1. P RIMO TEMPO DI FORMAZIONE: L‟ATTORE REGISTA (1959-1971)
1.3 Prove generali “Il Porcospino”
Soffermandoci sugli intensi anni Sessanta romani, l‟intreccio delle memorie ha portato a raccontare dell‟addio del giovane Cecchi, a metà decennio, a Gianmaria Volonté e dell‟ingresso nella sua storia personale e artistica di un‟altra figura altamente carismatica come la scrittrice Elsa Morante, su cui ora non ci dilungheremo se non per favorire la contestualizzazione attuale. Teatro di vivaci entrate e uscite di personaggi è sempre lo stesso luogo, chiuso, si direbbe nascosto: il
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teatrino di via Belsiana. Le cantine, quasi in opposizione al loro statuto “privatissimo” si fanno spazio di incontro intorno al quale orbitare e dentro cui sostare.
Gli stessi luoghi in cui gran parte degli spettacoli del Nuovo Teatro furono accolti vanno considerati con uno sguardo particolare. Quegli spazi non istituzionali – la gran parte dei quali erano romani e furono battezzati generalmente, per la loro collocazione, “cantine” – furono qualcosa di più che semplici contenitori e anche qualcosa di diverso rispetto all‟ipotesi di un circuito teatrale alternativo. Le “cantine” sono state, a tutti gli effetti, dei laboratori permanenti del nuovo. Non solo per le sperimentazioni che accoglievano, per gli artisti e i gruppi che le elessero a proprie case operative, ma perché case lo diventarono anche su un terreno più vasto, divenendo, di fatto, il luogo materiale di quello scambio culturale tra spettacoli e “compagni di strada” che tanto concorse a definire l‟identità del Nuovo Teatro italiano87.
Proprio nei sotterranei della chiesa di via Belsiana comincia la collaborazione “elettiva” tra Carlo Cecchi e Elsa Morante; grazie a questa prestigiosa amicizia quel gruppo di lavoro sopravvissuto al Teatro Scelta e all‟esperienza di Il vicario – e adesso alle prese con le prove di un Woyzeck dalla gestazione pluriennale –, incrocia la sua storia con una cerchia di letterati, a loro volta alle prese con la formazione di una loro idea di teatro. Lo scantinato della chiesa diventa “casa condivisa” in quanto in via Belsiana dal 1966 comincia a realizzare e a sperimentare i propri lavori anche una compagnia dal profilo molto particolare: la Compagnia Il Porcospino.
Si tratta di un ensemble composto da scrittori e intellettuali affermati, da alcuni attori, e che col tempo si arricchisce di nuove leve – «eravamo un gruppo di giovani attori molto amici di Elsa Morante»88 ricorda Cecchi –, con l‟obbiettivo di avvicinare gli scrittori al teatro, di eliminare quello scollamento profondo, soprattutto nel teatro italiano, tra la drammaturgia contemporanea e la scena. Sono anni particolari, in cui ondate di novità e di scoperte, nazionali e internazionali, cominciano a influenzare la nostra scena, dal Living ad Artaud, a Genet; ma proprio intorno alla metà degli anni Sessanta, ad influenzare i primi passi di molti di quei gruppi, che poi verranno inglobati nella piena del grosso fiume del Nuovo Teatro, deflagra il fenomeno Beckett e degli altri autori collocati ad inizio decennio, un po‟ forzatamente, da Martin Esslin sotto l‟etichetta del Teatro dell‟Assurdo89.
Beckett scardina la drammaturgia tradizionale e ciò sembra rispondere alle esigenze pratiche ed estetiche del Nuovo; spostando la costruzione della scrittura dalla pagina alla scena, il linguaggio teatrale va incontro ad un processo di
87 Lorenzo Mango, Una questione di identità e differenza, cit., pp. 138-139. 88 Carlo Cecchi in Dacia Maraini, Eugenio Murrali, Il sogno del teatro, cit., p. 108. 89
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transcodificazione: elementi costitutivi del Nuovo Teatro saranno i codici dello spettacolo nel loro complesso, non solo la parola; si parlerà appunto di scrittura scenica90. Intanto all‟altezza cronologica in cui stiamo sostando (e già timidamente da inizio decennio)
[…] Il nuovo linguaggio drammaturgico presenta elementi di concretezza scenica che cominciano a determinare una nuova impostazione della rappresentazione teatrale. […] La drammaturgia dell‟assurdo determina gradualmente una nuova impostazione anche del linguaggio scenico, che, però, non presenta una configurazione strutturale del tutto autonoma, esistendo ancora un legame forte con il testo91.
Sul legame nuovo e vivo tra testo e linguaggio scenico si incentra il lavoro della Compagnia Il Porcospino, che nasce dall‟incontro tra alcuni attori che lavoravano in via Belsiana, la compagnia di Mario Bussolino, e un nucleo originario composto da letterati: Enzo Siciliano, Alberto Moravia (marito di Elsa Morante), Dacia Maraini. L‟occasione di questo connubio artistico è offerta da uno spettacolo diretto da Roberto Guicciardini nel 1966: La scappatella di Martin Walser, andato in scena nello stesso luogo. Paolo Bonacelli, attore e protagonista di questa esperienza, a proposito della messinscena, racconta:
Vennero a vederla Dacia Maraini, Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Sandro De Feo, e, siccome Carlotta Barilli, una delle attrici, era stata allieva all‟università di Enzo Siciliano, ci fu un incontro e si decise così di collaborare al fine di creare una compagnia che rappresentasse i testi dei letterati, sull‟onda del successo anche della Ginzburg, che aveva fatto Io ti ho sposato per allegria. I promotori furono dunque Enzo Siciliano e Carlotta Barilli92.
L‟idea di base era appunto avvicinare gli autori al teatro in modo che avessero la possibilità di farlo in prima persona. Il nucleo originario era dunque composto dai letterati suddetti, dal regista Roberto Guicciardini e da alcuni attori: Carlotta Barilli, Paolo Bonacelli, Carlo Montagna. A loro si sarebbe a breve aggiunto un manipolo di scritturati, tra cui gli “amici di Elsa”. La compagnia nasce dunque nel 1966 come una
90 La definizione di scrittura scenica, in ambito nazionale, è di Giuseppe Bartolucci, ripresa da
Maurizio Grande e in anni più recenti da Lorenzo Mango. I testi di riferimento sono: Giuseppe Bartolucci, La scrittura scenica, Roma, Lerici, 1968; Maurizio Grande, La regia come scrittura di
scena, in G. Banu, A. Martinez (a cura di), Gli anni di Peter Brook, Milano, Ubulibri, 1990; Mango,
Lorenzo, La scrittura scenica: Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Roma, Bulzoni, 2003. Con il termine scrittura scenica si intende fare riferimento a un codice articolato e complesso che ha le sue basi nella componente visiva, ma in essa non si risolve; si tratta del modo di indicare nel loro complesso tutti i codici del linguaggio spettacolare in modo da superare la dicotomia vigente tra codice drammaturgico e codice scenico. Il testo, quando c‟è, diventa un codice tra gli altri. Lo spettacolo in questo senso consiste nella sua fattura, di qui la definizione di scrittura scenica come processo creativo diretto: non accompagnamento dell‟azione espressa dal testo, ma azione essa stessa. Cfr. Lorenzo Mango, La scrittura scenica: Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, cit. pp. 13-31.
91 Daniela Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959 - 1967, cit., pp. 143-144. 92
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“sociale” (associazione culturale autogestita); il nome deriva da una suggestione di Alberto Moravia: «perché il porcospino punge, ma non fa male»93; il logo, infatti, mostrava un porcospino rovesciato. Per la prima stagione 1966-1967 erano in programma, racconta Eugenio Murrali, tre drammaturgie inedite degli autori- fondatori e un repertorio di testi non drammatici di altri scrittori, e da loro drammatizzati.
Lo spettacolo inaugurale andò in scena 20 gennaio 1967, si trattava di La famiglia normale di Dacia Maraini, opera prima che accoglieva con successo di pubblico e critica l‟ingresso della scrittrice tra gli autori teatrali. Nel corso della prima stagione continua a delinearsi il profilo eclettico della compagnia: il particolare spazio, al quale abbiamo fatto più volte riferimento, non proponeva infatti solo pièces teatrali ma ospitava spesso mostre, proiezioni di piccoli film o lungometraggi di artisti94. Inoltre al prestigioso nucleo autoriale si affianca fin da subito una squadra di artisti-scenografi d‟eccezione: Renato Guttuso, Lorenzo Tornabuoni e Titina Maselli (quest‟ultima sarà una collaboratrice ricorrente nel teatro futuro di Carlo Cecchi). La sala che ospitava tanto fervore creativo ci viene descritta da Bonacelli:
Da una porticina si entrava nella chiesa, dove c‟era una scala, da cui si scendeva giù; qui c‟era un botteghino, sulla sinistra una gradinata con panche per meno di 100 posti e alla fine una pedana di circa 15 metri; in fondo c‟era un arco attraverso cui si entrava nei camerini, che erano dei bugigattoli, cui si poteva accedere anche da un ingresso esterno95.
Eugenio Murrali, ricostruendo l‟itinerario teatrale della Maraini, per chiarire il clima di questa straordinaria, seppure breve, esperienza di cantina, riporta una pagina in cui Eugenio Montale descrive una giornata in via Belsiana:
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Cfr Daniela Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959 - 1967, cit., p. 155.
94 Lo stesso Cecchi non è estraneo all‟universo della macchina da presa; fin dagli anni d‟Accademia
presta sporadicamente la sua professionalità d‟attore alla televisione o al cinema, spostandosi sempre più verso il film underground o d‟autore. La filmografia (in Appendice) offre un elenco dettagliato di tutte le esperienza di Cecchi al cinema o in televisione. Intorno alla fine degli anni Sessanta è scritturato per lo sceneggiato televisivo I Giacobini, nel 1966 è protagonista del lungometraggio, assolutamente underground, di Romano Scavolini A mosca cieca. Il film, muto e composto da sequenze staccate, ruota intorno ad una coppia, di cui Cecchi è il personaggio maschile. La sua interpretazione, assolutamente non naturalistica e tendente alla stilizzazione, è stata utile anche per farci un‟idea del particolare tipo di interpretazione dei sui primi lavori teatrali, in particolare del primo, asciuttissimo Woyzeck, del quale le recensioni a nostra disposizione propongono una descrizione dell‟attore che ben si allinea con la performance cinematografica di A mosca cieca. Dopo l‟esordio del decennio Sessanta, l‟attore-regista tornerà con più assiduità al cinema solo negli anni Novanta.
95 Paolo Bonacelli in Daniela Visone, intervista inedita del 21 marzo 2005, in Daniela Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959 - 1967, cit., p. 154.
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È una sera di lunedì, altre trattorie le abbiamo trovate chiuse. Stiamo attendendo Dacia, impegnata nelle prove di una nuova sua commedia. […] È giunta Dacia, troppo giovane e troppo bella per interessarsi a simili problemi. Siede, non mangia quasi nulla e se ne va per tornare alle prove della sua commedia. Il teatrino che ospita i nuovi lavori del suo clan, Il Porcospino, è molto piccolo: può contenere novanta persone, ma raramente si raggiunge il plenum. Come potrà questa improvvisata compagnia di attori far quanto basta per ottenere la sovvenzione governativa?96
La vita della compagnia sarà infatti molto breve; l‟attività teatrale occuperà l‟arco di due stagioni. Tuttavia è il suo statuto ad essere interessante: letteratura e teatro, e interazione tra questi due codici. Nella congiuntura storica di riferimento, in cui il testo e la parola cominciavano ad essere lentamente ma ferocemente ghettizzati, nel cuore della sperimentazione romana, Il Porcospino si concentra sul rapporto ancora possibile tra la scrittura letteraria contemporanea o sul classico “riattivato” e la scena, come a voler ribadire la linea di quella “tradizione del nuovo” e insieme del “tradizionale” di cui abbiamo parlato.
È chiaro che il lavoro della Compagnia non aspira alla ricerca di una sintassi autonoma della scena, né intende mettere in crisi i fondamenti della pagina teatrale, ma al contrario si incentra proprio sulla letteratura con lo scopo di incentivare e verificare il rapporto tra letteratura e teatro97.
Assunto sintomatico, questo, per quella che sarà l‟esperienza di Carlo Cecchi in seno al teatro italiano; un‟attività che mantiene costantemente attivo il dialogo tra la scena e il testo. Cecchi, “amico di Elsa”, si avvicina alla compagnia nella seconda stagione di attività, 1967-1968, quando viene scritturato, per la prima volta in modo professionale, insieme con Paolo Graziosi, Claudio Camaso e Laura Betti, per il secondo testo della Maraini: Ricatto a teatro98. Si tratta di un‟opera particolare, tendente al metateatro e che suggeriva una riflessione, si direbbe pirandelliana, sul rapporto tra la realtà e la finzione. Cecchi stesso racconta in che modo si costituì il cast di questo spettacolo; il luogo si conferma elemento centrale. Dice l‟attore:
Fra il ‟67 e il ‟68, Peter Hartmann, un musicista e regista americano che aveva lavorato molto con il Living Theatre insieme a Mario Schifano e altri, fece al teatro di via Belsiana una rassegna che si chiamava Esperienza. Dacia propose a Peter Hartmann e a me Ricatto a teatro. Io e Peter lo leggemmo e trovammo che era un testo bello: con quel
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Eugenio Montale, A cena con Moravia, in Eugenio Montale, Prose e racconti, Milano, Mondadori, 1994. Il racconto fu scritto nel 1968. Il ricordo di Montale è riportato da Eugenio Murrali in Il sogno
del teatro, cit., p. 30.
97 Daniela Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959 - 1967, cit., p. 156. 98
Il ricatto a teatro, di Dacia Maraini Compagnia Il Porcospino, Regia: Peter Hartman, Assistente alla Regia: Sergio Tramonti, Scene: Sergio Tramonti, Attori: Laura Betti (Giulia I cast), Kadigia Bove (Lin II cast), Claudio Camaso (Vero I cast), Carlo Cecchi (ricattatore), Paolo Graziosi (ricattatore), Angelica Ippolito (Giulia II cast), Aldo Puglisi (Vero II cast) , Isabel Ruth (Lin I cast), Roma, Teatro del Porcospino, 12 febbraio 1968.
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meccanismo del teatro nel teatro che lo rendeva molto interessante e particolarmente a Peter e a me99.
Fin dal titolo la carica eversiva dell‟opera appare ben sottolineata. Questo testo è, nelle intenzioni dell‟autrice, un atto d‟accusa nei confronti del sistema teatrale contemporaneo, quello stesso sistema retto da leggi e decreti che di lì a poco non avrebbero più consentito ad una compagnia dai risultati tanto elitari di poter sopravvivere. Ma l‟accusa si carica anche di un doppio livello di significato e identifica nel linguaggio teatrale, invecchiato, un altro obiettivo contro il quale scagliarsi. Da autrice contemporanea, la Maraini è alla ricerca di un linguaggio in grado di preservare l‟attore dalla convenzionalità, non nascondendo però la tradizione “letteraria” dei riferimenti. Ricatto a teatro sembra aver alle spalle la poetica genettiana ed evidentemente veicola temi pirandelliani.
La dialettica tra realtà e finzione è tema dominante della pièce; essa nei fatti racconta la storia di due “ricatti” attraverso due piani d‟azione. Un ricatto è, come si diceva, giocato sul piano del metateatro: una compagnia di giovani e poveri attori vuole mettere in scena una commedia e non ci riesce; l‟altro, interno alla commedia da fare – finizione nella finzione – è quello di due ricattatori ai danni di un industriale dalle particolari tendenze e dalle ambigue passioni. I due ricattatori sono omosessuali, l‟industriale un voyeur, la di lui moglie intrattiene un rapporto, anche questo omosessuale, con un‟amica. Fallirà il proposito di mettere in scena la commedia e fallirà anche il ricatto all‟industriale. Questa la descrizione dei cinque attori/personaggi da parte di un critico poco entusiasta:
Giulia, attrice ventottenne povera; e moglie dell‟industriale Vero. Vero, attore
ventottenne povero; e al tempo stesso industriale. Lin, attrice ventiduenne povera; e al contempo ragazza di provincia, pure povera. Carmelo, attore venticinquenne, povero, e, per giunta, altrettanto povero ricattatore. Gim, attore ventiquattrenne, naturalmente povero; ed anch‟egli pure ricattatore povero100.
Al testo è rimproverato il fatto di scivolare nel cliché, oltre che nella scabrosità. Quei temi, per i tempi scottanti, così esposti, appaiono ai più provocazioni gratuite. Nulla di nuovo, insomma; eppure lo spettacolo suscita un grosso polverone, e, svanita la polvere, ad emergere più che il testo sono gli attori. Ricorda la Maraini: «I due personaggi principali, Carlo Cecchi e Paolo Graziosi, erano sempre con noi. Ed erano straordinari. Era un piacere sentirli recitare»101. Il cast originario era infatti
99 Carlo Cecchi in Dacia Maraini, Eugenio Murrali, Il sogno del teatro, cit., p. 108. 100 Se. Lo., Commedia nella commedia, in «Il Dramma», Roma 8 gennaio 1969. 101
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composto dai già citati attori, rispettivamente nei panni dei due ricattatori, da Laura Betti e Isabel Ruth, che interpretavano la moglie dell‟industriale e l‟amica, e da Claudio Camaso, l‟industriale. I cinque attori erano poi tutti impegnati nel ruolo di attori di compagnia, sempre in equilibrio pericolante tra la realtà e la finzione scenica su cui tanto indugiava il testo. Regista dello spettacolo era Peter Hartman:
Un giovane americano capelluto e barbuto che proviene dalle file del «Living Theatre», il quale si è dimostrato particolarmente in tono con le idee dell‟autrice: una regia tanto scarna da apparire, a volte, inesistente o, meglio, non indispensabile, se gli attori sembrava girassero a ruota libera nel dare sfogo alla finzione-realtà del testo102.
Si tratta chiaramente di una tipologia di regia nuova, diversa, non in linea con il teatro istituzionale che il pubblico e la critica “normale” erano abituati a vedere: un teatro che interpretava il testo senza problematizzazioni ulteriori e convenzionalmente. Ricatto a teatro, grazie alla regia di Hartmann, che lasciò interdetta parte della critica ma non tutta, riuscì a stimolare, forse anzitutto a livello di stimolo emotivo il pubblico, imponendosi come operazione di vasto successo. Ciò che dovette risultare particolarmente atipico, e probabilmente l‟elemento di novità utile alla simpatia attribuita dal pubblico a questo allestimento, fu appunto il cortocircuito tra testo e transcodificazione scenica. Dice Bartolucci:
L‟Hartmann è andato ben al di là di quella disposizione sintattica avanzata e di quella organizzazione formale innovatrice, con un adeguamento scenico entusiasmante e perfetto nella misura in cui sfugge all‟identificazione con la scrittura drammaturgica antitradizionale, oltre che con l‟interpretazione a tutto tondo e naturalistica. Infatti è proprio l‟interpretazione che viene a galla e si manifesta e padroneggia in questa scrittura scenica, con una rarefazione e una decentralizzazione della mano e della mente del regista, e questo avviene proprio nel momento in cui il procedimento dettato dal regista ha ragione e si amplifica e si concentra su tutta la scrittura scenica con una evidentissima e personalissima intuizione103.
Quella di Hartman era una scena “scarna” ed essenziale – un assetto che ricordava gli spazi scenici del Living – nella quale alla parola il regista affiancava tutte quelle sperimentazioni di movimento e di suoni-rumori, cari alla poetica di provenienza, sostenitrice di una interpretazione di tipo nuovo, per niente “a tutto tondo” e assolutamente non “naturalistica”. Gli attori si muovevano in una scena vuota, essenziale, composta da pochi elementi scenografici: “un materasso, tre cubi, una sedia”. «Ci chiamavano dappertutto» – ricorda l‟autrice – «E noi andavamo, tutti
102 G. S., “Il ricatto a teatro” ai limiti della nausea, in «Il Gazzettino di Roma», Roma, 20 febbraio
1968.
103 Giuseppe Bartolucci, Banalità e frantumazione come «Ricatto» scenico, in Giuseppe Bartolucci, La politica del nuovo, Roma, Ellegi, 1973, p. 97 .
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dentro la mia macchina – una Citroën lunga e capiente come un barcone – con le povere scene sul tetto: un materasso, tre cubi, una sedia»104.
Come era già accaduto con gli spettacoli del Teatro Scelta anche in questo caso assistiamo ad una ricezione contraddittoria da parte di critica e pubblico. Ricatto a teatro, per quanto nato in contesto elitario, va incontro ad un vastissimo successo di pubblico: lo dimostra una lunga tournée, nella stagione 1968-‟69, nel corso della quale lo spettacolo era richiestissimo dalle varie piazze italiane. Ciò probabilmente era dovuto ad una sua caratteristica, percepibile a tutta prima sul piano dell‟emotività dello spettatore, che conferiva alla narrazione “durata rapidissima” e conseguenziale “estensione di quotidianità”, come spiega ancora Bartolucci:
Siamo di fronte difatti ad una durata rapidissima e ad un‟estensione di quotidianità, spezzandosi il movimento in infiniti gesti e suoni al limite della non comunicazione, e rivelandosi in altrettanti momenti di sgradevolezza parlata e di ineducato comportamento. Così la frantumazione si accompagna alla banalizzazione, investendo il comportamento degli interpreti, che parlano e agiscono e si atteggiano sotto questo dispositivo ironizzante-deformante, senza venir mai meno al movimento di tali parole e di tali gesti per programmazione inventiva105.
La programmazione inventiva di cui parla Bartolucci, e che si ricollega al concetto si scrittura scenica, non può che essere sostenuto da spiccate capacità tecniche degli attori; nel novero dei risultati positivi il critico sottolinea «la puntigliosità popolaresca di Paolo Graziosi», mentre a proposito del giovane Cecchi, alla sua prima prova professionale, nota:
[…] la sedimentazione estrosa e infantile di un Carlo Cecchi che avvolge se stesso di una dolcezza mesta e di una bizzarria indisponente allo scopo di nascondere un suo temperamento estroverso predominante e di rinsaldarsi nel movimento degli altri banalmente e discorsivamente106.
Oltre all‟empatia con il pubblico che lo spettacolo riusciva ad attivare, oltre