatro di Cecchi, che esclude sia lo sperimentalismo solo scenico delle avanguardie sia il monumentalismo registico degli stabili e della tradizione Costa-Strehler-Visconti354.

Entrambe le tendenze (sperimentalismo e monumentalismo), nella visione di Cecchi – molto critico sul concetto vigente di teatro di regia e soprattutto sulla figura del regista istituzionalmente intesa –, peccano di disattenzione nei confronti della verità scenica, situazione possibile solo là dove si lavori per instaurare un rapporto vero tra scena e platea. Ancora una volta elemento centrale per il suo teatro è il rapporto col pubblico di cui presenteremo esempi concreti relativi a due spettacoli del periodo in esame.

Entrambi gli allestimenti rientrano nell‟alveo del teatro popolare, considerato veicolo privilegiato di lotta politica condivisa e dunque legato a circoscritte e determinate circostanze. Introduciamo il primo esempio attraverso le parole dello stesso attore-regista: «erano spettacoli che avvenivano in certe circostanze; e la circostanza fondamentale, che conta, è un rapporto tra un certo pubblico e una certa scena»355. Il primo “caso” è allora relativo alla farsa A morte dint‟ ʼo lietto ʼe Don Felice356 di Petito, l‟altro ad alcune repliche di Il bagno357, pièce di Majakovskij passata al filtro della sceneggiata e impostata sulle indicazioni dello straniamento brechtiano. A proposito del primo “caso” la molla che innesca l‟istaurarsi di un rapporto reale con la platea pare essere il riconoscimento di un elemento familiare in un contesto estraneo e ostile: titolo napoletano e periferia torinese popolata da immigrati del sud.

354

Franca Angelini, Carlo Cecchi, morte delle avanguardie, vita del teatro, cit., p. 36.

355 Carlo Cecchi in Carlo Cecchi, morte delle avanguardie, vita del teatro, cit., p. 37.

356 A morte dint‟ ʼo lietto ʼe Don Felice ossia Nu testamento pe mmano ʼe Farfariello con Pulcinella,

farsa fantastica con musica di Antonio Petito, Teatro Regionale Toscano - Cooperativa Il Granteatro, Regia: Carlo Cecchi, Scene e costumi: Sergio Tramonti, Musiche: Nicola Piovani, Attori: Dario Cantarelli (Simone), Carlo Cecchi (Cardillo), Paolo Graziosi (Felice), Gigio Morra (Pulcinella), Fabinne Pasquet (La morte), Daniela Piacentini (Ninetta), Aldo Sassi (Il suggeritore), Chieri, Festival di Chieri, 20 giugno 1974.

357 Il bagno, di Vladimir Majakovskij, traduzione di Carlo Cecchi, Italo Spinelli, Marina Spreafico,

Cooperativa Il Granteatro, Regia: Carlo Cecchi, Scene e costumi: Franz Prati, Luci: Settimio Segnatelli, Attori: Silvana Bertorelli (Underton), Toni Bertorelli (Mirakolov), Carlo Cecchi (Trionfalov), Anna D‟Offizi (Polia), Gianni Guaraldi (Pont Kitch), Gigio Morra (Ivan Ivanovich,

Narratore), Giancarlo Palermo (Momentalnikov, Optimistenko), Marilù Prati (Mesalliansova), Italo

Spinelli (Belvendoski, Velocipedkin), Marina Spreafico (Donna Fosforescente), Massimiliano Troiani (Regista); al debutto anche: Sabina De Guida, Jara Bitetti, Peter Hartaman, Manuela Morosini, Roma, Spazio Zero, 28/30 dicembre 1971.

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Quando noi facevamo A morte dint‟ ʼo lietto in una specie di scantinato fetente della Mirafiori Sud duecento operai immigrati con qualche moglie e figlia, con qualche studentessa e studente, vedeva un titolo napoletano e veniva allo spettacolo; quindi tra noi attori e quel pubblico il rapporto che si stabiliva era tale che non solo era probabilmente teatro ”popolare” ma provocava un‟inconscia coscienza o sensazione o intuizione che era un atto irripetibile e che quindi non era già più teatro popolare. Perché c‟era una sorta di felicissimo stupore sia da parte degli attori sia da parte del pubblico che quella cosa avvenisse358.

La felicità condivisa nasceva da un reciproco riconoscimento: gli attori incontravano il proprio pubblico, quello in grado di riconoscere il codice dell‟operazione teatrale; il pubblico poteva apprezzare uno spettacolo della propria cultura d‟origine che probabilmente lo riconnetteva con le radici lontane e con i ricordi d‟infanzia. In questo caso la familiarità era suscitata sia da caratteristiche linguistiche e musicali, sia dal riconoscimento di personaggi cari alla tradizione popolare come Pulcinella e Don Felice Sciosciammocca.

Il secondo “caso”, seppure simile al primo, risulta interessante per chiarire ciò che il regista fiorentino-napoletano intende per teatro popolare e per introdurre lo spirito contestativo del gruppo in relazione al sistema teatrale (anche ai provvedimenti più “di sinistra”) e a certe realtà sociali. Lo spettacolo in questione è Il bagno, precedente all‟allestimento appena citato (siamo nel 1971) ed espressione di un rapporto in primis politico con il pubblico. Ricorda Cecchi:

Nel caso del Bagno questo rapporto era essenzialmente politico. Il pubblico, cioè, diventando il destinatario presente fin dalla scelta del testo, fu scelto: non il pubblico, ma un pubblico. Esso fu il pubblico di quei circuiti di decentramento che si