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Il principio di complementarità negli scritti di Bohr Dalla fisica agli altri campi del sapere

II. DEVEREUX DIVENTA DEVEREU

4. IL “MOMENTO DI VERITÀ” L’INCONTRO CON NIELS BOHR

4.2. Il principio di complementarità negli scritti di Bohr Dalla fisica agli altri campi del sapere

1927: la conferenza a Como

Il principio di complementarità fu enunciato per la prima volta pubblicamente da Bohr in occasione dell’International Congress of Physicists del settembre del 1927, svoltosi a Como per celebrare il centenario della morte di Alessandro Volta.

63 Cfr. P. Jordan, “Quantenphysikalische Bemerkungen zur Biologie und Psychologie”, Erkenntnis, n. 4, 1934, pp. 215-252. Così racconta Devereux nei suoi appunti autobiografici.

64 L’articolo “Causality and Complementary” fu poi pubblicato da Bohr nel vol. IV, n. 3, della rivista Philosophy of Science, 1937, pp. 289-298.

Presentato come “una sorta di punto di vista generale” in grado di fornire “un quadro d’insieme dell’intero sviluppo della teoria [quantistica] fin dal suo inizio”, questo principio aveva lo scopo di “armonizzare le vedute apparentemente conflittuali adottate da diverse parti”.66

La conferenza era il risultato di intensi mesi di lavoro che, a partire dal soggiorno di Schrödinger a Copenaghen nell’autunno del 1926, avevano stimolato Bohr e il giovane Heinsenberg a risolvere il paradosso della presenza di due teorie (quella della meccanica ondulatoria e quella della meccanica delle matrici) che giungevano agli stessi risultati matematici pur partendo da presupposti addirittura incompatibili (la natura continua e discontinua della materia).67

Al congresso Bohr ripercorreva, nell’intreccio tra dati sperimentali e schemi teorici, la storia del “dilemma”, nato a partire dall’ipotesi teorica di Max Planck del quanto d’azione (1900) che, insieme alla conferma sperimentale dell’ipotesi dell’effetto fotoelettrico di Einstein (1905), aveva messo in dubbio la validità dell’interpretazione dell’elettromagnetismo classico sulla natura ondulatoria della luce.Prendendo sempre come punto di partenza l’ipotesi della quantizzazione dell’energia, si era presentato (anche se in modo inverso) un problema analogo per la descrizione delle proprietà fisiche della materia quando nel 1926 Schrödinger aveva confermato sperimentalmente l’ipotesi di De Broglie (1924) sugli aspetti ondulatori della materia. Questi risultati entravano in netto contrasto con la spiegazione matematica dei salti quantici del modello atomico di Bohr (1913),68 che sembrava invece dare ragione a

una “vera teoria del discontinuo”. Questo bilancio sui risultati teorici conseguiti nell’ambito della fisica dei quanti, più che porre l’attenzione su problemi matematici e sperimentali, aveva per Bohr l’intento metodologico di stabilire quella “connessione logica” che, anche per Einstein, andava trovata tra due teorie entrambe valide e necessarie.69

66 N. Bohr, “The quantum postulate and the recent development of atomic theory”, Nature, 1928, n. 121, pp. 580-590, qui p. 580 [trad. mia].

67 Si dava lì il via a quella che Reichenbach definì la seconda fase della meccanica quantistica, la cui chiave di volta è appunto il principio di complementarità.

68 Fornita da M. Born, P. Jordan e W. Heisenberg nel 1925 nell’ambito della meccanica delle matrici. 69 Cfr. R. Maiocchi, “La fisica atomica”, in La storia della scienza in Occidente: dalle origini alla bomba atomica, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp. 475-549; E. Bellone, “La meccanica dei quanti non relativistica”, in P. Rossi (a cura di), Storia della scienza moderna e contemporanea. Il secolo Ventesimo, Torino, UTET, 1988, pp. 577-608; S. Petruccioli, Atomi metafore paradossi. Niels Bohr e la costruzione di una nuova fisica, Roma-Napoli, Theoria, 1988; J. Faye, Niels Bohr: his heritage and legacy. An anti-realist view of quantum mechanics, Boston, Kluwer, 1991.

Secondo Bohr il paradosso sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce e della materia sorgeva principalmente perché la questione era epistemologicamente mal posta. Infatti, in seguito alla costatazione dell’impossibilità di prescindere, per i fenomeni microfisici, dalla “peculiare incertezza reciproca che interessa tutte le misurazioni delle quantità atomiche”,70 era necessario rinunciare a conoscere la ‘vera’ natura degli eventi microscopici riflettendo piuttosto sulle condizioni della loro manifestazione e definizione. L’“incertezza” dipendeva dalla ‘deformazione’ dei fenomeni osservati provocata dalla loro interazione con gli strumenti di misurazione, nella fisica microscopica inevitabile e, al tempo stesso, necessaria perché condizione dell’osservabilità dei fenomeni. A differenza della fisica classica l’‘errore’ nelle misurazioni non poteva dunque – e non doveva – essere eliminato, in quanto costitutivo dei dati ottenuti e unica fonte di informazioni ‘osservabili’ sugli elettroni. Il principio di complementarità era così presentato da Bohr come una “generalizzazione metodologica” del principio di indeterminazione di Heisenberg, anch’esso frutto di quei mesi di lavoro: come è impossibile misurare con la stessa precisione contemporaneamente la posizione nello spazio e nel tempo di una particella atomica e il suo momentum71 – a causa dell’inevitabile interazione degli strumenti di misurazione con l’oggetto da misurare che implica una scelta su quale variabile osservare con maggiore precisione – così è impossibile osservare simultaneamente la dualità delle proprietà fisiche della luce e della materia poiché sono rese osservabili solo attraverso esperimenti mutualmente escludentisi. Talvolta è il concetto di onda, talvolta è il concetto di corpuscolo a imporsi come quello maggiormente adeguato in base al setting e alla finalità dell’esperimento.

Bohr chiamava così complementarità quella “relazione” che intercorre tra due modalità di descrizione, entrambe valide e necessarie per la comprensione delle proprietà di un fenomeno, ma che sarebbero contraddittorie se applicate contemporaneamente. Mentre nella fisica classica il “limite” che stabiliva quanto accuratamente il momento e la posizione potevano essere misurati insieme in uno stesso esperimento (questo il senso del principio di indeterminazione) era pari a zero, consentendo di identificare con precisione gli oggetti nello spazio e nel tempo (e quindi di individuarne il nesso causale), nella fisica dei processi microscopici

70 N. Bohr, “The quantum postulate”, cit., p. 581 [trad. mia].

71 La quantità di moto, ossia la forza necessaria per fermare un oggetto in base alla sua massa e alla sua velocità.

l’interazione che entrava in gioco in ognuna delle due misurazioni aveva reso impossibile riprodurre questa “situazione ideale” di osservazione e descrizione. Una certa precisione nella misurazione delle due grandezze era possibile solo all’interno di due diversi setting sperimentali, e solo su scala probabilistica.72

Per Bohr le nozioni della fisica classica non avevano per questo perso la loro validità, poiché basilari per interpretare gli esperimenti e per la comunicazione dei risultati raggiunti. Si doveva però cercare un modello concettuale per applicarle ai fenomeni quantistici evitandone contraddizioni. “In questi ambiti” – avrebbe annunciato il fisico in “Causality and Complementarity” – “le contraddizioni logiche possono essere superate solo attraverso la rinuncia alle consuete esigenze di visualizzazione”:73 nelle situazioni in cui non possiamo parlare di comportamento autonomo dei fenomeni, è necessario compiere quello sforzo concettuale che passa dall’immagine classica della causalità – “assurta a ideale di spiegazione scientifica in ogni dominio della conoscenza”74 poiché più corrispondente alla nostra esperienza percettiva della realtà nello spazio e nel tempo – a quella “più generale” della complementarità, tenendo però sempre presente che “abbiamo a che fare in entrambi i casi con idealizzazioni”.75 Più che una teoria quindi la complementarità era uno “statement of epistemology” legato ai problemi concettuali inerenti alle possibilità di osservazione e di descrizione quando ci si ritrova a dovere scegliere “fra due punti di vista che, anche se in conflitto, hanno entrambi la loro giustificazione”.76

Il fisico concludeva la conferenza sostenendo che questa situazione “inevitabile” non si presentava solo in ambito atomico, ma “già in una analisi dei concetti più elementari utilizzati per interpretare l’esperienza”. Nelle parole conclusive del 1927 erano così presenti in nuce i presupposti delle riflessioni che Bohr svilupperà nel

72 Cfr. S. Petruccioli, Atomi metafore paradossi, cit.

73N. Bohr, “Causality and Complementary”, cit., p. 292 [trad. mia].

74 N. Bohr, “Unity of Knowledge” (1954), in Atomic Physics and Human Knowledge, New York, John Wiley & Sons, 1958; tr. it. “Unità della conoscenza”, in P. Gulmanelli (a cura di), I quanti e la vita, Torino, Boringhieri, 1965, p. 60.

75 N. Bohr, “The Atomic Theory and the Fundamental Principles Underlying the Description of Nature”, in Atomic Theory and the Description of Nature, 1934; tr. it. “La teoria atomica e i principi fondamentali della descrizione della natura”, in P. Gulmanelli (a cura di), I quanti e la vita, cit., p. 23. 76 L. Rosenfeld, “Niels Bohr in the thirties: consolidation and extension of the conception of complementarity”, in R. Stefan (a cura di), Niels Bohr: his life and work as seen by his friends and colleagues, New York, Interscience Publishers, 1963, pp. 114-135, qui p. 120 [trad. mia].

decennio successivo, caratterizzate dal tentativo di consolidare ed estendere il principio di complementarità dalla fisica ad altri ambiti del sapere77.

Mentre nella prima raccolta di articoli destinati a far conoscere a un pubblico più vasto i risultati cui era giunta la meccanica dei quanti, Atomic theory and the

description of nature,78 Bohr, per fare luce sui problemi poco familiari della fisica, traeva dalla biologia e dalla psicologia esempi in cui si era di fronte al problema dell’osservazione non simultanea di aspetti dell’esperienza mutualmente escludentisi, negli scritti successivi sarebbe andato oltre. Il principio di complementarità era infatti presentato come una “chiave epistemologica” utile per riconsiderare questioni spinose di ambiti ‘più umanistici’, come le relazioni tra la “vita” e la sua analisi fisico-chimica in biologia, tra emozioni e pensieri in psicologia,tra libero arbitrio e causalità in etica.

Causality and Complementarity

La conferenza Causality and Complementarity – che Devereux ebbe modo di ascoltare in quel marzo del 1937 all’Università di Berkeley79 – è il frutto più compiuto delle riflessioni sul rapporto tra biologia, psicologia e fisica quantistica, che il fisico sviluppò in modo sistematico nel decennio precedente, invitato a intervenire a diversi convegni per spiegare le conseguenze possibili della teoria quantistica in altri ambiti della conoscenza.

Bohr apriva la sua conferenza pronunciandosi sul problema epistemologico principale della biologia del tempo, cioè come spiegare la “vita” attraverso la “non-vita”.80 Si era occupato per la prima volta in modo esplicito dell’argomento nella conferenza Light

and life (1932)81 e in Causality and Complementarity riprendeva il messaggio

principale di quel precedente intervento. Questo il messaggio: nonostante l’apparente avanzamento che potrebbe fare la ricerca biologica alla luce degli sviluppi della fisica

77 Ibidem e L. Rosenfeld, “Niels Bohr’s contribution to epistemology”, Physics Today, 1963, vol. 16, n. 10, pp. 47-54.

78 Pubblicata inizialmente in danese nel 1929. La traduzione inglese è del 1934.

79 Come detto Bohr la tenne, per la prima volta, in occasione Second International Congress for the Unity of Science, organizzato dai positivisti logici nel giugno del 1936.

80 Su Bohr e la biologia si veda l’introduzione di D. Favrholdt a “Complementarity in biology and related fields”, in N. Bohr, Collected works. Complementarity beyond physics (1928-1962), Amsterdam, Elsevier, 1999, vol. X, parte I, pp. 3-14 e J. Faye, Niels Bohr: his heritage and legacy, cit. 81 Tenuta al Second International Light Congress, svoltosi a Copenaghen nell’agosto del 1932 e pubblicata in Nature, 1933, n. 131.

quantistica, grazie al chiarimento dei processi atomici che sono alla base delle principali funzioni vitali, non si può trascurare che le condizioni della ricerca biologica e fisica “non sono confrontabili direttamente, poiché la necessità di tenere in vita l’oggetto impone nel primo caso restrizioni che non hanno controparte nel secondo”.82 Se infatti sul piano teorico “dobbiamo scendere al livello dei fenomeni atomici” quando vogliamo “colmare il divario fra il vivente e l’inanimato”,83 sul piano pratico ci si trova di fronte all’impossibilità di penetrare sperimentalmente (su scala atomica) nello stato dell’organismo vivente. Infatti, come hanno insegnato gli esperimenti con le particelle microfisiche, alcune informazioni sono raggiungibili solo attraverso un’interazione con l’apparato sperimentale che andrebbe a intaccare quella stabilità atomica indispensabile al mantenimento della vita stessa. Di qui la necessità della complementarità tra l’analisi delle componenti atomiche della vita e il fenomeno indivisibile della vita stessa. Per Bohr la constatazione del fatto che sperimentalmente la vita fosse un dato irriducibile dimostrava l’impossibilitàdi una completa riduzione della biologia alla fisica e alla chimica.

In Causality and complementarity chiariva l’intento epistemologico del suo discorso, rispondendo alle critiche di molti biologi che lo avevano accusato di vitalismo. Sostenere l’incompatibilità tra l’esaustività nell’osservazione permessa dai nuovi dispositivi atomici e il mantenimento in vita degli organismi viventi – e perciò la complementarità tra le leggi della fisica e quelle biologiche – non aveva nulla a che vedere con “speculazioni puramente metafisiche”. Tantomeno queste considerazioni proponevano “un’arbitraria rinuncia alla possibilità di continuare la ricerca”. Il loro fine era piuttosto quello di “evitare futili controversie grazie a un’analisi dei presupposti e della pertinenza delle strutture concettuali coinvolte”.84

In sostanza, l’utilizzo dei nuovi concetti della fisica quantistica in biologia non andava letto come un tentativo di risolvere la querelle tra vitalismo e meccanicismo, bensì come possibile strumento epistemologico grazie al quale gettare nuova luce sulle condizioni di osservazione e di descrizione dei fenomeni biologici.85 Non si trattava dunque di scegliere tra le due posizioni bensì di prendere coscienza che qualsiasi passaggio da dati sperimentali tratti dalla “non vita” a un loro utilizzo per spiegare la

82 N. Bohr, “La teoria atomica e i principi fondamentali della descrizione della natura”, cit., p. 32. 83 N. Bohr, “Causality and Complementarity”, cit., p. 295 [trad. mia].

84 Ivi p. 296.

85 Scriveva infatti il fisico: “Il punto di vista della complementarità rigetta qualsiasi compromesso con ogni vitalismo anti-razionalistico e, al tempo stesso, dovrebbe essere in grado di svelare alcuni pregiudizi del cosiddetto meccanicismo”, Ibidem.

“vita” era frutto di un’ipotesi teorica e non di certo risultato diretto di esperimenti, poiché questo passaggio non era e non sarebbe mai stato dimostrato sperimentalmente.

In questo senso il complementarismo era per Bohr una ‘terza via’ tra vitalismo e meccanicismo: due posizioni epistemologiche costruite su dati ottenuti all’interno di due strutture concettuali incompatibili. Sostenere la complementarità tra animato e inanimato – connaturata nella relazione che intercorre tra le proprietà di stabilità di un atomo e il comportamento dinamico delle particelle costituenti l’atomo stesso – non imponeva una “limitazione nell’applicare alla biologia i metodi di descrizione e di investigazione fisico-chimici”. 86 Avrebbe piuttosto messo in luce lo scarto epistemologico esistente tra due modi di spiegazione incommensurabili (diremmo oggi tra descrizione causale e teleologica),87 sebbene entrambi validi nel loro sistema di riferimento e necessari per comprendere il più possibile il funzionamento della natura vivente.88

Il fisico si pronunciava poi sulla psicologia sostenendo che “il punto di vista che abbiamo qui discusso riguardo alle domande fondamentali della biologia sembrerebbe molto adatto per guardare il vecchio problema del parallelismo psico-fisico sotto una nuova luce” con la speranza che “l’attitudine epistemologica che ha portato alla chiarificazione dei ben più semplici problemi della fisica possa dimostrarsi utile anche nella discussione sulle questioni psicologiche”.89 Bohr, infatti, individuava il

medesimo scarto epistemologico tra fisiologia e psicologia, il cui rapporto era letto, anche in questo caso, alla luce della complementarità che intercorre, diremmo oggi, tra attivazione fisico-chimica di diverse aree del cervello e del sistema nervoso e

86 Applicazione che Bohr continuava a considerare “la nostra inesauribile fonte di informazioni riguardo ai fenomeni biologici”, Ivi, p. 297.

87 Cfr. l’introduzione di D. Favrholdt a “Complementarity in biology and related fields”, cit.

88 Gli interessi di Bohr per la biologia saranno una costante della sua vita e lo porteranno a tenersi continuamente aggiornato sulle nuove scoperte, soprattutto nel campo della biologia molecolare dove, dopo la scoperta della struttura del DNA (1953), uno dei grandi enigmi della vita sembrava, contrariamente a quanto previsto dal fisico, risolto. In occasione dell’inaugurazione dell’Institute for Genetics dell’Università di Cologna, alla quale Bohr era stato invitato nel giugno del 1962 (dunque a pochi mesi dalla morte), per tenere la conferenza principale, il fisico si felicitava dei risultati raggiunti, rivedeva alcune delle posizioni assunte in quel lontano articolo scritto trent’anni prima (Light and life), ma non abbandonava l’idea che gli organismi viventi e la “coscienza” degli individui presentassero caratteristiche di complessità tali da richiedere necessariamente dei modi complementari di descrizione che avrebbero reso, sempre e comunque, concettualmente impossibile una totale riduzione della biologia e della psicologia alla fisica e alla chimica, per quello scarto epistemologico sempre presente tra i diversi sistemi di riferimento. Cfr. Light and life revised, pubblicato postumo nel volume X, precedentemente citato, dei Collected works.

l’attività mentale (che non ha in se stessa una natura fisico-chimica), quindi tra due campi epistemologicamente e oggettivamente non omogenei.

L’alterazione dei contenuti dell’attività mentale indotta da ogni osservazione sperimentale diventava poi, per Bohr, lampante pensando, per esempio, alle “difficoltà di analisi e di sintesi di fenomeni psichici legati all’introspezione”,90 quando osservando i nostri pensieri o sentimenti non riusciamo a distinguere tra soggetto e oggetto, poiché il contenuto di questi pensieri e sentimenti è il soggetto stesso che ne fa parte. Di più: più cerchiamo di analizzarli dettagliatamente più ne esperiamo una loro progressiva evanescenza.91

Nell’auto-osservazione Bohr intravvedeva così un possibile parallelismo tra psicologia e fisica quantistica:come il fenomeno quantistico non può essere suddiviso analiticamente senza cambiare l’intero corso degli eventi – proprio perché “un’analisi ben definita richiede una modificazione dell’apparato incompatibile col verificarsi del fenomeno stesso”92 – nello stesso modo è impossibile analizzare una parte del flusso di coscienza senza far sparire il flusso stesso nel momento in cui il soggetto diventa oggetto di conoscenza. Come è impossibile mostrare nel medesimo esperimento gli aspetti corpuscolari e ondulatori della luce, così è altrettanto impossibile lasciare fluire i pensieri e renderli oggetto di conoscenza. Le due situazioni sono complementari in quanto mutualmente escludentisi.

Parallelismi impropri? Le “radici” del principio di complementarità

Il richiamo allo Stream of thought di James non è casuale. In un’intervista rilasciata a Thomas Kuhn nel 1962, Bohr dichiara di aver letto i Principles of psychology (1890) prima del 1913, anno della teorizzazione del suo modello atomico, e di esserne rimasto profondamente colpito. Questa dichiarazione fu per molti la chiave per trovare la fonte di quella “parola artificiale come ‘complementarità’ che non

90 Ibidem.

91 Bohr amava raccontare la storia contenuta in un “piccolo libro” dello scrittore danese Poul Martin Møller, letto durante l’infanzia. Qui il protagonista si trova alle prese con il problema dell’introspezione, incapace di riflettere sulle sue sensazioni senza cadere in una regressione infinita di molteplici “io” che si soffermavano a pensare ogni volta su un elemento diverso, non riuscendo mai a coglierne la totalità. Cfr. L. Rosenfeld, “Niels Bohr in the thirties”, cit. e D. Fayrholdt, “General introduction”, in N. Bohr, Collected works, vol. X, cit.

appartiene ai nostri concetti ordinari” e che “serve solo a ricordarci in breve la situazione epistemologica […] incontrata, che almeno in fisica ha un carattere completamente nuovo”.93 In un passo dei suoi Principles James, infatti, utilizza proprio il termine complementarità per descrivere alcune situazioni di “doppia- coscienza” in casi clinici di anestesia isterica tratti dalle opere degli psicologi A. Binet e P. Janet.94

Secondo la testimonianza di amici e colleghi nonché di alcuni passi autobiografici,95

Bohr si sarebbe interessato sin dalla gioventù ai problemi epistemologici inerenti allo studio dei fenomeni umani ed è in contesti più umanistici che avrebbe concepito per la prima volta il prototipo di quel principio che rivoluzionò la fisica. Così nell’ambito delle attività del circolo culturale organizzato dal padre, Christian Bohr, professore di fisiologia all’Università di Copenaghen, dove era all’ordine del giorno il dibattito tra vitalismo e meccanicismo e dove il giovane Bohr ebbe modo di discutere di problemi psicologici con il filosofo danese Harald Høffding, anch’egli interessato alla questione dell’introspezione e grande ammiratore dell’opera di James.96

In quegli anni Bohr discuteva di psicologia anche con il cugino di secondo grado Edgar Rubin (suo compagno di università al corso di Høffding)97 che avrebbe poi aiutato in quegli esperimenti sulla percezione visiva che lo resero celebre nell’ambito della Gestaltpsychologie. La famosa figura del vaso visibile anche come due volti di profilo, ideata da Rubin nella sua tesi di dottorato (1915) come esempio del principio percettivo “figura-sfondo” che obbliga l’occhio a focalizzare un elemento alla volta, fu una delle più frequenti citazioni con cui Bohr “iniziava” i suoi studenti al principio di complementarità per indurli a compiere lo sforzo concettuale di accettare la presenza di più livelli esplicativi, tutti indispensabili per spiegare un fenomeno ‘completamente’ ma che si escludono reciprocamente.98

Le questioni riguardanti i fenomeni umani ricorreranno costantemente nella mente di Bohr fino alla sua morte e se le “radici” del principio che rivoluzionerà la fisica vanno