2. S ECONDO TEMPO DI FORMAZIONE: IL CAPOCOMICO (1971 1980)
2.2 Il Granteatro: uno sberleffo non di resa ma di offesa
Parafrasando Bartolucci crediamo di poter raggruppare le regie appena citate sotto il segno dello “sberleffo” cioè della provocazione artistica; accostandosi agli allestimenti di questi anni si scopre che si tratta nella maggior parte dei casi di pièces che, a prescindere dalla loro tipologia di riferimento, vengono risolte dalla chiave di interpretazione registica attraverso elementi di eccesso, di esagerazione, di teatralità con evidenti e diverse gradazioni di deformazione, rintracciabili anzitutto nei personaggi. A ben vedere infatti si potrebbe parlare di questi primi anni di attività della compagnia come di un lungo laboratorio intitolato “esercitazioni sulla farsa” ruotante, appunto, intorno al tema base della forma farsesca, della riscoperta e
376 Simonetta Izzo, Grazie a lui sono stato Felice, in «Hystrio», aprile-giugno 2000. 377
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applicazione del popolare su matrici di generi altri, e viceversa, in una continua sfida (sberleffo d‟offesa) lanciata allo status quo del teatro. Ferrero, all‟altezza cronologica dei primi tre spettacoli della giovane compagnia, nota il meccanismo di base comune delle regie cecchiane:
La compagnia ha al suo attivo tre spettacoli, apparentemente diversi tra loro, anche in quanto matrici estetico-culturali, ma ricondotti e risolti nel comune denominatore di una nuova formulazione politica e popolare378.
La formulazione politica e popolare di cui parla Ferrero è il risultato al quale approda un lavoro di scena che a monte si basa sulla necessità costante della compagnia di esercitarsi. La spia di questo atteggiamento va ricercata nel ricorrente uso, nelle dichiarazioni del regista e nelle impressioni dei recensori, della parola “esercizio”; l‟esercizio rimanda alla situazione laboratoriale e alla sempre maggiore presa di coscienza di Carlo Cecchi del proprio ruolo pedagogico. Le dichiarazioni d‟intenti del regista a proposito dell‟esercizio attoriale sono precocissime; concetto più volte esposto già in fase di allestimento del Woyzeck (1969), l‟attenzione che Cecchi rivolge alla formazione dell‟attore è nel 1971 dato principale. Dice a proposito della scelta di Le statue movibili: «esercitarsi nel recitare, costituire un gruppo di attori che cominciasse ad affrontare quel problema gravissimo per il teatro italiano che sono gli attori»379. Analoga la premessa alla base della scelta di Tamburi nella notte; lo spettacolo brechtiano segue Il bagno, messinscena replicatissima, tra i due allestimenti si colloca, tra l‟altro, un momento di ripensamento sul proprio lavoro e di riorganizzazione di pesi e equilibri all‟interno della compagnia380, Cecchi torna a puntare il dito sulla formazione (o autoformazione) del gruppo.
Per scongiurare il rischio della possibile caduta nei cliché interpretativi o in una recitazione di maniera, il regista pensa di affrontare un lavoro su Brecht in termini di “esercizio teatrale” per ricompattare il gruppo dal punto di vista stilistico-operativo. L‟obiettivo è affrontare questo esercizio in termini di recupero della dimensione epica della recitazione381.
E se Tamburi costituisce stilisticamente il tentativo di applicare le tecniche dello straniamento a un Brecht pre-epico, in A morte dint‟ ʼo lietto ʼe Don Felice banco di prova è proprio il comico popolare.
378 Nino Ferrero, Majakovskij come una “sceneggiata” alla napoletana, in «L‟Unità», Torino, 6
marzo 1973.
379
Ibidem.
380 Cfr. Salvatore Margiotta, Il Nuovo Teatro in Italia 1968-1975, cit., p. 257.
381 Salvatore Margiotta, Il Nuovo Teatro in Italia 1968-1975, cit., pp. 257-258 . Nella citazione
presentata lo studioso riporta informazioni raccolte durante una conversazione privata con l‟attore- regista: Conversazione con Carlo Cecchi, Napoli 2 marzo 2007.
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Per gli attori del Granteatro, il canovaccio fantastico di Totonno o‟ pazzo (Antonio Petito 1822-1876) è un esercizio sugli elementi fondamentali della teatralità in generale e del comico popolare in particolare382.
E di esercizi di equilibrismo si tratta: in riferimento ai personaggi elementi ricorrenti appaiono essere la maschera, il burattino, la marionetta, la macchietta, il trucco artefatto, i costumi “teatrali” e antinaturalistici; sul fronte delle scenografie e dei contesti si parla di baracconi, fiere, circo, piazze di paese. In ogni spettacolo tutti questi elementi sono evidentemente dosati e piegati alla continua ricerca del punto di sintesi e di equilibrio cui risultato ultimo è creare un nuovo linguaggio, quello proprio ad una scena contemporanea (politica e popolare). Capita quindi che nell‟interpretazione di un Brecht (Tamburi) si possa ritrovare la struttura e il ritmo della sceneggiata, o che a Petito (Le statue o A morte) venga applicato lo straniamento brechtiano, passato al vaglio del Teatro della Crudeltà di Artaud.
Per chiarire la “modalità Granteatro” partiamo da un riflessione di Mario Raimondo; su «Sipario», scrivendo di Tamburi nella notte, il critico mette in luce – come dato caratterizzante l‟intero lavoro dell‟ensemble – la ricerca di equilibrio nella quale la compagnia per ogni spettacolo è impegnata, dosando i mezzi più elementari che la scena offre. Attraverso una similitudine col numero dell‟acrobata che tiene sospesa una piramide di sedie, Raimondo spiega l‟esercizio di Cecchi.
Oplà, e le sedie non sono più sedie ma una geometria espressiva che serve la fantasia, espressa in fisicità, dell‟acrobata. L‟esercizio, a ben guardare, è elementare, ma trova il suo significato nell‟accettazione da parte di una provocazione fondamentale (io sono capace di stabile equilibri impossibili nella normalità, eccetera). È lo stesso meccanismo di Cecchi; egli è capace di ridurre il fatto teatrale alle sue ragioni elementari e insieme di tenere in un equilibrio raffinatissimo tutti gli elementi383.
La regia, in questi primi anni di attività, si risolve quindi in un esercizio scenico, in un‟operazione matematica che testa gli elementi base per raggiungere con essi un adeguato livello di familiarità. Padroneggiare l‟alfabeto teatrale per creare, attraverso i suoi elementi, il linguaggio nuovo che il regista fin dall‟inizio ricerca. Continua Raimondo:
Guardate le sue strutture di base [di Cecchi], elementi scenografici, luci e suoni: tutto può appartenere al più stinto bazar della consuetudine. Ma vedete l‟equilibrio che se ne realizza, il significante che ciascuno di essi contiene. […] E la recitazione: […] si avverte di essere, senza scampo, nella dimensione del teatro, la più pura; faticosamente trovata, in mezzo ai mille possibili incidenti, proprio in virtù di una condizione di libertà, custodita come la sola possibile intelligenza nel rapporto con il palcoscenico384.
382 A morte dint‟o lietto „e Don Felice, di A. Petito, presentazione a cura del Servizio Informazione
Culturale della Provincia di Torino, 1974.
383 Mario Raimondo, Per una via italiana a Brecht, in «Sipario», n. 323, febbraio 1973. 384
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La dimensione teatrale non solo non è nascosta ma è addirittura ostentata, ed è in questo paradosso che si risolve il precetto tanto caro a Cecchi di verità della scena: solo attraverso una situazione scenica che mette allo scoperto i suoi elementi primari il teatro può riscoprire la propria funzione. Nel caso dei Tamburi di Brecht il risultato è quello di un saggio di teatro politico che non racconta un‟ideologia o una tesi ma mostra una situazione. Conclude il critico:
Cecchi ha costruito uno spettacolo che è anche una stupefacente, felice indicazione di teatro politico. Direi che il risultato è raggiunto, come certo Cecchi voleva, partendo dal punto giusto, e cioè dalla misura elementare del teatro, dalla disposizione arrogante dei suoi materiali essenziali chiamati a dar frutto di dimostratività e di rappresentatività sulla scena385.
Un altro esempio tratto dal programma di sala del Bagno di Majakovskij – e dunque direttamente di pugno della compagnia –, ancora appellandosi alla capacità del teatro di essere “dimostrativo”, chiarisce il senso di teatro politico nell‟accezione che di esso ha Cecchi regista. Partendo dal presupposto che il testo in questione è un testo di agitazione e di propaganda, chiaramente legato alla contingenza storica nella quale aveva vissuto l‟autore, il lavoro teatrale della compagnia si configura come «un tentativo di rendere l‟agitazione spettacolare»386
. Il Granteatro tenta di trasformare, attraverso i mezzi specifici del teatro – quegli elementi e quei codici di base ed elementari di cui parla Raimondo –, la scena in una tribuna «qualificando questa tribuna secondo i mezzi del teatro»387. Il risultato è di avvicinare, attraverso la tradizione comica e popolare italiana, il messaggio di Majakovskij al pubblico di riferimento; finalmente dunque teatro per quel determinato pubblico e non ad esso sterilmente adattato. Commenta Cecchi, con toni critici:
Spesso l‟unico risultato che certo teatro politico ha colto, è stato quello di introdurre le masse proletarie proprio in quelle realtà negative che l‟apparato del teatro aveva creato per le masse borghesi. Non basta cioè un testo a tesi politica per fare del teatro politico. Noi pensiamo che un teatro è davvero politico solo se modifica le sue funzioni, quelle devolute alla scena e al pubblico, al testo e all‟interpretazione, al regista e all‟attore388.
Per chiarire meglio, oltre al significato, le modalità attraverso le quali Cecchi propone un teatro a suo dire autenticamente politico, faremo ancora ricorso a Bartolucci; nella sua analisi critico-interpretativa del Bagno, il critico smonta ed esemplifica il meccanismo e il senso di teatro politico per il Granteatro. A suo parere infatti, nel caso della messinscena maiakoskiana, Cecchi riesce a presentare contemporaneamente la favola allegra dell‟autore russo e la sua responsabilità
385 Ibidem.
386 Il bagno, di V. Majakovskij, programma di sala, Genova, Teatro Stabile di Genova, 1972- 73. 387 Ibidem.
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morale nei confronti del mondo di oggi, attraverso un atteggiamento estetico che si limita alla «presentazione di materiali»389. Per meglio dire, l‟obiettivo di critica sociale è presente nelle intenzioni del regista ma risulta essere un portato dell‟oggettività scenica e non il fine a cui tendere; tutto ciò aiuta lo spettacolo a non cedere a intellettualismi o didatticismo.
Il divertimento maikovskiano ha modo di organizzarsi come materiale provocatorio «leggero» per lo spettatore, e non pesantemente «didattico». […] Ciò che importa è che il suo [del regista] uso del «leggero» come provocazione moralistica lo abbia portato direttamente ad una «morale» dello spettacolo oggettivamente sana. Infatti è la sanità dell‟insieme a distinguere ancora una volta la operatività di Carlo Cecchi: cioè un suo modo e destino di considerare non intellettualmente e né espressivamente questo materiale drammaturgico che serva bensì di puro accompagnamento per una manifestazione di ilarità e di riconoscimento «collettivi» di reazioni «negative»390.
Attraverso la presentazione oggettiva del materiale, dunque, si stimola il riconoscimento, all‟interno del racconto divertente, di una ambiguità di fondo, di una nota stonata che svela il comportamento negativo. Se le azioni negative e risibili dei burocrati, della macchina del potere, risultano coerenti e «sani» all‟interno dello spettacolo, il taglio grottesco e deformante della cifra interpretativa di Cecchi accende nello spettatore, negli spettatori in quanto collettività, la spia e l‟allarme di un‟ambiguità, ponendosi come «manifestazione collettiva di riconoscimento del negativo»391 nella finzione come nella realtà.
Se ci si è dilungati sulla questione del teatro politico, dopo aver dedicato alcune riflessioni ai circuiti e al pubblico, è perché la componente militante è in questi spettacoli caratteristica evidente nonché centrale (anche in quegli allestimenti che non vi si riferiscono immediatamente). In fondo si tratta di un atteggiamento che prende a pretesto il testo e attraverso quello mette in atto un procedimento artistico che tenta di superare ciò che Bartolucci ha definito «insidia del reale»392.
Questa insidia del reale, ideologica e pratica, si snatura da sé, quotidianamente, perché non debba essere presa a modello di scrittura scenica, proceduralmente. Accettarla è già un vantaggio, dal momento che non la si può deviare, né deludere, e non rifiutarla significa altresì impadronirsi di alcuni strumenti (appunto popolari-comunicativi) della «contemporaneità». E quest‟ultima è troppo arida e brutale, troppo dura e atroce perché la si possa rendere diversamente da come l‟agisce proprio il Cecchi; cioè con uno sberleffo non di resa ma di offesa393.
389 Cfr. Giuseppe Bartolucci, La politica derisoria del Bagno di Majakovskij, in La politica del Nuovo,
cit., p. 108.
390
Giuseppe Bartolucci, La politica derisoria del Bagno di Majakovskij, cit., p. 110.
391
Ibidem.
392
Giuseppe Bartolucci, Attraverso i «segnali» di «Tamburi nella notte», in La politica del Nuovo, cit., p. 116.
393
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Dati come punti fermi l‟ingerenza della riflessione politico-sociale, la riconversione popolare e, sul versante tecnico, la tendenza all‟esercitazione, partiamo proprio dall‟esercizio per presentare brevemente i famosi spettacoli della prima metà degli anni Settanta. Nel 1971, quando Cecchi fonda ufficialmente la sua compagnia, sceglie di mettere in scena Le statue movibili394 di Petito, testo legato alla tradizione popolare napoletana, che si poneva fuori da quella «melodrammatico-veristico- naturalista»395 del teatro ufficiale e d‟Accademia. La “brillantissima commedia” attribuita ad Antonio Petito, edita nel 1912, racconta le vicissitudini di Felice, giovane studente svagato (archetipo del Don Felice Sciosciammocca maturo) e Pulcinella, servo astuto, alle prese con la miseria giornaliera e con tutta una serie di trovate per sfuggire alle conseguenze delle loro azioni e alla punizione degli adulti.
Nell‟autopresentazione che fa dello spettacolo, l‟attore-regista dichiara esplicitamente che problema principale da affrontare, entrando con coscienza critica nel mondo del teatro italiano di quegli anni, è quello dell‟attore. Il Granteatro si era appena formato, sua necessità era, ricordiamo, «esercitarsi nel recitare, costituire un gruppo di attori che cominciasse ad affrontare quel problema gravissimo per il teatro italiano che sono gli attori»396. Petito e il teatro popolare napoletano, ponendosi fuori dalla tradizione ufficiale, potevano essere la soluzione; Le statue movibili si configura, dunque, come “esercitazione sul recitare”. Lo spettacolo, diviso in due divertentissimi atti, è principalmente basato sul testo, quello di Petito, ma con aggiunte tratte da Scarpetta, specie nelle parti cantate. Si tratta di una farsa esilarante in cui sono impegnati i tipi caratteristici di Pulcinella/Pesarini, Don Felice Sciosciammocca/Cecchi, Donna Cornelia/Puglisi (en travesti), Cardillo/Palermo, servo sciocco e Concettina/Prati.
La maschera di Pulcinella, tre finte statue che in realtà sono di carne, una matura zia animata da un attore con parrucca rossa e abbondanti posticci, la sua brava razione di canzoni partenopee, la fame di Don Felice Sciosciammocca e il trionfo finale del piatto di pastasciutta: ecco gli ingredienti che animano Le statue movibili397.
Partire proprio dagli attori e dalla loro recitazione ci permette di sottolineare il complicato lavoro registico e di esercizio posto a monte del debutto. Dice Quadri:
394 Le statue movibili, di Antonio Petito, Cooperativa Il Granteatro, Regia: Carlo Cecchi, Scene e
costumi: Franz Prati, Attori: Carlo Cecchi (Felice Sciosciammocca), Giancarlo Palermo (Cardillo), Augusto Pesarini (Pulcinella), Maria Luisa Prati (Concettina), Aldo Puglisi (Donna Cornelia), Roma, Beat 72, marzo 1971.
395 Carlo Cecchi, Lo spazio tragico, in Franco Quadri, L‟avanguardia teatrale in Italia, cit., p. 391. 396 Ibidem.
397
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I bravissimi attori sono tutti da citare per la loro frenetica scioltezza: Giancarlo Palermo, Marilù Prati, Augusto Pesarini; ma soprattutto, per la scelta di due contrastanti moduli espressivi, Carlo Cecchi, che dà a Felice Sciosciammoca la maschera allucinata e inedita di Buster Keaton giovane e una comicità critica e raziocinante; e Aldo Puglisi, prorompente esagitato esilarante in un‟incredibile caratterizzazione femminile.398
Il critico nella sua attenta recensione individua, come punto di forza di uno spettacolo «diretto, comunicativo, immediato», la varietà di registri recitativi in esso presenti; parla di stilizzazione, di scioltezza (che rimanda al naturalismo) di maschera allucinata e comicità critica, di esilarante caratterizzazione (elemento del registro farsesco). Lo stesso Cecchi richiama non a caso l‟attenzione sui registri recitativi, volutamente abbondanti, come l‟esercitazione prevedeva. L‟attore-regista parlando delle Statue chiarisce:
Nello spettacolo il comportamento degli attori si divideva in cinque modi di recitare diversi, in uno sventagliamento che andava dal naturalismo assoluto del Pulcinella al realismo napoletano della Concettina. […] Con le Statue cominciavamo a testare il terreno. E la scelta del testo era anche una provocazione nei confronti dell‟avanguardia, era derivata soprattutto da questo399.
Lo sforzo di preparazione e il lavoro di regia considerevoli alla base di questo allestimento fanno pensare più ad un risultato sofisticato, come da un certo punto di vista è stato, che ad uno spettacolo immediato e comunicativo. Allora la domanda è: come riesce Cecchi a salvare l‟esercizio tecnico, l‟estrema raffinatezza recitativa strutturata su cinque diversi registri espressivi, dal rischio di sterile saggio di bravura? Bartolucci risponde: «attraverso l‟adozione della sceneggiata come modello di scrittura», ovvero basandosi prevalentemente sull‟azione.
Non c‟è allora che da farsi passare sotto gli occhi la grinta e l‟ordito del disegno dell‟azione, la sua volgarità non abbellita e non degradata da un lato, il suo umore non intellettualizzato e non popolareggiante dall‟altro lato. Così il Cecchi può salvaguardare la moralità del suo canovaccio, che è un oggetto di materia di divertimento e non vuole essere altro, e la non intellettualizzazione della trascrizione, che è un esempio di sguardo-movimento per gesto-parola e non vuole essere altro ancora una volta400.
Carlo Cecchi del resto non è in questa fase, o non solamente, interessato alla sceneggiata come genere teatrale, bensì alle tecniche che ne regolano l‟interpretazione; come nota con piglio netto Italo Moscati
La sceneggiata nell‟idea di Cecchi, non è che una tecnica teatrale popolare attraverso la quale è possibile filtrare l‟elaborazione di un linguaggio non contaminato dalla convenzione egemone e non trascinato nei bui e spesso labirintici meandri del teatro underground401.
398 Ibidem.
399 Carlo Cecchi, Lo spazio tragico, cit., p. 399.
400 Giuseppe Bartolucci, La politica del Nuovo, cit., p. 116. 401
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In realtà la questione, come si è cercato di spiegare nel capitolo dedicato a Eduardo, è più stratificata di come la inquadra Moscati: sceneggiata come «modello drammaturgico» o come «tecnica teatrale popolare», appare chiaro che al Cecchi degli esordi il genere interessi più per la sua struttura, per il ritmo che impone all‟allestimento, per il suo essere comunicativa, per quel farsi campo di esercizio per l‟attore, prevedendo anche l‟improvvisazione, che per altre contenutistiche questioni. Non è un caso se il modulo della sceneggiata è presente in tutti gli spettacoli “degli anni d‟oro”, financo in L‟uomo, la bestia e la virtù.
Il riferimento ad essa è ricorrente in tutti i documenti analizzati, accostato dal preponderante apporto brechtiano, espressionistico ed epico. L‟operazione è già chiaramente espressa dal momento in cui Cecchi dichiara di aver raggiunto Petito da lontano, partendo da Brecht e passando attraverso Eduardo402. Sono queste le matrici che dialogano nel suo teatro “Settanta”, come a dire pensiero politico europeo e tradizione popolare italiana per la creazione ora di splendidi Petito, ora di Büchner, poi di Majakovskij e così via.
Dall‟analisi comparata di una cospicua mole di documenti sugli spettacoli di cui stiamo parlando è stato possibile individuare caratteristiche espressive, scenografiche e musicali altamente ricorrenti; ciò ci consente di imbastire un discorso unico sugli spettacoli, incentrato più sulla ricerca di una continuità nella formazione registico-attoriale di Cecchi e compagni (per verificare l‟ipotesi di compagnia come laboratorio permanente), che sulla descrizione delle singole messinscena, peraltro molto note. Divideremo il nostro elenco schematicamente sulla base dei codici dello spettacolo, autorizzati anche dal fatto che molti dei critici più avveduti del periodo videro in questi spettacoli esempi concreti di allestimenti basati sulla scrittura scenica: scenografia, illuminazione, costume, gesto, mimica, coreografia, prossemica, parola e musica. Di questi codici, quelli intimamente relativi al gioco dell‟attore (mimica, gestica, parola), verranno risolti contestualmente nell‟analisi della recitazione di Carlo Cecchi.
A livello scenografico le rappresentazioni sono perlopiù caratterizzate da un apparato essenzialmente povero, concreto, dall‟essenzialità fortemente simbolica e stilizzata. Alcune di queste soluzioni, come i teatrini presenti nella farse di Petito, o
402 Cfr. Carlo Cecchi, Lo spazio tragico, cit., p. 391; la citazione dice: «Petito fu raggiunto partendo da
lontano: cioè da Brecht, al cui theater-arbeit riconoscevo, e riconosco tuttora, una grande importanza. Il punto intermedio fu Eduardo, il teatro di Scarpetta e le sceneggiate che avevo visto da ragazzo a Napoli».
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nella scena-teatro del Bagno o, ancora, le atmosfere circensi e da baraccone di La cimice e del Woyzeck, hanno fatto parlare di personaggi-marionette, di burattini, di acrobati e saltimbanchi, rimandando ad un universo estremamente popolare e paesano. Si distacca nel caso della scenografia l‟atmosfera espressionistica di Tamburi nella notte403, risolta da Franz Prati con arredi essenziali e con quattro grossi dipinti-fondali proposti simultaneamente e «di un grottesco alla Grosz o alla