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Come scrive Fruggeri (2011) si è aperta una prospettiva di analisi della ge- nitorialità che invece di partire da “cosa deve fare un genitore”, si interroga su “che cosa serve allo sviluppo di un bambino”, ossia quell’insieme di fun- zioni educative necessarie a favorire la sua crescita e sviluppo.

I bambini hanno bisogno di protezione e cura e dovrebbero crescere in un luogo sicuro, emotivamente caldo, aperto al dialogo, al sostegno e alla valorizzazione delle singole differenze, nel quale imparare a stare in rela- zione con più persone, costruendo dei legami significativi con gli adulti. L’esperienza di “essere-con” – a partire dall’intimità quotidiana, dagli af-

fetti, dalla vicinanza emotiva – permette al bambino di acquisire quelle competenze sociali che gli permetteranno di allacciare all’esterno della fa- miglia altre relazioni, senza percepirle in sostituzione o in competizione tra di loro. La relazione genitore-figlio diviene il luogo per eccellenza della re- lazione “volto a volto”, dove ad ognuno è dato di compiere l’esperienza dell’accoglienza reciproca, della cura, della relazione dialogata dove si gio- ca la dimensione esistenziale dell’appartenenza (Milani, 2002). Accanto al- la protezione e alla cura, inoltre, i bambini hanno bisogno di imparare il senso del limite e della norma; in altre parole, i genitori hanno anche il compito di assolvere alla funzione paterno-normativa che costituisce una dimensione educativa di primaria importanza nel processo di crescita dei figli. La dimensione della cura e la dimensione normativa si rafforzano re- ciprocamente assicurando accoglienza, sicurezza emotiva e fisica e conte- nimento per favorire l’esperienza dell’appartenenza e dell’autonomia.

Il legame famiglia è casa, alleanza, radice. Esso risponde all’esigenza di appartenenza che caratterizza l’essere umano. Ma questa esigenza è sempre accompagnata da quella, altrettanto for- te, dell’erranza, della spinta al non ancora visto, non ancora sapu- to, non ancora sperimentato […] Da questo punto di vista il lega- me familiare dovrebbe essere quel legame che rende possibile l’allontanamento perché dovrebbe saper accogliere il rivelarsi del- la differenza singolare senza esigere l’omogeneità, senza volere la ripetizione dell’uguale, senza appiattirla nella cultura di gruppo già esistente. Il legame familiare non è solo ciò che rende possibi- le l’esperienza dell’appartenenza, ma è anche ciò che, proprio perché sa rendere quell’esperienza possibile, sa anche sopportare la separazione, la differenziazione e l’allontanamento (Recalcati, 2011, pp. 92-93).

E’ in questo intreccio che “appartenenza” ed “erranza” divengono le due anime che rendono vivo il legame familiare: è compito, dunque, della fami- glia creare quella rete nutriente e affidabile di legami affettivi che consen- tano ai bambini di sperimentare, gradualmente, il distacco dalle figure geni-

toriali per fare nuove esperienze, realizzare la propria originalità, distan- ziarsi dal proprio contesto di appartenenza.

Nel processo di crescita, i bambini hanno bisogno di adulti che assolvano sia la funzione materno-protettiva che quella paterno-normativa (Chirico, 1985) esercitando:

 una funzione materno-protettiva che non si identifica con la madre, né una funzione strettamente legata al genere, in questo caso, fem- minile, equivalente alla capacità del genitore – indipendentemente dal genere – di accogliere, proteggere, sostenere, contenere le emo- zione, soddisfare i bisogni e i desideri dei figli (bambini/ragazzi), ossia quelle modalità educative che tendono a favorire la dipenden- za del bambino/ragazzo con gli adulti educativi di riferimento (in primis, la madre e il padre e/o altre figure con una funzione di ca- regiver);

 una funzione paterno-normativa che non si identifica con il padre, né una funzione strettamente legata al genere, in questo caso, ma- schile corrispondente alla capacità del genitore di richiedere pre- stazioni e di introdurre la frustrazione14, calibrandola in modo gra- duale e a seconda della situazione, dell’età e della fase evolutiva del soggetto. Sono modalità educative che promuovono la crescita, l’autonomia, l’erranza dei figli (bambini/ragazzi) attraverso l’esperienza del limite e delle regole, dell’attesa, della solitudine,

14 In area psico-pedagogica, il termine “frustrazione” indica, così, la situazione che si determina quando

un bambino o un adolescente è impedito persistentemente dal soddisfare un bisogno sia materiale sia non materiale. Come conseguenze della frustrazione si possono considerare o l’affinamento degli sforzi messi in atto per ottenere uno scopo prefisso (conseguenza positiva), o l’instaurarsi di un disadattamen- to a seconda sei casi orientati verso la rinuncia o verso l’aggressività. E’ evidente che la capacità di tol- lerare le frustrazioni è segno di maturità e, per questo, va considerata come una prospettiva educativa da perseguire con decisione e consapevolezza (Bertolini P., 1996, “Frustrazione”, in Dizionario di Peda-

dell’assunzione delle responsabilità e del pensiero critico e così via dicendo.

Non si tratta, dunque, di una questione legata alla distribuzione dei ruoli in base alle differenze di genere – femminile e maschile – quale condizione necessaria per una genitorialità idonea alle esigenze dei bambini/ragazzi, bensì si tratta di una questione legata alla più ampia funzione educativa del- la famiglia che racchiude in sé le due funzioni, appena sopra menzionate, che permettono l’educabilità dei figli.

L’attribuzione delle funzioni sulla base del genere è riscontrabile, in ambito psicoanalitico, nel modello freudiano che individua la figura triangolare (madre-padre-figlio) – basata, appunto, sulla differenza di genere di chi esercitata la funzione educative – per descrivere i ruoli familiari funzionali allo sviluppo psichico e individuale del soggetto.

Sebbene i mutamenti e le trasformazioni socio-culturali e familiari (es. le famiglie omosessuali, le famiglie monogenitoriali ecc.) abbiano messo, per alcuni, in discussione tale modello, ciò che appare interessante è riflettere, da un punto di vista educativo, su questa situazione triadica dove ritrovia- mo un “terzo” che ha (o avrebbe) la funzione di favorire e promuovere il superamento della situazione simbiotica madre/bambino caratterizzata da una iniziale e reciproca dipendenza assoluta.

In questo lungo e complesso processo di separazione/differenziazione tra la madre e il figlio, questa figura adulta, Terzo, con una funzione di Io Ausi- liario nei confronti del bambino (ma anche della madre stessa), si pone (o dovrebbe porsi) come elemento de-strutturante della diade madre/bambino e, allo stesso tempo, si introduce (o si dovrebbe introdurre) come un nuovo elemento strutturante per la crescita del bambino, ma anche per l’evoluzione dialettica della diade madre/bambino.

Il padre, in letteratura, è il cosiddetto Terzo Affettivo (Chirico, 1985) che dovrebbe espletare questa funzione di Io Ausiliario poiché il bambino, nel suo processo evolutivo, necessita di supporto di più adulti che lo aiutino ad evolvere da un Io non integrato alla nascita ad un Io strutturato, oltrepas- sando la fase originaria di con-fusione con la madre.

Winnicott (1973) ha definito con “preoccupazione materna primaria” un tipo di attenzione indispensabile nei primi mesi di vita del bambino, dove ritroviamo tra madre e neonato una dipendenza che potremmo indicare co- me assoluta e reciproca. In questa prima fase di dipendenza assoluta sia fisica che affettiva, il bambino non è ancora in grado di prendere consape- volezza delle cure materne e non distingue ancora il suo corpo da quello della madre. Il rapporto è fusionale e attraverso la mediazione del corpo, ma anche degli odori, dei gesti, del tono della voce, dei suoni si crea un quel legame di attaccamento per il quale il neonato è incline. Il bambino molto piccolo si vive come una parte della madre e anche a lei sembra che il suo figlio sia una parte di sé.

I momenti delle cure del corpo e del nutrimento – quali occasioni per eccel- lenza del rapporto fra la madre e il bambino nei primissimi mesi – sono centrali per costruire un legame stabile, sicuro e continuativo tra l’adulto e il minore quale condizione di benessere psichico (è, infatti, molto importan- te che l’articolazione del tempo sia stabile e prevedibile). Tuttavia, questa situazione di fusione deve necessariamente evolvere attraverso ulteriori passaggi che coinvolgono la diade:

 dai 6 ai 18 mesi abbiamo il tempo della dipendenza relativa: quan- do la madre si allontana il bambino piange perché percepisce la sua assenza, nonché la differenza tra sé e la madre che non è più un tutt’uno in una dimensione di assoluta fusione (“l’angoscia da sepa- razione”). La stessa madre con i suoi momenti di assenza (es. il la-

voro) percepisce che il bambino è “altro” da sé e progressivamente si aprono degli spazi – fisici, emotivi, psichici – anche per altre fi- gure (es. il padre);

 dai 2 anni, il bambino accede, invece, a una fase di indipendenza relativa: il bambino ha imparato a conservare dentro di sé l’immagine della madre benevola anche in sua assenza, dopo aver fatto propria la sicurezza che la madre gli ha trasmesso attraverso la sua presenza, le sue cure e il suo ritorno dopo i momenti di distacco (Winnicott, 1973).

E’ evidente che l’evoluzione del rapporto – da una dipendenza assoluta a una indipendenza relativa – madre/figlio viene rafforzata e sostenuta grazie alla presenza di altre figure, come il padre, che ruotano intorno al bambino e che hanno un ruolo importante nella sua formazione identitaria. Il padre rappresenta la (e apre alla) differenza nel contesto di vita del bambino che lo aiuta a differenziarsi dalla madre per ampliare le relazioni e entrare nel “mondo”: il padre può avere modalità relazionali anche molto differenti dalla madre (un tono di voce più energico, una presa più forte, un ritmo più rapido ecc.) pur svolgendo le stesse attività o azioni (es. le cure del corpo); allo stesso modo, può impegnarsi in attività che le madri non svolgono con particolare frequenza (es. portare il figlio sulle spalle, “lanciarlo” per aria ecc.). In entrambi i casi, il padre può introdurre elementi inediti nella vita del figlio. È importante – per non annullare la ricchezza intrinseca alla dif- ferenza – non ragionare in termini di una gerarchia di importanza (in termi- ni di “migliore” o “peggiore”) o di una diseguaglianza “da colmare” (in termini di “maggiore” o “minore”) tra padre e madre; al contrario, risulta necessario richiamare che i genitori con le loro “differenze” possono offrire al proprio figlio una pluralità di apporti, che definiamo necessari per la cre- scita (Paquette, 2004). Queste esperienze primarie con le quali il bambino

entra in contatto (“non siamo tutti uguali”, “dal mondo esterno provengo richieste differenti”) saranno necessarie per esplorare il mondo (ed es. il ni- do è una parte di mondo che il bambino inizia a conoscere già da molto piccolo) con la propensione di conoscere un ambiente nuovo, con delle per- sone che non sono né la madre né il padre.

Uno dei presupposti più condivisi nella letteratura scientifica internazionale – nell’area psico-pedagogica e delle scienze umane – è che il bambino si sviluppi all’interno di relazioni significative con adulti come la madre, il padre, i nonni, gli insegnanti, i coetanei, e – più in generale - con l’ambiente sociale intorno a lui. Tali relazioni sono utili per comprendere lo sviluppo del bambino, il quale fa parte di una rete sociale complessa che include persone (madre, padre, fratelli ecc.) e attività (conoscere, giocare, imparare ecc.) che aiuta il bambino – a lungo termine – a:

 osservare e esplorare il mondo esterno;  prendere iniziative;

 socializzare con il gruppo dei pari e/o con adulti;  sviluppare un pensiero astratto;

 fronteggiare eventuali situazioni frustanti;  tollerare l’assenza della madre e del padre;

 condividere spazi e affetti con altri (“non esiste solo lui”);  gestire gelosie, paure, dolori.

In questo intreccio dinamico tra vicinanza e lontananza, tra presenza e as- senza e tra continuità e discontinuità educativa, Pazzagli (1999) afferma che

il padre è esterno alla coppia madre-bambino, ma tutt’altro che estraneo, anzi a essa è necessario in quanto introduce il contatto con la realtà esterna nel bambino, garantisce, con la sua presenza, spazi di autonomia alla mente della madre, determina nel bambi-

no una relazione diversa, triangolare, con i suoi bisogni e con l’oggetto del bisogno. In quest’area il padre stimola il bambino, tramite l’identificazione, lo sviluppo di capacità autonome nella ricerca dell’oggetto, la capacità autonoma di percepire i diversi bisogni, e di cercare oggetti diversi e adeguati ai propri bisogni e desideri; il padre favorisce, quindi, l’indipendenza sia per quanto riguarda la percezione e la soddisfazione autonome dei bisogni e dei desideri e, nello stesso tempo, ha una funzione normativa, di guida e di limite di realtà dell’onnipotenza, senza essere solo fru- stante in quanto ama ed è amato dal figlio (p.25).

Dunque, le teorie psicoanalitiche hanno tradizionalmente proposto una vi- sione del padre come attore della separazione del bambino dalla madre, os- sia colui che interviene in “secondo momento” e, come già scritto, eserci- tando una funzione di Io Ausiliario nel processo di separazione- individuazione del bambino dalla madre.

Tuttavia, gli psicanalisti contemporanei, a partire dalle teorie della triango- lazione primaria, vedono nella figura paterna non soltanto un elemento se- paratore, ma anche un elemento con una funzione di riparazione e di lega- me. Il padre interverrebbe allora come elemento protettore e creatore di nuovi legami. Infatti, pur restando al di fuori della diade madre/bambino, il padre assumerebbe un ruolo positivo grazie alle interazioni che ha con il bambino e con la madre, proprio come terza persona nella diade. La psi- coanalisi introduce l’elemento triadico perché la paternità è anche funziona- le alla relazione coniugale (Merucci, 2015)15.

Nella genitorialità (o meglio nella transizione alla genitorialità), la relazio- ne coniugale tra la madre e il padre va incontro a diverse trasformazioni, in seguito alla nuove esigenze (nuovi ritmi familiari, la divisione del lavoro intra e extra-familiare, i bisogni del figlio, la suddivisione dei compiti edu- cativi ecc.) che scatenano complesse dinamiche di negoziazione dei ruoli e

15 Merucci M., Papà dove sei? Ricerche e incontri con i padri, in Cinotti A. e Caldin R. (a cura di),

dello spazio di coppia sul piano affettivo-relazionale, ma anche su quello sociale e economico. Un “buon” funzionamento familiare è strettamente connesso alla capacità dei partner di transitare dal “sistema coppia” a quello genitoriale: la scelta di avere un bambino implica, quindi, la capacità di aprire i confini della coppia, creando uno spazio emotivo, fisico e psichico per l’accoglienza di un “terzo” membro della famiglia (Cardinali e Guidi, 2003). Il processo di transizione alla genitorialità assume significati molto differenti da coppia a coppia, in base al livello di maturità affettiva di en- trambi (dipendenza VS interdipendenza di coppia, storie personali di cia- scuno, stabilità e coesione emotiva, condivisione di progettualità ecc.). An- dare verso l’idea di sé come genitori implica la differenziazione dalla fami- glia d’origine, rielaborare la propria posizione di “figlio” o “figlia” nella relazione con i propri genitori e condividere le responsabilità dell’esperienza della genitorialità (Cardinali e Guidi, 2003).