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Per quanto concerne i dati relativi al numero totale dei figli, osserviamo che la maggioranza delle famiglie (55,8%) ha un unico figlio. Quindi, nel no- stro gruppo di riferimento, questo significa che la maggioranza delle fami- glie incontra e esperisce la disabilità di un figlio, senza avere a disposizio- ne un “metro di misura” che sia “calibrato” sui bambini senza disabilità e sui loro bisogni ordinari33 (Grafico 7).

Graf. 9. Numero dei figli in famiglia (valori in percentuale)

Il restante 30% delle famiglie ha due figli, mentre l’11% ne ha 3 figli e, in- fine, una piccolissima percentuale (3%) ha almeno 4 figli.

L’età di tutti i figli è all’interno di un range che varia dai 3 mesi ai 15 anni, nel quale però ritroviamo un’ampia concentrazione di figli (83%) nella fa- scia d’età della prima infanzia, ossia 0-6 anni. I figli tra i 7 e i 10 anni rap-

presentano un gruppo piuttosto circoscritto (13%) e i figli dagli 11 ai 15 anni sono soltanto il 4% del totale.

Graf. 10. Età dei figli (valori in percentuale)

Per quanto concerne le famiglie con almeno due figli, osserviamo che la posizione del figlio con disabilità, all’interno della fratria, è così articolata:

 nel 12,7% dei casi, il bambino con disabilità è il fratello maggiore (ossia il primogenito della famiglia), ciò signifi- ca che il bambino con disabilità ha un fratello più piccolo di lui;

 nel 26,7% dei casi, il bambino con disabilità è il fratello minore (ossia il più piccolo di tutta la fratria) e ha un fra- tello più grande di lui;

 nel 3,4% dei casi, il bambino con disabilità è in una posi- zione intermedia nella fratria, ciò significa che ha certa- mente almeno un fratello maggiore e anche un fratello mi- nore.

In quest’ultimo caso, il dato è estremamente circoscritto (3,4%), poiché come si evidenza nel grafico 9, solo una piccolissima percentuale delle fa- miglie ha una fratria numerosa, ossia composta da almeno 3 figli.

Graf. 11. Posizione nella fratria del figlio con disabilità (valori in percentuale)

Risulta evidente che il numero dei figli nelle famiglie, coinvolte nella ri- cerca, è sempre meno numeroso: il decremento del tasso di natalità verso un solo figlio per coppia è una questione oramai ampiamente diffusa su tut- to il territorio nazionale (seppur con alcune differenze geografiche), almeno da una trentina di anni. Infatti, il primo forte crollo delle nascite è avvenuto tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, con una sostan- ziale stasi su livelli molto bassi nel corso degli anni Novanta (Rosina e Fra- boni, 2004). Questo ci dice che i bassi livelli di fecondità all’interno delle famiglie non sono necessariamente e strettamene legati alla variabile “disa- bilità” del primo figlio: tali dati vanno inseriti in un più ampio panorama, legato alle trasformazioni delle famiglie che sono parte di un processo di generale cambiamento economico-sociale e culturale.

Il decremento del tasso di natalità ha condotto, soventemente, verso un uni- co figlio per coppia e, secondo Ariès (1983³), il drastico calo della fecondi- tà avrebbe una radice essenzialmente culturale che indicherebbe il passag-

gio dalla centralità del bambino (che è strettamente legata all’identità della donna, nonché al suo ruolo sociale di “madre”) a quello della coppia, che pensa alla propria realizzazione personale e familiare, anche in modi diffe- renti rispetto al “diventare genitore”. In particolar modo, secondo Becker (1981), l’aumento dell’istruzione e le maggiori opportunità di occupazione extra-domestica per le donne e la conseguente ri-valutazione del suo ruolo sociale possono essere intesi come alcuni dei più importanti fattori esplica- tivi in relazione alla diminuzione del tasso di natalità in Italia.

Dunque, secondo questa prospettiva, la scelta di avere un figlio potrebbe, quindi, entrare in “competizione” con le opportunità di realizzazione perso- nale (es. la carriera), ma anche con l’innalzamento degli elevati standard e ritmi di vita nella società occidentale, spesso incongruenti con le esigenze psicologiche della donna, dell’uomo e del sistema “famiglia”. Difatti, le trasformazioni del ruolo della donna e degli impatti che tali cambiamenti hanno avuto in famiglia, andrebbero anche letti in relazione all’evoluzione del ruolo dell’uomo e alla sua capacità di “adattarsi” (o meno) di fronte a nuovi ruoli di genere all’interno della coppia e della società (Rosina e Fra- boni, 2004).

In altre parole, avere dei figli “non conviene”, poiché i costi di un figlio, e chiaramente non soltanto in termini economici, ma anche – soprattutto – per quanto riguarda gli aspetti psicologici, emotivi, affettivi, nonché in ter- mini di tempo e di possibilità “mancate”, sono nettamente più alti rispetto ai benefici che i genitori ricavano dal loro desiderio di genitorialità, seppur forte e presente in molte coppie.

Si evince che l’autonomia (economica e psicologica dal marito) della donna e la sua cospicua partecipazione al mondo del lavoro (citiamo il dato della nostra ricerca che riporta che il 70,9% delle madri risulta “occupata”), non- ché il suo livello di formazione e istruzione (ricordiamo che la maggioranza

delle madri, della nostra ricerca, ha il diploma della scuola superiore di se- condo grado e/o la laurea) hanno certamente segnato un passaggio impor- tante nella storia delle famiglie italiane. Questo fatto “rivoluzionario” ha avuto importanti conseguenze sulla vita familiare (maggiori parità tra i partner ecc.) e ha fatto emergere le difficoltà di rendere compatibili i tempi della famiglia con quelli del lavoro e l’inadeguatezza della politiche a so- stegno delle famiglie (Zanatta, 2011, p.9).

Infatti, nella nostra ricerca troviamo coppie in cui, nella maggioranza dei casi (ossia oltre la metà), abbiamo famiglie cosiddette a “doppio reddito”, dove ambedue i genitori svolgono un’attività lavorativa retribuita. I dati del coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro offrono un quadro da cui traspare nitidamente una nuova economia della famiglia, in cui i proventi del lavoro femminile divengono, oggi, una fonte irrinunciabile per far fron- te ai costi della vita (Gigli, 2007).

Andiamo ora a focalizzarci su un tema alquanto delicato come quello della “comunicazione della diagnosi”.

2.4 La comunicazione della diagnosi attraverso lo sguardo del pa-