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INFLUENZA Limitato Elevato

I.2.3 Equilibri Dinamic

L’inserimento del fieldworker sul campo avviene attraverso un servizio di mediazione che spesso ricade su un singolo individuo, o su un gruppo corporato, individuato come stakeholder capace di muoversi sul campo, di fare delle riflessioni e di suggerire al ricercatore di incontrare persone utili per la ricerca. Avendo lavorato su due aree molto distanti tra loro, l’inserimento e l’impregnazione sono state due e hanno seguito tempi di familiarizzazione con il campo e con chi lo abita e modalità di individuazione degli stakeholder e di implementazione di strategie d’azione per la conquista della fiducia degli interlocutori, molto diverse tra loro. Alla luce della eccessiva scarsezza di fonti scritte relative al quartiere di Mafalala e data la necessità di dovermi inserire oltre che nei contesti analizzati, anche in quelli intellettuali (che ovviamente sono quasi tutti concentrati nella capitale), ho deciso di trascorrere più tempo a Maputo, in quanto centro della vita intellettuale. Allo stesso tempo però ho provato ad effettuare una sorta di osservazione a lunga distanza dell’isola, ricercando nella capitale, o meglio a Mafalala, degli spunti riflessivi. Indubbiamente il primo impatto con il Mozambico è stato quello con la capitale e con il quartiere e questo ha fortemente influenzato le relazioni successive, quindi la scelta degli informatori e le modalità di rapportarmi a loro.

Su un vecchio quaderno di appunti di un corso seguito durante gli studi magistrali, segnai quello che dovrebbe essere l’iter da seguire sul campo il quale una volta centrato il focus della ricerca prende contatto con le istituzioni sul territorio ed effettua le cosiddette ‘interviste formali’. L’utilizzo dei canali istituzionali funge da ariete da sfondamento sul territorio su cui si va ad indagare ed in questo caso si è dimostrata una assolutamente valida. Se mi fossi presentata sul campo come colei che voleva indagare sulla realtà locale, avrei fatto poca strada perché nessuno mi avrebbe aperto la

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porta e fatto entrare parlandomi della sua vita o altro. La cosa che è risultata evidente sin da subito è quanto sia necessaria la formalità in Mozambico, almeno in un primo momento. Per questo prima di aggirare sul territorio liberamente, ho ricercato un ente che potesse garantire per me e redigere delle credenziali da presentare negli istituti dove ho condotto parte della ricerca, ad esempio biblioteche, enti di ricerca, ministeri o di presentare nel caso qualche membro delle forze dell’ordine mi chiedesse in qualità di cosa stessi registrando le conversazioni, previa richiesta all’intervistato o scattando delle foto. Il lavoro di ricerca sul campo ha avuto una durata totale di dodici mesi, diviso in tre missioni. La prima (settembre-dicembre 2016), si è realizzata grazie alla lettera di accoglienza da parte del Magnifico Rettore Lourenço de Rosário, della Universidade A Politécnica di Maputo e si è svolta esclusivamente nella città di Maputo, principalmente nel bairro di Mafalala. La seconda ha avuto luogo tra giugno e novembre 2017, grazie all’accordo con il Dipartimento di Arqueologia e Antropologia della Universidade Eduardo Mondlane di Maputo. Questa missione si è svolta in tre momenti, il primo a Maputo, il secondo ad Ilha de Moçambique ed il terzo nuovamente a Maputo. La terza ed ultima missione è avvenuta tra giugno e settembre 2018, sempre grazie al precedente accordo stipulato con la UEM e si è svolta nuovamente a Maputo. Ciò non sarebbe bastato, se non avessi lavorato in collaborazione con altri enti: addentrarsi nella vita di un quartiere sensibile come quello di Mafalala, considerato tra i più pericolosi della città, non poteva avvenire secondo un approccio esclusivamente esplorativo, avevo bisogno di una mediazione. L’associazione IVERCA può

essere considerato l’iniziale medium interpretativo, posto tra me e Mafalala, poiché negli anni è stata capace di conquistare con il suo operato un posto di rilevanza tale da renderla la referenza più autorevole e influente del quartiere. L’esperienza di campo nella città di Maputo è venuta prima di quella a Ilha de Moçambique. Per quanto avessi ristretto il campo di osservazione ad un quartiere, era necessario comprendere le dinamiche di funzionamento dell’intera città e gli attori attivi sulla scena analizzata. Non sapendo a chi dovermi affidare ho pensato che lavorando con i più ‘forti’ mi avrebbe facilitato ma è ovvio che una tale scelta ha implicato delle ripercussioni, una su tutte quella di essere associata a quella clique. Sull’isola invece ho assunto un posizionamento differente. Data l’area molto più ristretta, pensavo che non fosse necessario fare riferimento ad un ente in particolare che potesse orientarmi sul campo ma di trarre le informazioni di volta in volta da ognuno e di avvalermi dell’aiuto di differenti informatori anziché uno. Questo mi ha aiutato a farmi conoscere da più persone in un tempo minore e di confrontarmi con tutti nel tentativo di districare l’enorme matassa di conflitti densi e intricati dell’isola, in cui le questioni di potere e quelle politiche, si intrecciano ai problemi di natura familiare o alle discordie provenienti dall’ambiente religioso. Sicuramente una tale metodologia è più indicata nei primi periodi, perché poi come naturale che sia, ci si fa un’opinione e si prova ad interagire maggiormente con chi si considera più affine alle proprie idee e a chi rispetta il lavoro che si sta conducendo. Il tornare sul campo a distanza di mesi serve

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proprio a dare la prova a chi sta sul posto di poter contare sul ricercatore, in quanto avvertito come presente e preoccupato realmente ai problemi del territorio, conquistando così maggiore fiducia da parte della comunità. Ogni ritorno inoltre, è fatto con una maggiore consapevolezza e capacità di districarsi all’interno delle reti sociali, tale da affinare sempre più l’ascolto su interlocutori sempre più mirati.

[...] qualunque scelta di campo richiede sempre la necessità di spazi di decantazione e, se è possibile, di controlli a intervalli di tempo, con distanziamenti ciclici dai soggetti indagati, per verificarne dati e impressioni che troppo spesso nei periodi di etnografia intensiva sono condizionati dalla prossimità empatica ed emotiva con i protagonisti. (BALLACCHINO, op. cit. 2015:99)

In ogni fieldwork che conduco, provo sempre ad attivare delle ‘catene di passaparola’ tali da permettermi di ottenere contatti utili nuovi che mi aiutino a mantenere alto il margine di libertà d’azione: ritengo, in accordo con Olivier de Sardan (2009), che uno dei principali fattori di disturbo alla ricerca è il rischio all’incliccaggio e credo che l’unico modo per arginarlo sia ampliare sempre la propria rete sociale e avere più punti di riferimento e non uno solo che ci accompagni per tutto il periodo della ricerca. Con il termine incliccaggio si definisce lo stato del ricercatore quando rimane incagliato ad una particolare visione della realtà che corrisponde a quella dell’informatore o del gruppo a cui si fa riferimento, o addirittura quando si diventa portavoce o esponenti di spicco del gruppo stesso. Incorrere in tale errore significa perdere l’eventuale possibilità di poter interagire con le altre ‘fazioni’ presenti sul territorio, ugualmente importanti da sondare. Una volta scelto da che parte stare invece, si risulterà assoggettati alle modalità secondo cui la clique intrattiene le relazioni con le altre, siano essi di affinità o di ostilità.

Nel caso del lavoro svolto a Maputo, l’essere supportata dall’IVERCA, specialmente durante la

prima fase è stata una condizione necessaria, non sufficiente però all’elaborazione di una riflessione critica e quanto più oggettiva possibile. Se fossi rimasta legata solo alla loro prospettiva per tutta la durata della ricerca, non avrei lasciato il giusto spazio alle altre interpretazioni date al territorio, né avrei individuato le diverse opinioni, tralasciando così aspetti di cui nemmeno avrei saputo l’esistenza. Per questo consapevole dell’eccessiva influenza che stava avendo su di me il loro orientamento ed essendo mai del tutto chiaro il mio posizionamento all’interno dell’equipe, durante la seconda spedizione ho preferito lavorare intessendo maggiori relazioni anche con altre entità. L’avere loro come ente di riferimento iniziale però mi ha permesso di bypassare numerose procedure formali e burocratiche che invece ho dovuto fare ad Ilha de Moçambique: se a Mafalala il legame con l’IVERCA e l’essere accompagnata agli incontri da un membro, mi ha fatto sentire libera

di adoperare la macchina fotografica e il registratore senza incorrere in problemi di alcuna natura, sull’isola è stato necessario presentare il lavoro che avrei condotto ai membri del Municipio, nella

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sede del Governo del Distretto di Ilha de Moçambique e all’interno del GACIM, mostrando le credenziali redatte dalla UEM. Perché una tale discrepanza? La risposta a questo quesito è probabilmente contenuta nelle modalità di distribuzione del potere amministrativo all’interno della città di Maputo, divisa in sette Distritos a loro volta suddivisi in 64 Bairros. In ogni bairro l’esercizio del potere è nelle mani di un secretário scelto dal governo, con la funzione di rappresentare il Sindaco in quell’area, aiutato a sua volta da rappresentanti di nuclei familiari più piccoli all’interno dello stesso quartiere. Il compito dell’organo municipale è di regolarizzare la vita cittadina e facilitare la creazione di programmi e infrastrutture per i bairros ma spesso in questa intricata ragnatela fatta di poteri delegati, è facile scoprire delle faglie. All’assenza di una particolare attenzione a problematiche di un territorio, spesso nascono associazioni comunitarie che provano ad impegnarsi per risolvere le problematiche e creare programmi ed iniziative a favore della popolazione, migliorandone le condizioni, magari supportate da internazionali di cooperazione e sviluppo. Questo è quello che è successo nel bairro della Mafalala, dove l’IVERCA si è implementata con l’intento di promuovere un

territorio fortemente lasciato a sé dalle istituzioni, fino a diventare nei fatti, l’entità di riferimento che mi avrebbe permesso di lavorare anche senza una presentazione ufficiale nella sede della Secretária do

bairro (che comunque è avvenuta ma in modo meno precipitoso e formale). Voglio a questo

proposito aggiungere, per permettere al lettore di comprendere la forza che esercita l’IVERCA sul

quartiere, che quando mi recai nella sede della Secretária, lo stesso segretario Gabriel Jorge Sitoi, mi indicò l’associazione come la più indicata a fornire informazioni riguardanti cultura e patrimonio.

La postura intellettuale assunta mi ha permesso di sondare l’organicità dei dati disponibili sul territorio con una propensione critica, attraverso la partecipazione. Fissati i due fuochi di osservazione, ho provato a saggiare anche gli aspetti compresi all’interno di quella che immagino come un’ellisse costruita sul luogo dei punti individuati dalla direttrice che li unisce, ossia tutti gli aspetti di contorno, politici, sociali, migratori, religiosi e quant’altro che forniscono informazioni tali da permettere una più semplice decostruzione e comprensione degli aspetti sociali e culturali sia di Mafalala che di Ilha de Moçambique. Scegliere di abitare nel quartiere della Mafalala o nella città di

macuti a Ilha, forse sarebbe stata una decisione più giusta a livello metodologico ma per differenti

ragioni che proverò di seguito ad esplicitare, definirei la mia presenza sul campo come ‘circolare’, più che ‘al centro’. Per quanto riguarda il periodo di ricerca a Maputo, ci sono stati dei momenti in cui avrei sicuramente preferito vivere nel quartiere, al centro delle dinamiche quotidiane, senza rischiare di perdere nessuna possibile occasione e per questo specialmente durante la prima fase ho provato ad essere lì tutti i giorni anche senza un programma di lavoro già strutturato, semplicemente per ‘farmi vedere’, ritornando solo al calare del sole, se non proprio in serata. Ogni volta che mi avviavo verso casa avevo sempre la sensazione di aver aggiunto un qualcosa alla mia conoscenza e

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comprendevo quanto fosse necessario quel confronto/scontro che percepivo sulla pelle, ossia il vivere contemporaneamente tra il mondo suburbano e quello urbano, dove avevo casa. Il tardo pomeriggio o la sera, in cui teoricamente provavo a ritagliarmi dei momenti di vita privata, fatta di amicizie fuori terreno, di lunghi momenti riflessivi, ricercati in spazi tranquilli dove annotare, leggere e studiare ma anche di numerose uscite serali e partecipazioni a svariati eventi musicali, principalmente aventi luogo alla Associação dos Músicos Moçambicanos, al Centro Cultural Franco-

Moçambicano o al Núcleo de Arte, nominando i tre più attivi (a mio avviso), in realtà continuavo la

ricerca di campo. Una volta qualcuno mi disse: «Maputo è uma caixa de fosforo»,32 nel senso che

tutti conoscono tutti ed è assolutamente vero, per questo anche quando partecipavo ad eventi della

cidade de cimento, oltre ad affinare i codici locali di interazione, imparavo a decostruire ciò che avevo

visto al mattino nel suburbio. Se durante il primo viaggio la scelta di vivere nella zona urbana è stata una scelta non del tutto voluta, durante il secondo invece è stata ricercata, per permettermi da un lato di continuare ad ampliare lo sguardo sull’intera città e dall’altro di provare a mantenere una distanza critica dal bairro, smorzando l’identificazione empatica che ormai avevo stabilito con quel luogo. Sull’isola invece desideravo ardentemente poter girovagare nei quartieri, ma il doversi confrontare quotidianamente con la condizione di alterità che mi si attribuiva, in quanto bianca, non mi ha permesso di agire come avevo pianificato prima di arrivare lì. Una discriminante questa, che nonostante avessi già vissuto a Mafalala e in altre aree visitate del Mozambico, sull’isola l’ho avvertita in maniera decisamente più forte. La prima parola che ho imparato sia in changana che in emakhuwa, sono state rispettivamente mulungo e mucunha, che significano ‘straniero’, espressioni che si usano principalmente per indicare i bianchi e termini con cui venivo additata almeno una volta al giorno. L’essere straniero in generale ha pesato molto sull’attività di ricerca, poiché ero obbligata ad applicare delle accortezze che ovviamente gli studiosi locali non hanno, liberi di prendere molto più liberamente delle scelte, anche banali, senza incorrere in alcun tipo di problematica; a questo poi si sono sommate le questioni di genere che hanno costituito un’ulteriore grave limitazione al lavoro. Non ricordo esattamente quando ma ad un certo punto del lavoro mi è stato attribuito un nomignolo simpatico usato in maniera scherzosa che però mi ha fatto capire che in qualche modo ce l’avevo fatta ad essere una figura riconoscibile nel quartiere diventando a mulungo da Mafalala, legittimando la mia presenza lì. Le dinamiche che invece si instaurano tra stranieri (non per forza europei) e isolani sono molto complesse: l’enorme presenza di turisti, porta a percepire la presenza di un bianco necessariamente legato al turismo e al tempo libero. È molto forte l’idea che il turista abbia denaro sufficiente da donare loro ed è molto difficile spiegare loro le ragioni del perché non si faccia. È stato interessante sentire le raccomandazioni di altri mozambicani prima di arrivare sull’isola o di isolani stessi che mi avvertivano sulla propensione degli Ilhéus ad aver sempre un affare

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da concludere e quasi nulla è fatto per nulla. Dicerie che mi sembrano realmente interessanti se si pensa al ruolo dell’isola per lungo tempo e che magari hanno a che vedere proprio con questo. Dicerie non del tutto infondate, se ripenso alla mia esperienza. In questo clima, in cui era impossibile mascherare il mio essere straniera, raggiungere un determinato livello ‘intimo’ di relazione con la comunità ha significato un enorme impiego di energie e l’assoluta necessità di fidarmi di qualche persona che potesse sostenermi e supportarmi durante la ricerca. Anche qui quindi sono stata scambiata per turista, giornalista, fotografa, cooperante ecc. ecc. ma a seguito della partecipazione a numerosi eventi a carattere politico, tra cui ad esempio il Workshop sobre Processos de Planeamento e

Gestão de Sítios do Património Mundial organizzato dall’UNESCO, tra il 4 e il 6 Settembre 2017, in cui

erano stati invitati a partecipare i principali membri legati alle ‘questioni patrimoniali’, per poter effettuare la revisione e la stesura del Piano di Gestione e Conservazione di Ilha de Moçambique (2018-2022), oppure la collaborazione voluta dal Sindaco con il gruppo organizzativo del Municipio, per la festività organizzata in onore dei 199 anni dell’isola, hanno fatto probabilmente cambiare la percezione che la popolazione aveva di me, ma conquistando piano piano, ogni giorno una maggiore approssimazione ad un mondo che inizialmente mi sembrava totalmente inaccessibile.

Ho sempre provato a diminuire l’enorme divergenza esistente tra la realtà di essere una ricercatrice-persona e l’illusione di vedere in me una straniera-salvatrice, uno status che ha inficiato su quel grado di invisibilità che invece avrei voluto raggiungere. Un ricercatore straniero in Mozambico, è associato quasi sempre alla possibilità di ricevere nuovi fondi o in generale aiuti di tipo economico, per questo è di vitale importanza spiegare bene quali sono i propri obiettivi, i mezzi e le strategie adottate, per non creare in nessuno aspettative impossibili da soddisfare. Riporto di seguito la narrazione di due episodio tra i tanti, appuntati tra le note di campo, che lascia intendere come il lasciarsi trasportare dagli avvenimenti e seguire chi mi era parso potesse aiutarmi, non sempre ha dato i risultati sperati.

Ieri avevo preso appuntamento con un’impiegata della Secretária do Bairro alle otto del mattino, per potermi presentare agli anziani del quartiere che si sarebbero dovuti riunire, per ricevere informazioni sulle nuove direttive per quanto riguarda gli aiuti economici per cittadini anziani. […] Ho provato ad interagire con loro facendo domande semplici e di carattere generale e tra tutte mi ha colpito Elisa una donna di 90 anni, molto aperta e volenterosa di collaborare e ‘farmi capire’. Mi invita subito a casa sua, per mostrarmi come vive e spinta dalla voglia di sapere di più la seguo. […] Mi mostra tutto, le varie stanze, i progetti di ampliamento e poi mi fa entrare in quella che sarebbe dovuto essere la cucina ma che in realtà è un magazzino strapieno di vestiti sparsi qua e là e armadi pieni di oggetti. Mi dice che lei vende quelle cose e mi invita ad entrare. Avvertivo una sensazione di occlusione e non avevo alcuna voglia di entrare in quella stanza piccolissima ma non volevo offendere la gentilezza di quella donna. In realtà voleva solo farmi vedere cosa ci fosse nell’armadio e se volevo comprare qualcosa ma sono rimasta bloccata per cinque minuti tra il muro e l’anta dell’armadio mentre continuava a propinarmi cianfrusaglie che non volevo vedere assolutamente, con un evidente attacco di claustrofobia. Probabilmente si aspettava comprassi qualcosa perché dopo il mio rifiuto, Elisa non era più disposta a chiacchierare

37 come prima e ovviamente l’intervista che è seguita si è svolta in un clima di imbarazzo (da

parte mia) e di riluttanza (da parte sua). Ho preferito chiudere e andarmene. Mi sentivo frustrata dall’aver anteposto i miei obiettivi alle necessità di una persona che aveva bisogno di monete e cibo, non di domande sul come si vive a Mafalala. (22 Ottobre 2016, Mafalala) Oggi ho incontrato di nuovo N., una persona che mi hanno indicato in molti e che non posso non prendere in considerazione per il mio lavoro. Continuo però a non comprendere il suo atteggiamento, e il modo in cui interpreta la mia figura. A volte sembra propenso ad aiutarmi, altre meno. Continua a ribadire che debba pagare almeno 500mtc se voglio ‘chiacchierare’ con qualche anziano che lui può indicarmi, ma è chiaro che se dovessi pagare una tale cifra ad una persona che orientativamente ne guadagna 3000-4000 al mese, mi sembra eccessivo. Questo non andrebbe a sporcare la naturalità dell’intervista? È ovvio che non voglia sfruttare nessuno per i miei fini, ma non accetto che debba essere considerata una fonte inesauribile di denaro solo perché ho la pelle bianca. (31 Agosto 2017, Ilha de Moçambique)

Ad ogni modo ad Ilha come a Mafalala, un nuovo bianco è inizialmente interpretato come un turista, infatti erano molti che credevano lo fossi, magari un po’ più curiosa ed invadente degli altri, per via delle continue domande che facevo. Per altri ero una giornalista che probabilmente avrebbe