Il superamento del principio di “autorità paterna” trova la sua piena espres- sione sull’onda delle rivoluzioni sociali e culturali del Sessantotto. La svol- ta antiautoritaria ha, infatti, trovato un terreno sociale recettivo, ossia pron- to a mettere in discussione i pilastri dell’educazione autoritaria (regole im- plicite, scale valoriali, distinzione di ruoli in base al sesso ecc.) che, fino a quel momento, aveva garantito il “funzionamento” della società e gli inte- ressi delle persone.
In questa transizione culturale, che ha smantellato un’organizzazione gerar- chica e autoritaria, “l’incertezza sulla linea pedagogica da seguire nei con- fronti dei figli, a causa di una rapida evoluzione dei costumi, delle situazio- ni e perfino del linguaggio” (Colonna, 1968, p.20), si fa sempre più eviden- te.
Gli anni del Sessantotto – da un punto di vista sociologico – cambiano sia il ciclo di vita familiare sia il ciclo di vita individuale attraverso la diffusione di orientamenti volti a valorizzare, sempre più, la sfera del privato e dell’individualizzazione. Questo processo culturale afferma valori quali l’autonomia personale, l’autorealizzazione e le aspettative di felicità perso- nale, esaltando la logica affettiva che penetra nella vita delle persone, nella loro vita familiare, nonché nella sfera sociale (Zanatta, 1997).
L’affermazione di questo modello individualistico (il punto di riferimento non è più la società) produce anche una trasformazione delle norme sociali che vengono viste come una intrusione nella sfera privata della famiglia e per l’autonomia personale. In tal senso, le norme sociali impallidiscono e lasciano sempre più spazio alla regolamentazione privata dei rapporti per- sonali e familiari. Sul piano familiare, certamente, una prima conseguenza di queste trasformazioni ha interessato il ruolo del padre.
Il padre ha dovuto trasformarsi per “stare al passo” con i cambiamenti della donna grazie anche a modificazioni giuridiche del suo status, sia con i cambiamenti della società (si vedano i già citati fenomeni quali l’industrializzazione, la fuga dalle campagne, la mobilità sociale, i flussi migratori, l’indebolimento dei legami solidaristici ecc.).
Il radicale cambiamento del ruolo sociale della donna ha contribuito a mu- tare il tradizionale assetto familiare: ad esempio, in seguito all’ingresso nel mondo del lavoro della donna sono sorte nuove questioni e problematiche legate alla gestione della cura dei figli e a tutti quei compiti tradizionalmen- te attribuiti alla madre. Tutto ciò ha portato ad una nuova concezione di coppia e famiglia che ha visto abbandonare quelle dimensioni legate alla rigidità dei ruoli e delle funzioni educative – in base all’identità di genere – che hanno caratterizzato le dinamiche familiari del passato.
Ma il padre, a differenza della madre, è andato incontro ad un mutamento profondo che, in parte, non è stato né ricercato né desiderato da lui stesso, ma che è stato, appunto, indotto da una rappresentazione sociale sul ruolo “femminile” sempre più evidente che si è manifestato attraverso nuove rap- presentazioni sociali della donna (e dell’uomo).
Il fatto che, da parte degli uomini, non ci sia stato un movimento di rifles- sione e di rielaborazione ha fatto sì che questa figura si sia aperta ad una fragilità (identitaria, educativa, di ruolo) che lo ha reso maggiormente vul-
nerabile difronte al suo nuovo profilo, nonché ai suoi compiti educativi nei confronti dei figli.
Potremmo anche aggiungere che i cambiamenti legati alla ricerca di un ideale di giustizia sociale e di una parità di diritti civili e giuridici che si è lentamente concretizzata anche in una maggiore istruzione della donna, nonché in maggiore autostima e apertura culturale abbiano prodotto la na- scita, in prima istanza, di una nuova rappresentazione sociale sulla “nuova madre” e poi, di riflesso, anche quella sul “nuovo padre”.
Si è arrivati a pensare che, in famiglia, proprio quelle trasforma- zioni avvenute a partire dagli anni Sessanta, abbiano condotto inesorabilmente a quella presunta indifferenziazione dei ruoli pa- rentali. La parità tra uomo e donna, talvolta esasperata, ma mai pienamente raggiunta, ha portato alla omologazione della figura materna con quella paterna e ha indotto a trascurare le specificità fondamentali delle funzioni educative spettanti a madre e padre. Il danno maggiore, determinato da tale ideologia omologante, è ri- caduto principalmente sulla figura paterna che è stata privata di specifiche connotazioni positive e che, al tempo stesso, ha evi- denziato in modo negativo le stesse connotazioni assegnate dalla tradizione (Zanfroni, 2005, p.68).
E’ in questo scenario che possiamo iniziare a collocare il fenomeno della “paternalizzazione” del ruolo materno, che nasce – come già detto – sulle ceneri della famiglia tradizionale patriarcale fondata sull’autorità del pater familias. Ora, il rapporto uomo-donna assume caratteri molto diversi, con attribuzione di ruoli e regole di funzionamento del tutto implicite e non più attribuiti dall’esterno. Pietropolli Charmet (1995) afferma che
in molte occasioni si ritiene che possa considerarsi ormai fisiolo- gica una inversione di ruolo e di funzioni; la madre, divenuta ga- rante delle separazioni precoci incalza il figlio sulla strada della socializzazione e del successo scolastico, sportivo e sociale ed è il padre che protegge le esigenze d’appartenenza del figli, tutelan-
done gli aspetti di dipendenza. Le nuove madri non hanno dubbi rispetto all’evidente incapacità dei nuovi padri di promuovere se- parazioni e crescite accelerate; si ritengono però allenate a soste- nere i figli nel processo d’emancipazione ed autonomizzazione” (p. 54).
La “paternalizzazione” del materno, con le ambivalenze competitive che lo hanno accompagnato nei confronti dell’uomo (padre), va scontrandosi con una sempre più evidente “maternalizzazione” del ruolo del padre: quest’ultimo viene coinvolto molto precocemente nella relazione primaria col figlio, sviluppando apprezzabili competenze empatiche, divenendo in- terprete dei suoi bisogni e timori, solidarizzando con lui nei confronti dell’ambiente esterno e dei processi educativi (Pietropolli Charmet, 2000).
Ci troviamo di fronte a un’educazione che si è maternalizzata per contrapposizione all’educazione maschilista di un tempo. Facen- do questo non solo l’educazione si è squilibrata, ma sta correndo il rischio di sacrificare tutte le dimensioni del codice paterno che sono guardate con sospetto se non addirittura negate: la centralità dell’insegnamento; della funzione regolativa; del rischio e dell’avventura; delle regole e dell’esercizio dell’autorità; della creazione di situazioni di discontinuità, del contenimento della soddisfazione dei bisogni; del futuro; del ‘a che cosa educare’; della fatica e dell’impegno (Tuggia, 2012, pp.97-98).
Il padre viene così messo sullo sfondo e i suoi compiti vengono lentamente ridotti ad una funzione di (co)gestore di cure materne e con ciò egli smarri- sce il suo ruolo indiscusso di protagonista nei riti di iniziazione e nei pro- cessi di regolazione e di socializzazione per i figli, trovandosi, in questo modo, costretto a rivestire un “nuovo” ruolo di cui probabilmente non rie- sce ad essere né fiero né a riconoscersi in maniera profonda (Lepri, 2015)21.
21 Lepri C., La presenza di Enea. L’educare dei padri di fronte alla disabilità, in Cinotti A. e Caldin R.
A partire dagli anni Settanta, si registra un nuovo interesse del tutto inedito, da parte degli uomini nei confronti della gravidanza e si inizia anche a os- servare una significativa partecipazione degli uomini, soprattutto i più gio- vani, con slanci più o meno reali di entusiasmo, che si mettono alla prova con l’esperienza della cura e dell’accudimento dei figli, insieme alla madre (Zanatta, 2011; Lareau, 2003; Pazzagli, 1999).
Le giovani coppie iniziano, dunque, a portare grandi innovazioni nel loro rapporto tra uomo e donna, e nella distribuzione dei ruoli (seppur non priva di conflittualità), nell’intento di attribuire un personale significato all’esperienza coniugale, nonché alla genitorialità.
Il ruolo del padre è certamente legato ad una questione culturale e come tale va continuamente rinnovato nel corso delle varie generazioni, ma rima- ne anche una questione intenzionale legata ad una scelta e ad una proget- tualità (quella educativa).
E’ proprio all’interno di questo panorama che possiamo provare a collo- care la nascita educativa del padre con un figlio con disabilità: parallela- mente al progressivo impallidire paterno, nonché alla sempre più diffusa maternalizzazione del padre e in tempi non semplici per i valori dell’area paterna, il padre (con un figlio disabile) inizia a trovare un proprio spazio educativo, in relazione al figlio. La nascita di tale padre ha a che fare con una qualche forma di intenzionalità (intesa come scelta di esser-ci) da parte di ciascun uomo che però, trova le sue stesse radici negli approcci culturali, nonché nei cambiamenti sociali e legislativi in relazione alla questione “di- sabilità”.
In altre parole, la tematica del padre (con un figlio disabile) risulta certa- mente mescolata con il filone di studi e di ricerche che pongono al centro dell’attenzione pedagogica la funzione paterna in senso ampio, poiché – come già scritto – ciò che accade tra un padre e un figlio disabile ha enormi comunanze rispetto a ciò che caratterizza la paternità nei confronti di un fi-
glio senza disabilità, ma l’esperienza della paternità confrontata con la di- sabilità è altresì intrecciata con la più ampia storia socio-culturale e educa- tiva delle persone con disabilità.
Seguendo questo ragionamento, possiamo cercare di individuare quali siano le origini educative del padre (con un figlio con disabilità) e cosa ci sia “dietro” al suo nascente ruolo (educativo)?
A partire degli anni Settanta, infatti, sono avvenuti alcuni avvenimenti che ci permettono di esaminare la situazione del padre riguardo alla disabilità di un figlio. Tali momenti, che potremmo intendere come delle chiavi di lettu- ra nella nostra analisi, sono stati: a) la deistituzionalizzazione delle persone con disabilità dai luoghi segreganti e totalizzanti; b) l’associazionismo fa- miliare a tutela delle persone con disabilità nei cosiddetti anni della “con- trattazione” tra i genitori e la comunità di appartenenza; c) l’integrazione scolastica nelle scuole ordinarie (a partire dalla Legge 517 del 1977). In altre parole, perché ci sia un padre culturale è necessario che sia anche un figlio culturale. Il padre, per abitare i tempi della paternità, ha bisogno di farne esperienza. In tal senso, negli anni in cui il figlio con disabilità ve- niva ricoverato in Istituto, lontano da casa e dalle figure genitoriali, il padre (come la madre) quali funzioni educative poteva esercitare nei confronti di un figlio che viveva lontano da lui? Come poteva un padre esercitare la sua funzione paterna, se per i bambini con disabilità non vi era nessun progetto educativo (di autonomia, di esplorazione, di avventura ecc.)? Come poteva il padre accompagnare il figlio verso l’incontro con la società se per le per- sone con disabilità non vi era alcuna possibilità di inclusione sociale? La nascita educativa dei padri (e delle madri) appare, dunque, in linea con il percorso di maturazione socio-culturale e politica del nostro Paese, in meri- to alle questione “disabilità” che è stato spinto, in primis, dal profondo de- siderio dei genitori di cura educativa nei confronti dei loro figli con disabi- lità.
Come indica Mura (2009), il clima di maggiore apertura e di intenzionalità educativa nei confronti delle persone con disabilità è stato avviato grazie alla spinta propulsiva delle famiglie che, organizzate in forme associative, hanno lottato per la conquista di diritti fondamentali per i loro figli con di- sabilità (il diritto ad “avere un posto” nella società, il diritto alla vita comu- nitaria, il diritto all’autonomia personale, il diritto all’educabilità in contesti ordinari ecc.). Le famiglie, sul versante pubblico, hanno prodotto pressioni culturali e sociali talmente tanto forti da incoraggiare, attraverso forme del tutto sperimentali e innovative, l’inserimento dei loro figli con disabilità nelle classi regolari. In tal senso, le famiglie – con una funzione di “apripi- sta” – sono state senz’altro il traino che hanno messo a confronto l’opinione pubblica con i temi della disabilità, riuscendo anche a incidere su disposi- zioni normative di portata storica come la Legge n. 118 del 1971, la “Circo- lare Falcucci” del 1975, quale documento-base per tutta la normativa suc- cessiva, a partire dalla Legge n. 517 del 1977 (Nocera, 1999).
Questi anni del secolo Novecento rappresentano il superamento (mai defi- nitivo) dell’approccio filantropico e medico alla disabilità, mettendo in luce l’esigenza di andare sempre più verso una direzione di piena partecipazio- ne, di integrazione e di inclusione sociale dei bambini con disabilità e anche delle loro famiglie. Gli anni Settanta, in Italia, hanno certamente rappresen- tato un decennio importante per le persone con disabilità e per le loro fami- glie: indiscutibilmente, la vera svolta culturale-educativa e politica è avve- nuta con il diritto all’istruzione nelle classi ordinarie per tutti i bambini. Ma il provvedimento legislativo della Legge 517 del 1977 va ben oltre la con- cretizzazione di norme riguardanti la scolarizzazione dei bambini disabili, andando ad esigere la promozione di migliori condizioni di vita individuali e collettive per i minori disabili.
Di fatto, la presenza di un figlio con disabilità ha richiesto ai genitori d’immaginare una nuova funzione parentale che, fino a quel momento, era
stata negata ai padri e alle madri che avevano percorso la via dell’istituzionalizzazione.
Parallelamente, i padri e le madri iniziano a rivendicare un ruolo più attivo anche nelle decisioni che riguardano il figlio disabile, mettendo in luce an- che una expertise che nasce dalla conoscenza diretta con il proprio figlio disabile nella/della quotidianità.
La possibilità di una continuità fisica e anche emotiva con il figlio permette al padre (e alla madre) di imparare a conoscere e a cogliere i suoi segnali di vitalità, come le iniziative, le differenti risposte agli stimoli, scoprendo po- tenzialità di sviluppo e competenze che sarebbero impensabili senza una reciproca familiarizzazione e conoscenza.
Dunque, il padre il padre con un figlio disabile transita alla paternità – in termini educativi e pedagogici – negli anni in cui ritroviamo il fenomeno della “maternalizzazione” del ruolo educativo paterno. Il padre impara a fare il padre da autodidatta, poiché non può apprendere né dal proprio padre né dai cosiddetti “fratelli maggiori” (ossia altri padri che hanno già percor- so qualche tratto della stessa strada e che quindi possono aiutarlo, mettendo in comune le proprie esperienze). Inoltre, se alla generale maternalizzazio- ne dei processi educativi, aggiungiamo un atteggiamento poco emancipato- rio di genitori spaventati (o impreparati) dal futuro di un figlio con disabili- tà, riusciamo a comprendere come mai le azioni educative dei genitori si declinino prevalentemente sul “codice materno”. Il padre con un figlio di- sabile non può usufruire dell’esperienza delle generazioni passate, può fare riferimento unicamente ai modelli di affettività e di cura femminile. Il pa- dre, in questo modo, viene portato a “imitare” la madre.