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L’educare familiare e la disabilità

Tuttavia, e in particolar modo, con le famiglie con un figlio disabile rimane ancora molto accentuata l’idea di un’educazione familiare legata a rappre- sentazioni sociali obsolete: ossia quella di dover “addestrare” i genitori e il fatto che la disabilità – seppur in modo meno marcato rispetto al secolo passato – possa accentuare gli aspetti già disfunzionali di una famiglia.

Se l’attuale crescente domanda di sostegno alla genitorialità ci ha fatto ca- pire che dobbiamo smorzare i confini tra il “normale” e il “patologico” – che significa che non basta più che il sistema dei servizi alla persona si fac- cia carico delle famiglie “multi-problematiche” e dei cosiddetti genitori “difficili”, ma che sta diventando indispensabile farsi carico della promo- zione del benessere di tutte quante le famiglie (Milani, 2002) – osserviamo come l’educazione familiare (in presenza di un figlio disabile) venga anco- ra “calata dall’alto”, ossia dagli esperti, in una dimensione prevalentemente clinica che rimarca la passività dei genitori, anziché attraverso una logica di interventi e azioni educative volta a creare opportunità nella vita quotidia- na.

Ancora una volta, la metafora del “topos” ci aiuta a chiarire questo passag- gio: in quali luoghi possiamo trovare i genitori delle persone disabili? Ra- gionare sugli spazi permette di capire, infatti, se l’organizzazione sociale (es. i servizi alla persona, il sistema scolastico, i servizi sanitari ecc.) è in- clusiva e, quindi, permette a tutte le famiglie di abitare negli stessi spazi. Come sostengono alcuni studiosi (Caldin e Serra, 2011; Pavone, 2009; Ia- nes, 1991), le famiglie con figli con disabilità continuano a vivere situazio- ni di esclusione sociale e di forte solitudine: sarebbe, allora, necessario promuovere un sistema di servizi che, a partire dai bisogni educativi e so- ciali e non solo da quelli sanitari, promuova l’inclusione e la partecipazione sociale della famiglia, nei luoghi ordinari, di tutti e ciascuno. In tal senso, sarebbe importante – innanzi tutto – prevedere una rete di servizi inclusivi che possano corrispondere alle domande diversificate di tutte le famiglie (comprese quelle con figli disabili). Il sostegno alla genitorialità non do- vrebbe avvenire in luoghi ad hoc per le “famiglie con figli con disabilità” e/o in servizi notoriamente connotati sulla disabilità, ma dovrebbe avvenire in spazi comuni a tutti i genitori per sottolineare le comunanze delle que- stioni educative delle famiglie del nostro tempo, nonché le sfide familiari

(con o senza figli disabili) che contraddistinguono l’educare nei cosiddetti anni dell’ “evaporazione paterna” (di cui parleremo ampiamente nel pros- simo capitolo).

I servizi inclusivi – in grado di accogliere tutte le famiglie – dovrebbero su- perare il paradigma epistemologico della normalità, vale a dire il paradig- ma che indentifica la “normalità” di una famiglia attraverso una serie di coordinate che potremmo definire strutturali. Proviamo a fare un esempio: le ricerche sulle famiglie monoparentali o su quelle ricomposte sono state condotte per verificare l’ipotesi di una “carenza” e di una possibile “de- vianza” legata in modo particolare all’assenza di uno dei due genitori, con- siderata come la principale causa delle difficoltà evolutive dei membri della famiglia e, in particolar modo, dei minori (Fruggeri, 1997).

Per analogia è accaduto qualcosa di molto simile nell’ambito della disabili- tà: per un lunghissimo periodo (fino alla fine degli anni Ottanta o, forse, anche negli anni Novanta), numerosi studi sono stati orientati dal “pregiu- dizio della famiglia normale” nel senso di considerare “deviazione” dalla norma le configurazioni familiari che presentavano al loro interno un mem- bro con disabilità. Anche in questi casi, le ricerche hanno cercato di verifi- care l’ipotesi che la disabilità di un figlio implicasse un elemento patologi- co per la famiglia: sono noti tutti gli studi che vedevano come le famiglie con un minore disabile fossero, a loro volta, “disabili”.

Un’altra importante questione – secondo un approccio inclusivo dei ser- vizi – è quella di prendere in considerazione anche il padre. Difatti, un se- condo pregiudizio che ha caratterizzato complessivamente la ricerca sul campo è stato quello della prevalenza della focalizzazione sulle dimensioni “materne”, nel senso che, per molto tempo, l’oggetto di studio è stata esclu- sivamente la figura materna. In un certo qual modo, si riteneva che i danni dell’assenza paterna fossero meno rilevanti rispetto ai danni effettuati dalla deprivazione materna (Bowlby, 1969) che hanno avuto ampia considera-

zione nelle teorie dell’attaccamento. Accanto a ciò, in riferimento alle si- tuazioni di disabilità, Marsiglio et al. (2000) indicano, inoltre, che gli studi sul padre sono stati rallentati da una tendenza diffusa a vedere la madre come il principale caregiver del figlio. Non è un caso il fatto che, fino a qualche decennio fa, il padre non comparisse neanche negli scritti sulla primissima infanzia (legata ai temi della disabilità). In altre parole, come possiamo indagare il coinvolgimento paterno, se più o meno consapevol- mente, abbracciamo ancora l’idea che l’educazione dei bambini disabili debba essere una questione, da un’ottica sociale, prevalentemente “mater- na”?

Sebbene le ricerche che ruotano intorno alla partecipazione dei padri dei bambini con disabilità nei servizi socio-educativi e/o scolastici Gavidia- Payne e Stoneman, 1997) siano scarse quantitativamente; West afferma (2000) – sulla base di uno studio condotto con padri con figli disabili – che gli stessi padri riportano una evidente insoddisfazione nei confronti dei ser- vizi socio-educativi, scolastici e sanitari orientati alle madri e poco impe- gnati, per contro, al bisogno dei padri di essere coinvolti e accompagnati, insieme alle madri, in questi servizi e nella crescita del figlio. A tal proposi- to, anche in un altro studio condotto da Carpenter e Herbert (1997) emerge qualcosa di molto simile: i padri restituiscono l’immagine di servizi nei quali non si sentono pienamente accolti e dove echeggiano immagini ste- reotipate del loro ruolo legate a rappresentazioni sociali che cristallizzano la loro identità e i loro comportamenti. La non presenza (o la scarsa presen- za) dei padri nei servizi socio-educativi e scolastici non rappresenta neces- sariamente una “carenza” paterna (“dove sono i padri?”), ma la testimo- nianza di una miopia da parte dei servizi educativi a considerare l’educazione, soprattutto dei più piccoli, come una questione che appartiene alla madre.

Attualmente, un altro pregiudizio – in parte legato al precedente punto – è quello di considerare prioritariamente la diade madre/bambino a scapito di una relazione educativa come la risultante di un modello triadico (di cui parleremo anche nelle prossime pagine). I servizi inclusivi dovrebbero reg- gere le proprie basi su un modello triadico della genitorialità che si defini- sce a partire dal fatto che il rapporto tra un genitore e un figlio non è mai svincolato né dal rapporto con l’altro genitore né dal rapporto dei due geni- tori tra di loro. In tal senso, il rapporto tra padre e figlio non esisterebbe senza pensarlo in relazione ad una madre, e allo stesso modo, il rapporto tra madre e figlio non potrebbe realizzarsi senza pensarlo in funzione di un pa- dre. Il sistema famiglia funziona come un piccolo gruppo e, in quanto tale, è qualcosa di più della semplice somma dei suoi membri; inoltre, proprio perché “gruppo” è caratterizzato dall’interdipendenza (anche educativa) dei suoi componenti che si influenzano reciprocamente. Si verifica, così, una circolarità delle reciprocità: il comportamento del bambino influenza quello dei genitori (e viceversa), in un processo dinamico a spirale (Emiliani, 2002).