Si è detto che l‟obiettivo della nostra indagine vuole essere un‟analisi delle circo- stanze e delle ragioni per le quali la determinazione dell‟arbitratore può definirsi iniqua. Poiché, evidentemente, l‟equità gioca in tale contesto un ruolo fondamentale, tale concetto dev‟essere opportunamente approfondito in relazione a diversi aspetti.
Come è noto, parlando di equità ci si addentra in uno tra i temi più discussi e com- plessi del mondo giuridico, comprendente una congerie talmente vasta di questioni che si corre facilmente il rischio del disorientamento e della dispersione. Per questo va primaria- mente sottolineato che, pur non essendo questa la sede idonea per occuparsi in modo ap- profondito del tema, ai fini della presente ricerca un richiamo all‟equità è non solo oppor- tuno, quanto necessario.
Storicamente tale concetto ha subito un‟evoluzione che l‟ha condotto a fungere da criterio correttivo in tutte quelle ipotesi in cui l‟applicazione della legge al caso concreto conducesse ad esiti, appunto, non equi470.
Come si è avuto modo di vedere, nell‟arbitraggio l‟equità viene in rilievo come una delle modalità di determinazione dell‟oggetto del contratto, quella cioè secondo equo ap- prezzamento. Dalla disciplina positiva di questa tipologia emerge chiaramente come essa sia quella preferita dal legislatore, in quanto fornisce maggiore garanzia, come risulta dall‟espressione stessa, di equilibrio nel giudizio.
470 Cenni riassuntivi dal punto di vista storico-comparatistico si trovano in F.G
ALGANO, Diritto ed
equità nel giudizio arbitrale, in Contratto e impresa, Padova, 1991, 462 s. Egli ricorda come per Aristotele la
funzione dell‟equità consistesse nel «colmare le lacune lasciate dal legislatore e correggere le omissioni do- vute al fatto che egli si esprimeva in generale», con la conseguenza che l‟equità veniva ad acquisire una fun- zione correttiva del singolo caso specifico. Anche nel diritto romano l‟aequitas, cui si ispira lo ius praeto-
rium, si poneva in una posizione di continuità con lo ius civile, supplendo alle relative lacune ed imperfezio-
ni. Anche nel sistema di common law inglese vale il principio per il quale „equity follows the law‟, e il siste- ma è ritenuto così autosufficiente: l‟equity si innesta in un terreno già tracciato dalla legge e senza il quale la prima non avrebbe alcuna autonomia né portata concreta. Si ricordino poi nella dottrina italiana le parole di Calamandrei: «l‟equità è considerata, piuttosto che come potere di creare diritto, come potere di adattare il diritto già esistente alle speciali esigenze del caso singolo, nello spirito della codificazione vigente».
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La dottrina è addivenuta a una duplice constatazione. Da un lato, l‟equità non corri- sponderebbe ad un sistema extralegale, bensì ad un criterio di giudizio utilizzabile da sog- getti estranei al rapporto contrattuale (l‟arbitratore o il giudice in veste sostitutiva del pri- mo)471. Dall‟altro lato, essa non potrebbe essere assimilata al parametro valutativo delle cosiddette generali regole di buona fede e di equità (ex artt. 1371 cod. civ. e 114 cod. proc. civ.) di cui si serve il giudice quando interpreta il regolamento contrattuale al fine di risol- vere una controversia. Il terzo infatti non si trova a dover interpretare la volontà contrattua- le in presenza di una controversia: non c‟è alcuna attività di composizione di un conflitto, bensì di integrazione sostanziale del rapporto contrattuale472. Ciò non toglie, comunque, che l‟apprezzamento secondo equità debba sempre uniformarsi ai principi caratterizzanti il sistema giuridico nel quale si inserisce473.
È stato sottolineato che il momento dell‟interpretazione e quello dell‟integrazione del contratto corrispondono a due giudizi distinti. Il primo consiste nella ricostruzione dell‟assetto degli interessi dei contraenti ed è funzionale a comprendere quale debba essere la sua regolamentazione più adeguata. L‟integrazione, invece, si realizza nella partecipa- zione del terzo alla determinazione del contenuto e degli effetti dell‟atto giuridico. La dif- ferenza, quindi, consiste nel fatto che l‟integrazione, a differenza dell‟interpretazione, non implica una valutazione complessiva del negozio, bensì un suo completamento, e potrebbe
essere successivamente soggetta a riesame474.
Nonostante la separazione tra questi due distinti momenti, l‟equità mantiene inalte- rata la propria natura di criterio di giudizio. Tuttavia va ribadito, per quanto qui interessa, che l‟equità che si ritrova nell‟arbitraggio è proprio quella con funzione integrativa. Infatti la funzione equitativa dell‟integrazione del contratto ex art. 1374 cod. civ. è di tipo supple- tivo, in quanto finalizzata a sopperire a lacune laddove non sia prevista un‟apposita disci- plina da parte della legge o degli usi; non è invece un canone interpretativo del contratto già completo475.
Il terzo infatti è chiamato in veste di arbitratore a determinare l‟oggetto del contrat- to e quindi a meglio precisare la volontà dei contraenti senza che gli venga attribuito il po-
471
S.RODOTÀ, Fonti di integrazione del contratto, Milano, 1970, 225 ss.
472 F.C
RISCUOLO, Arbitraggio e determinazione, cit., 186 ss.
473F.G
ALGANO, Diritto ed equità, cit., 461 ss.
474 F.C
RISCUOLO, Arbitraggio e determinazione, cit., 191 s.
475
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tere di risolvere la lite. Egli non porrà dunque in essere un‟attività di tipo interpretativo, onde verificare la compatibilità del regolamento contrattuale con i limiti posti all‟autonomia privata, quanto piuttosto di tipo integrativo, incidendo propriamente sul rap- porto negoziale. Pur svolgendo un‟attività diversa da quella giurisdizionale il suo metro va- lutativo è comunque forgiato sull‟equità che rappresenta il suo criterio di giudizio.
Ciò chiarito, non vi è tuttavia certezza sul contenuto effettivo che l‟equità deve pos- sedere.
Si pensi ai casi in cui la determinazione dell‟arbitratore è ritenuta una dichiarazione di scienza per effettuare la quale egli deve ricorrere a nozioni e conoscenze personali. In tutte queste ipotesi, in realtà, il richiamo all‟equità sarebbe inappropriato perché, posto che questa assume rilievo solo laddove funga da criterio di giudizio, quando l‟attività dell‟arbitratore si risolve in una dichiarazione di scienza non v‟è spazio per un vero e pro- prio giudizio e quindi, di conseguenza, per una maggiore o minore discrezionalità del ter- zo476.
In altri casi la legge richiama il concetto di equità come metro di giudizio di una de- terminazione del terzo che concerna l‟ammontare, ad esempio, di un‟indennità o di un ri- sarcimento (ad es. l‟art. 1226 cod. civ. sulla valutazione equitativa del danno da parte del giudice, ovvero l‟art. 1384 cod. civ. sulla riduzione equitativa della penale). È stato detto che in tutte queste ipotesi il richiamo all‟equità farebbe riferimento alla discrezionalità di giudizio con la quale si compenetrerebbe, identificandosi in essa477.
Di equità potrebbe significativamente parlarsi, quindi, solo quando la determina- zione del terzo sia il risultato di un giudizio – ancorché diverso da quello adottato dal giu- dice nello svolgimento di attività giurisdizionale – che, pur non potendo tendenzialmente prescindere da un certo grado di discrezionalità, dovrà necessariamente fare riferimento ai
parametri oggettivi che si ricavano dal sistema normativo di riferimento478.
Quando si parla di equo apprezzamento, dunque, si fa riferimento ad una valutazio- ne delle circostanze in termini oggettivi, nel rispetto dei principi contenuti in norme costi- tuzionali e clausole generali. In tal modo viene assicurato un metro di valutazione il più possibile ponderato ed obiettivo, così da garantire certezza del diritto ed evitare l‟arbitrio del singolo.
476 F.C
RISCUOLO, Arbitraggio e determinazione, cit., 198.
477 F.G
AZZONI, Equità e autonomia privata, Milano, 1970, 11.
478
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