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L’entrata in scena ufficiale Le due conferenze sull’identità e l’adattamento (1964)

III. DALL’ETNOPSICHIATRIA ALL’EPISTEMOLOGIA

6. IL DEBUTTO IN EUROPA

6.2. L’entrata in scena ufficiale Le due conferenze sull’identità e l’adattamento (1964)

Una fortunata contingenza di fattori aveva reso dunque possibile il ritorno di Devereux in Francia e l’istituzione del suo seminario di etnopsichiatria. In quell’ottobre del 1963, in un paese segnato dal massiccio afflusso di migranti a seguito della decolonizzazione e in un’università votata al rinnovamento delle scienze sociali in una prospettiva pluridisciplinare e internazionale, nonché a ospitare professori poco ortodossi e ricerche “originali”, si crea lo spazio istituzionale in cui Devereux può finalmente trovare ascolto. Il terreno socio-culturale è pronto ad accogliere le sue riflessioni sulla messa allo scoperto di una “pelle etnico-culturale” che riveste implicitamente la psicopatologia, i suoi fenomeni ma anche il corpo universale delle sue categorie.72 Sono infatti gli anni dell’apertura di una crepa nelle certezze della razionalità clinica occidentale grazie al fruttuoso incrocio tra il movimento eterogeneo dell’antipsichiatria, le riflessioni di Foucault sulla storicità della “follia” e la critica alla presunta neutralità della scienza portata avanti dalla sociologia della scienza. Ma sono anche gli anni di “una nuova Francia freudiana”, in cui la psicoanalisi diventa “una componente importante della cultura nazionale” uscendo dal “ghetto corporatista” delle sue istituzioni. 73 Finalmente compare nei

discorsi psichiatrici, prima immuni alla sua penetrazione, attraverso la via della “psicoterapia istituzionale” e di quella “politica di settore” che avrebbe portato al

71 Devereux avrebbe coinvolto nel suo progetto il giovane storico Alain Besançon che il 12 maggio 1968 scrive al professore: “Ce que nous voulons c’est une reconnaissance et une institutionnalisation de la psychanalyse dans les sciences sociales. Non pas l’ethnopsychiatrie ou l’histoire en général mais l’application strictement (freudienne) scientifique de la psychanalyse à ces disciplines. Par conséquent il faut insister pour qu’on élargisse ta direction d’études et qu’on développe autour de toi un centre d’étude sur psychanalyse et sciences sociales. Un centre d’études qui regrouperait: l’ethnopsychiatrie psychanalytique, l’histoire psychanalytique, éventuellement la sociologie psychanalytique” [IMEC, Fondo Devereux, DEV 12].

72 Cfr. D. Cosenza, op. cit.

profondo rinnovamento in senso de-concentrazionista dell’assistenza psichiatrica e della cura della malattia mentale. 74 Compare sempre più spesso nelle collane editoriali, nelle riviste, nelle trasmissioni radiofoniche, impregnando il tessuto culturale, e i testi freudiani diventano una delle letture privilegiate degli studenti, che trovano nella psicoanalisi risposte ai temi del momento, come la liberazione sessuale e degli oppressi di ogni genere, dalle donne al “terzo mondo”.75 Smarcandosi dalla medicina e dalla psicologia, la psicoanalisi entrava così in quegli anni nell’alveo delle scienze umane, “come sapere insegnabile” in Università. 76 Le prime cattedre francesi furono infatti istituite alla fine degli anni ’60, nel momento di apice della contestazione studentesca e nel nuovo clima di rinnovamento accademico. 77

“Una teoria etnopsichiatrica dell’adattamento”

Arrivato a Parigi Devereux è entusiasta della nuova condizione. In numerose lettere ringrazia gli amici vicini e scrive a quelli lontani per informarli che finalmente si trova in una situazione accademica “che gli permette al tempo stesso di fare ricerca e di insegnare” e, soprattutto, “nello stesso ambito”.78 In un contesto istituzionale che combacia perfettamente con le sue vedute teoriche e apprezza il suo valore scientifico,79 Devereux può dedicare tutte le sue energie a scrivere.80 “Finalmente ho ottenuto il riconoscimento che ho sempre voluto” – scriverà Devereux all’amico La

74 Cfr. V.P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, il Mulino, 2009. All’avvio della politica di settore la psicoanalisi verrà utilizzata soprattutto nell’ambito dei nuovi Dispensaires e Hôpitaux de jour degli anni ’60, istituiti nei centri medici-psico-pedagogici francesi.

75 E. Roudinesco, op. cit.

76 Ivi, p. 1319. Ricordiamo che negli anni ’20 la psicoanalisi aveva fatto il suo ingresso in Francia attraverso la via letteraria surrealista, venne poi inglobata nel dopoguerra nell’“ideale medico” del “patrono” della psicoanalisi francese Sacha Nacht, da una parte, e nel progetto di una “psicologia generale” di Lagache, dall’altra. La fine della campagna comunista contro la psicoanalisi (1957) ebbe un grande ruolo nella sua diffusione nel mondo intellettuale francese.

77 Nel 1968 penetra “nel campo universitario senza alcuna etichetta psicologica” (cfr. E. Roudinesco, op. cit., p. 1315) con l’istituzione del Dipartimento di Psicoanalisi – voluto da Serge Leclaire, nella nuova Università “sperimentale” di Vicennes (Paris VIII), fondata nel 1968 – e con l’istituzione, nell’anno accademico 1969-70, di un insegnamento all’Unité d’Enseignement et Recherches di Scienze umane e cliniche di Paris VII Censier (le UER furono istituite sempre nel ’68) nell’ambito della creazione da parte di Laplanche di un Laboratoire de psychanalyse et psychopathologie (psychopathologie psychanalytique, psychanalyse appliquée, théorie de la psychanalyse, histoire de la psychanalyse et de la pratique freudienne).

78 Nella lettera già citata a Boyer del 5 dicembre 1964 [DEV 12].

79 “I have the one thing I never had before […]: recognition as an anthropologist” scrive Devereux a La Barre il 28 maggio 1964 [DEV 23].

Barre nel 1965 – “per la prima volta nella mia vita penso che qualcuno potrebbe essere interessato al mio lavoro. Vogliono che parli, che scriva. Questa è una delle cose più belle dell’essere qui”. 81

Al suo arrivo Devereux è immediatamente coinvolto da Roger Bastide nelle iniziative del suo gruppo di ricerca, che in quel periodo, come anticipato, si sta consolidando attorno alla questione degli immigrati a Parigi. Una di queste è, infatti, l’organizzazione della Table ronde sur l’adaptation des africains en France, per la quale il sociologo chiede a Devereux la “preziosa collaborazione”.82

Si svolge il 19 e 20 maggio del 1964 al centro di Psychiatrie Sociale di Bastide, con il patrocinio della sesta sezione dell’EPHE, e vede coinvolti medici, psichiatri, psicologi e assistenti sociali dei maggiori ospedali e centri di ricerca francesi.83 Numerose sono le questioni affrontate: dalle cause dell’emigrazione allo stato dell’arte dei progetti di accoglienza, dai protagonisti coinvolti84 alle “nuove condizioni di esistenza” in Francia,85 da questioni mediche a questioni psicologiche e sociali. Le due giornate sono suddivise in tre sessioni: “Problèmes biologiques”, 86 “Problèmes

psychiatriques”87 e “Problèmes d’ethnopsychiatrie”. In quest’ultima sessione del convegno saranno esposti i risultati delle prime ricerche del gruppo di etno- psicopatologia africana di Solange Faladé e del lavoro clinico svolto agli ospedali Sainte-Anne e Henri-Rousselle nonché presso il centro ospedaliero di Fann a Dakar dal gruppo guidato da Collomb e dai suoi collaboratori. 88Concluderà Raveau con una

81 Scrive a La Barre il 7 aprile 1965 e il 17 ottobre 1965 [DEV 23, trad. mia]. 82 In una lettera del 13 gennaio 1964 [DEV 12].

83 Gli atti del convegno sono stati pubblicati dall’EPHE e sono conservati al Laboratoire d’Anthropologie Sociale (LAS) di Parigi. Cfr. R. Bastide, F. Raveau, (a cura di), Table Ronde sur l’Adaptation des Africains en France, Paris, EPHE, 1965.

84 A partire da numerosi studi statistici (per paese, età, sesso, provenienza sociale ecc.). 85 Come la questione degli alloggi, del lavoro, della situazione sanitaria ecc.

86 Questa sessione prenderà il via dalla constatazione che lo stato sanitario dei migranti non era oggetto di nessun esame medico né alla partenza né all’arrivo. I “problemi di biologia” riguardavano le malattie “inter-tropicali” riscontrate tra i lavoratori africani (soprattutto malattie veneree come la sifilide e la lebbra e la tubercolosi), le malattie più frequenti contratte al loro arrivo e le misure profilattiche contro la loro trasmissione.

87 Riscontrati soprattutto nelle scuole e nei servizi di accoglienza universitaria. In questa sessione interveniva Claude Veil offrendo la testimonianza di un progetto in corso, che mirava a formare nelle università francesi medici africani che andassero progressivamente a sostituire le “missioni straniere” in Africa, proposto dalla Lega Francese di Igiene Mondiale nel 1961 in collaborazione con la Federazione Mondiale per la Salute Mentale.

88 Cfr. “Note sur les recherches du Centre Hospitalier de Dakar-Fann” di Pierre. Gli altri interventi della sezione di “etnopsichiatria”, oltre che di Devereux, sono di Aubin “Médicine magique et arts sculpturaux de l’Afrique”, di Dubois “Les Communautés de travailleurs africains à Paris”, di Ly “A propos de l’adaptation des africaines en France” e di Raveau “Recherche sur les troubles mentaux et l’adaptation des Africains en France”.

relazione sull’“inchiesta sugli Africani di Parigi”,89 compiuta con Bastide in seno al

suo seminario e da cui probabilmente era partita l’idea dell’importante convegno. L’inchiesta si era svolta analizzando i “dossier dei malati mentali africani curati negli ospedali psichiatrici parigini dal 1945 al 1964”, raccolti “grazie alla gentilezza del Dott. Daumezon e del Prof. Deniker”.90

Devereux è chiamato a presiedere la sessione dedicata ai “Problemi di etnopsichiatria” e la sua conferenza, dal titolo “Une théorie ethnopsychiatrique de l’adaptation”, pronunciata a inaugurazione della seconda giornata del convegno, costituisce il suo primo ingresso pubblico nella scena culturale parigina. 91

Mettendo subito allo scoperto l’originalità del suo pensiero, il futuro “padre” dell’etnopsichiatria non si pronuncia sulla tematica delle “malattie mentali dell’uomo dell’Africa Nera”, come forse ci si aspettava da lui. Molto diverso dalle altre relazioni, incentrate principalmente sulla “Psichiatria africana”, il suo intervento è in sostanza una riflessione sulla “natura umana”. Devereux esordisce infatti chiedendosi “cosa costituisce l’essenza dell’umanità”, per lui domanda centrale attorno alla quale impostare la discussione. Una domanda indispensabile per “abbozzare a grandi linee […] la gamma degli errori” in cui si potrebbe scivolare e che potrebbero sfociare in veri e propri “crimini contro l’umanità e la dignità del nostro prossimo”.92 In un convegno il cui tema centrale è l’adattamento degli africani a Parigi, Devereux individua l’errore più grande nell’impostare la discussione proprio sul concetto di “adattamento”. Bizzarro senza dubbio, ma perfettamente coerente con la sua convinzione della necessaria rottura epistemologica dell’equivalenza tra salute psicologica e adattamento socio-culturale presa in considerazione precedentemente: in altre parole, la convinzione che non è necessariamente ‘malato’ chi non si adatta al suo ambiente e, viceversa, non è necessariamente ‘sano’ chi invece vi si adatta.93 Non sorprende, dunque, che il principale bersaglio polemico della conferenza del 1964 sia ancora, come in tutti i suoi scritti, il relativismo dei culturalisti di cui Devereux scalza la logica definendo sì una ‘norma’ di salute psicologica valida universalmente, ma individuandola nel concetto di “individualità” e “differenza”. Per lui, infatti, la salute

89 Si vedano gli annuari dell’EHESS, seminario di Psichiatrie Sociale di Bastide 1964/65.

90 Cfr. R. Bastide, F. Raveau, (a cura di), Table Ronde sur l’Adaptation des Africains en France, cit., p. 5 [trad. mia].

91 Pubblicato negli atti del convegno sopra citati.

92 G. Devereux, “Une théorie ethnopsychiatrique de l’adaptation”, R. Bastide, F. Raveau, op. cit., p. 6 [trad. mia].

psicologica consiste nella capacità dell’individuo di procedere, di fronte ai cambiamenti, per “ri-adattamenti creativi” 94 – molto diversa dalla capacità di adattarsi meccanicamente al proprio ambiente – aggiungendo, di volta in volta, tasselli alla propria identità, multidimensionale, unica e caratteristica, senza perdere il senso della sua continuità nello spazio e nel tempo. Proprio l’identità – annuncia Devereux in “Une théorie ethnopsychiatrique de l’adaptation” – costituirebbe “l’essenza stessa dell’umanità dell’uomo”. Il senso della propria identità è infatti inseparabile dal senso “della propria umanità” che comporta sempre “un legame con l’umanità altrui”per la possibilità di trovarenella multidimensionalità del proprio sé almeno un “segmento” dell’identitàmultidimensionale dell’altro. 95

Individuando invece, malgrado loro, una ‘norma’ nel concetto di adattamento (benché variabile da cultura a cultura sempre di ‘norma’ si tratta), i relativisti, da sempre acclamati come propugnatori del rispetto delle differenze, sono per Devereux i più ‘normativi’ e i più “ossessionati dal bisogno di insistere su una conformità dei comportamenti”.96 D’altronde solo le società più deboli e compromesse (che Devereux chiama “civiltà etniche”) imporrebbero all’individuo di adattarsi meccanicamente al proprio ambiente, spingendolo a riconoscersi esclusivamente nella sua “identità etnica” – una delle tante che possiede – per un maggiore controllo. “Catastrofico”, a livello psicologico, è per Devereux spingere l’individuo all’unidimensionalità del sé, operazione che, a livello sociologico, considera all’origine di tanti fenomeni di razzismo.97 La società “ideale” (e sana) sarebbe,

94 “L’unità di misura della salute mentale non è l’adattamento in sé, ma la capacità del soggetto di procedere a riadattamenti successivi senza perdere il senso della propria continuità nel tempo”, scriveva nell’articolo più volte citato del 1956 “Normal and Abnormal”, poi raccolto negli Essais d’ethnopsychiatrie générale (1970), cit.; tr. it. “Normale e anormale”, in Saggi di etnopsichiatria generale, cit., p. 83.

95 G. Devereux, “Une théorie ethnopsychiatrique de l’adaptation”, cit., p. 10 [trad. mia]. Grazie all’attualizzazione questa aretè l’individuo realizzerebbe pienamente le proprie potenzialità di essere umano, prima tra tutte una certa plasticità nell’utilizzo dei tratti culturali come strumenti per strutturare il proprio sé e rappresentarsi il mondo, tramite un processo, costante e mai compiuto nel continuo dialogo con l’esterno, di appropriazione, metabolizzazione, introiezione e identificazione.

96 Ivi, p. 3.

97 Per proteggere la propria ‘unica’ identità, in questo caso l’identità etnica, l’individuo avrebbe bisogno di screditare tutte le altre, cosa che non avverrebbe se riconoscesse nella multidimensionalità del proprio sé frammenti delle identità multidimensionali dell’altro. “Così Mac Crone sottolinea giustamente che, nel caso dei pregiudizi razziali, noi proiettiamo sul gruppo esterno i nostri desideri rimossi e rifiutati e caratterizziamo perciò questo gruppo in funzione delle pulsioni che noi stessi rifiutiamo”, scriveva Devereux nell’articolo del 1943 “Antagonistic Acculturation”, steso con l’antropologo Edwin Loeb e atto ad analizzare, in modo più approfondito e sul duplice livello psicologico e socio-culturale, le dinamiche in gioco nell’incontro tra culture diverse. Pubblicato sull’American Sociological Review, vol. VIII, n. 2, pp. 133-147; e poi raccolto, tradotto in francese, in Ethnopsychanalyse complémentariste, (1972), cit; tr. it. “Acculturazione antagonistica”, in Saggi di

invece, quella che promuove una concezione multidimensionale dell’identità considerando il massimo di “differenziazione” e “individualizzazione” dell’individuo, così come l’incontro tra membri di culture diverse, un’occasione per arricchirsi anziché una minaccia.98 Ecco allora che nella sua conferenza Devereux acclamava: la Francia, “paese di Voltaire e del conte di Rivarol” e “approssimazione più riuscita della Civiltà Umana per eccellenza”, avrebbe dovuto per questo essere più incline ad accogliere le differenze e al tempo stesso “meno arrogante, meno etnocentrica e meno inospitale delle civiltà che si proclamano etniche e le migliori del mondo”. Rappresentare la “Civiltà Umana per eccellenza”, infatti, “comporterebbe inevitabilmente il corollario che ogni essere umano può appartenere a questa civiltà” e “la tesi che ogni essere umano può realizzarsi – in quanto uomo e in quanto individuo – all’interno di questa civiltà”.99 Ma vogliamo a tutti i costi parlare comunque di adattamento? Bene, allora iniziamo a non considerarlo “un procedimento in tutto e per tutto unilaterale”. Con parole che richiamano quelle basagliane Devereux così sosteneva:

Esigiamo da lui [dall’africano in Francia] il massimo della flessibilità che non crediamo di essere tenuti a manifestare noi stessi. I nostri modi di adattarci alla presenza dell’africano sono in sostanza tutti dello stesso genere. Formano una sola gamma che è, psicologicamente, sociologicamente e logicamente, perfettamente uniforme, dal momento che è composta esclusivamente da modi per imporre all’africano un adattamento di nostra scelta. A una estremità di questa gamma troviamo, ad esempio, le squadre speciali della polizia e, all’altra, organizzazioni d’accoglienza realmente filantropiche. Per quanto diverse possano sembrare questi due generi di organizzazioni il loro scopo è lo stesso: imporre un adattamento di nostra scelta all’africano in Francia. […] Quello che non esiste, né in Francia né altrove, è un’organizzazione che cerchi invece di adattare il francese all’africano in Francia.100

Se ci domandassimo se “ciò che insegniamo all’Africano è ciò di cui ha bisogno o se è semplicemente ciò che ci conviene insegnargli per non essere disturbati nelle nostre piccole abitudini”, capiremmo che “l’adattamento non è una questione d’inventario

etnopsicoanalisi complementarista, cit., p. 259. Devereux avrebbe sempre sostenuto che ostentazioni reificate e caricaturali di tratti culturali emergono maggiormente in momenti di crisi individuali e socialie sono ancora più visibili nel momento dell’incontro tra gruppi culturali diversi, nonché nei casi in cui l’individuo è spogliato di tutte le identità che possiede, tranne quella etnica.

98 “Basterà precisare che il semplice contatto tra due gruppi culturalmente diversi costituisce sempre una sfida per entrambi”, sosteneva Devereux già nel 1943, nell’articolo sopra citato, p. 260.

99 G. Devereux, “Une théorie ethnopsychiatrique de l’adaptation”, cit., p. 7 [trad. mia]. 100 Ivi, pp. 6-7 [trad. mia].

culturale, che comporta una serie di conformità discrete tra tratti culturali e tratti psicologici” come l’insegnamento non è una trasmissione di “savoir faire” o “di tecniche”. 101 “Inculcare” tratti culturali distaccati dalla loro “matrice” è “profondamente distruttivo” quanto lo è insegnare a un essere umano le tecniche “per suonare il piano, senza fare di lui nello stesso tempo un vero musicista”, in sostanza senza mirare a realizzare in pieno le sue capacità. Il tratto culturale, scrive Devereux altrove,102 “si incista” non riuscendo ad articolarsi con il resto della personalità e

rimanendo “come un corpo estraneo”. Nell’idea di Devereux di una co-emersione tra psichismo e cultura – dove questa è “esperienza interiore”, “una maniera di vivere il vissuto”103 –, snaturare la cultura del suo ruolo autentico, imponendone un utilizzo convenzionale, una fissazione e reificazione, comprometterebbe l’umanità dell’individuo in quanto “creatore, creatura, agente e mediatore di cultura”. Solo così l’essere umano “soddisfa uno dei suoi bisogni fondamentali, che non potrebbe essere frustrato senza gravi conseguenze per lo psichismo umano e per lo status umano dell’essere umano”.104

In altre parole per quanto riguardava l’africano in Francia, si trattava per Devereux di aiutarlo a non perdere il senso di continuità della propria identità nello spazio e nel tempo, a individualizzare nuovi tratti culturali riadattando creativamente quelli vecchi alla nuova realtà e, come in ogni psicoterapia, a “disapprendere qualche cosa per apprendere qualcos’altro”. Tutto ciò non sarebbe invece avvenuto nel caso di una brutale acculturazione del tutto incompatibile con i più semplici “principi di igiene mentale”. Ma, soprattutto, si trattava di mettere in atto una serie di “ri-adattamenti” reciproci. 105

Così concludeva:

101 Ivi, p. 8 [trad. mia]. Era infatti meglio per Devereux parlare, anziché di adattamento, di “insegnamento”: l’“attività più caratteristicamente umana dell’uomo”. La capacità di insegnare (e non quella di adattarsi) costituirebbe infatti la differenza qualitativa dell’uomo rispetto alle altre “specie zoologiche”. Non era dunque dell’altro la responsabilità di un fallimentare adattamento, ma di chi non era capace di insegnare, venendo meno alla sua essenza di essere umano.

102 Sempre nell’articolo del 1943. Cfr. Saggi di etnopsicoanalisi complementarista, cit., p. 257. 103 G. Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale, cit., p. 351.

104 Ivi, p. 326. I tratti culturali sono per Devereux strumenti – e non fini che ne determinerebbero un “uso improprio […] nel senso in cui il drogato fa uso di sostante farmaceutiche” (Saggi di etnopsicoanalisi complementarista, cit., p. 274) – sostituibili in caso di mancato ‘funzionamento’. 105 Come dicevamo, questo processo di “ri-adattamenti creativi” e reciproci è, però, per Devereux possibile solo in individui dalle identità multidimensionali: solo tra esseri umani che nella loro multidimensionalità sono in grado di vedere qualcosa di sé nell’altro senza, al contrario, proiettare “desideri rimossi e rifiutati” sull’altro, che verrebbe altrimenti e di conseguenza caratterizzato “in funzione delle pulsioni” rifiutate.

Aggiungerò quindi alla lista dei tratti che costituiscono l’essenza dell’umanità dell’uomo la sua capacità di “déontogiser” periodicamente tutto ciò che è fortuito e di “réontogiser” tutto ciò che è essenziale. È questo processo che forma la base stessa di ogni apprendimento sensato, che è molto di più e tutt’altra cosa di un semplice condizionamento di comportamenti adattativi privati di ogni senso reale. Ogni psicoterapia, ogni insegnamento che non procede in questo modo è, in sostanza, non un aiuto […] al servizio dell’individualità, bensì un’autentica distruzione dell’individualità umana finalizzata a un adattamento meccanico, tanto nel maestro quanto nell’allievo. Bisogna capire che la questione dell’africano concerne in primo luogo la nostra umanità, che è inseparabile da quella dei nostri simili. Dal momento che l’adattamento che esigiamo da lui intacca e diminuisce il senso della sua umanità e individualità, attraverso di lui, noi distruggiamo noi stessi.106

Solo educando al sentimento di riconoscimento e rispetto della reciproca differenza – differenti proprio perché individui prima che membri di culture diverse – solo educando a un sentimento di comune appartenenza alla “Civiltà Umana, di cui tutte le civiltà non sono che varianti e approssimazioni”, si sarebbe potuta per Devereux