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CAPITOLO 3: GLI STATI DEL CORNO

3.2 ERITREA

Figura 17: cartina politica dell’Eritrea – fonte: Wikipedia

L’Eritrea, fino a non poco tempo a dietro, era considerata uno stato “canaglia” e veniva vista come uno dei principali fattori destabilizzanti per l’intero Corno D’Africa.

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La sua storia recente è legata a doppio filo a quella dell’Etiopia. Come precedentemente detto, l’Eritrea, dopo gli anni di dominazione italiana, a partire dal 1950, ha fatto parte di una federazione con l’Etiopia sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (n.390 del 2 dicembre 1950) ma, con un atto coercitivo del Negus Hailè Selassiè del 1962, era stata annessa quale provincia.

Sulla base di quanto detto si può affermare che la traiettoria contemporanea eritrea, si identifica principalmente con la lunga guerra di liberazione dal dominio etiope, culminata con la proclamazione dell’indipendenza nel 1993.

Gli anni della dominazione etiope furono contraddistinti da un controllo molto stringente sul corpo dirigente eritreo e sulle istituzioni garanti dell’autonomia regionale, mediante l’uso degli strumenti di cooptazione e coercizione. Ad aggravare la situazione si aggiungevano le continue violente repressioni contro le proteste antigovernative.

In questo contesto nacquero i primi movimenti di liberazione eritrea come l’Eritrean Liberation Movement (ELM) e l’Eritrean Liberation Front (ELF), i quali vedevano nella lotta armata l’unica soluzione possibile per contrastare il dominio etiope. Il risultato della nascita di questi nuovi gruppi di liberazione non fu, però, quello di unire tutti i fronti contro il nemico comune, ciò che in realtà emerse non furono altro che delle profonde spaccature all’interno della comunità eritrea, soprattutto a causa di motivi etnici e religiosi.

Così, quando nel 1961 l’ELF, organizzazione di stampo esclusivamente musulmano, lanciò le prime offensive, rivolse le proprie azioni sia contro le forze etiopi sia contro i componenti cristiani dell’ELM, accusate di promuovere posizioni inclusive ed unioniste favorevoli alla completa annessione all’Etiopia.

Questi scontri di stampo religioso continuarono anche nel decennio successivo, innescando una lunga serie di violenze all’interno dei movimenti di liberazione.

L’impronta musulmana che era stata data alla lotta per la liberazione dall’Etiopia cristiana aveva fatto sì che l’ELF riuscisse a garantirsi l’appoggio di altri paesi musulmani tra cui Libia, Iraq ed Egitto. D’altro canto l’Etiopia era riuscita ad ottenere l’appoggio degli Stati Uniti e la solidarietà degli altri paesi occidentali.

A metà anni settanta, la costituzione di un nuovo movimento, l’Eritrean People’s Liberation Front (EPLF) guidato dall’attuale presidente Isaias Afewerki, provocò dei tumulti tra i

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movimenti di liberazione, mentre la rivoluzione socialista in Etiopia portò ad un avvicinamento della stessa a Mosca e spinse gli Stati Uniti, contrariamente a quanto successe qualche anno prima, verso l’Eritrea e in maniera più specifica verso l’EPLF. L’appoggio statunitense servì ad Afewerki per affermare la propria posizione all’interno del fronte eritreo, e allo stesso tempo il contrasto al regime filo sovietico etiope gli consentì di creare una rete di rapporti transnazionali e guadagnare legittimità internazionale.

Nel 1991 con la fine delle operazioni belliche per l’indipendenza, l’EPLF inaugura un processo di transizione che in breve tempo porta il movimento di liberazione a trasformarsi in partito, con il nome People’s Front for Democracy and Justice (PFDJ).

Una volta ottenuta l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993, l’obiettivo era quello di creare un forte stato basato sull’unità nazionale, come principio inviolabile, e su istituzioni democratiche. In questo senso va vista, prima dell’avvio della costituente, l’approvazione della legge di cittadinanza.

Questa prevedeva, secondo la logica dello “ius sanguis”, l’estensione della cittadinanza a tutti i nati da una coppia costituita da almeno un genitore eritreo. Inoltre erano previsti anche dei doveri che le famiglie eritree dovevano rispettare per non perdere la cittadinanza. Nonostante il processo costituzionale si fosse svolto in un’atmosfera di profonda euforia la costituzione, redatta nel 1997, non venne mai ratificata.

Ben presto l’Eritrea divenne un sistema monopartitico dittatoriale in cui il potere era ed è concentrato nelle mani di Afewerki e di una ristretta cerchia politico-militare. Al pari di quanto avveniva durante gli anni della lotta per l’indipendenza, ogni forma di dissenso ed opposizione viene repressa.

Si possono individuare due fondamentali problematiche che si trovano alla base dell’instabilità e dei conflitti che caratterizzano questo paese. Il primo può essere individuato nello stretto controllo che il governo centrale esercita sulle risorse eritree e sulle stesse persone. Una delle maggiori entrate è infatti garantita dall’istituzione di una tassa per ogni eritreo adulto residente all’estero, che è pari al 2% del suo reddito annuo. Questa gestione paralizzante ha limitato lo sviluppo dell’economia lasciando la struttura finanziaria del Paese in condizioni di forte precarietà.

La seconda fonte di instabilità è rappresentata dall’elevata militarizzazione della società, infatti ogni cittadino eritreo, senza distinzione di sesso, è obbligato a prestare servizio

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militare a partire dall’età di 17 anni, per un numero imprecisato di anni fino all’età di 50 anni, durante i quali spesso vengono impiegati come mano d’opera a basso costo. Questo aspetto è direttamente collegato alla diaspora, infatti molti cittadini eritrei lasciano il paese per sottrarsi a tale obbligo. Ad oggi l’esercito consta di circa 250.000 soldati, un esercito così numeroso può essere spiegato solo dai numerosi conflitti in cui l’Eritrea è stata coinvolta, tra cui non può non essere menzionata la guerra con l’Etiopia tra il 1998 e il 2000. Tale conflitto si concretizzò in maniera inaspettata, durante un periodo in cui i due Stati sembravano essere più vicini dopo anni di scontri. Infatti i loro leader, Afewerki da una parte e Zenawi dall’altra avevano trovato nella lotta contro il dittatore etiope Menghitsu, un’intesa per abbattere il regime e per una successiva separazione consensuale. Seguirono anni di pace e di ricostruzione, i due paesi erano stati additati come esempi del “rinascimento dell’Africa” e i loro leader erano stati addirittura candidati al premio Nobel per la pace. Questo idillio venne però spezzato dallo scontro cominciato ufficialmente il 13 maggio del 1998 per il controllo del villaggio di Badme, posto al confine tra Etiopia ed Eritrea. Se ad un primo sguardo all’origine del conflitto sembrava potesse esserci solamente una diatriba per i confini, dopo uno studio più attento vennero individuati almeno tre fattori fondamentali. Il primo può essere trovato nei veloci ed imprevedibili cambi di alleanze che si sono formate e poi dissolte in brevissimo tempo. Dopo la caduta dell’unione Sovietica gli USA sono rimasti gli arbitri dell’Africa, subito alleati e protettori di Addis Abeba. Ma non hanno avuto l’accortezza necessaria per intervenire sulle alleanze regionali che si sono sempre dimostrate in costante fasi di ridefinizione e ricomposizione, restando estremamente fragili.

La seconda causa può essere trovata nelle crescenti tensioni nelle relazioni economiche tra i due paesi. Dopo la divisione politica avvenuta nel 1993, i due stati hanno continuato ad utilizzare la stessa moneta facilitando così gli interscambi commerciali tra le due aree. Agli inizi degli anni novanta i due paesi si erano accordati su un regime di libero scambio e sul libero accesso dell’Etiopia ai porti diventati eritrei. La svolta negativa che sembrava aver compromesso gli equilibri coincise con l’abbandono da parte dell’Eritrea della moneta etiope e l’adozione di una nuova valuta, denominata “nafka”, dal nome di una delle enclave simbolo della lotta di liberazione. Ciò ha comportato il blocco del processo di eliminazione delle barriere doganali tra i due paesi e del libero acceso ai porti.

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La guerra si concluse con il trattato di Algeri del 2000, e se da un punto di vista militare la vittoria fu dell’Etiopia, da un punto di vista politico la vittoria andò all’Eritrea che si vide assegnare praticamente tutti i territori contesi.

Il conflitto etiope-eritreo ha avuto la particolare capacità di ridare vigore alla tendenza dei diversi Paesi del Corno d’Africa a supportare le opposizioni ai governi degli stati vicini con l’obiettivo di indebolirli ed aumentarne così la vulnerabilità.

L’Eritrea e l’Etiopia, seguendo un’altra tendenza tipica del Corno, hanno esportato le dinamiche di conflittualità oltre i rispettivi confini, mediante guerra per procura, trovando un terreno di scontro perfetto nella guerra civile somala. Asmara ha portato avanti una politica anti etiope andando a sostenere tra i vari gruppi, le milizie islamiche di al Shabaab. Proprio per questo motivo Washington ha accusato il governo eritreo di agire contro gli interessi di sicurezza regionale e di appoggiare il terrorismo internazionale. Questa macchia, insieme ad una politica estera aggressiva con il solo fine di fomentare le tensioni con i vicini, ha portato l’Eritrea ad essere sempre più isolata.

Un altro fatto molto importante da sottolineare è che così come è avvenuto a più riprese in Etiopia, anche in Eritrea il perenne stato di emergenza dovuto ai continui conflitti è stato utilizzato a favore del governo centrale per aumentare la propria forza e allo stesso tempo per reprimere ogni forma di dissenso politico. L’insicurezza crescente all’interno del paese è stata sfruttata per colpire soprattutto la componente cristiana, vista da molti come potenziale sostenitrice degli etiopi.

Nonostante tutte le criticità appena evidenziate, il regime è riuscito a sopravvivere, rompendo l’isolamento e le sanzioni cui era stato condannato, grazie ad una serie di accordi con diversi players che gli hanno permesso di aggirare l’embargo sull’importazione delle armi, e gli hanno dato il sostegno economico per continuare così, ad alimentare il processo di militarizzazione della società. Lo Stato eritreo, tuttavia, si trova in una situazione in cui è necessario cercare ininterrottamente nuovi partener in grado di garantire risorse e sostegno. In questo senso va vista la rottura dei rapporti che da anni la legavano all’Iran in favore di un deciso avvicinamento alle monarchie del Golfo. Questa è stata una scelta dettata da calcoli di natura politica ed economica, e tale da fornire l’opportunità al Governo eritreo di cambiare il proprio orientamento politico e rafforzare la cooperazione con i nuovi alleati, ciò ha portato alla rottura dei rapporti tra Gibuti ed EAU nel 2015. La coalizione saudita così ha perso

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l’appoggio logistico di Gibuti, ma ha trovato nei porti eritrei e nell’aeroporto della capitale supporto determinante per le operazioni in Yemen.

Il comportamento dell’eritrea appare in linea con quello degli altri players regionali, l’obiettivo principale di Afewerki è quello di mantenere il potere internamente, e per farlo adotta strumenti come l’esercito regolare, gruppi armati non statali, acquisizione di influenza all’interno di organizzazioni regionali e il consolidamento di relazioni esterne che possano agevolare i propri interessi e fini.

Il 2018 per l’Eritrea è stato l’anno della svolta per ciò che riguarda i rapporti con la storica nemica: l’Etiopia. Quest’ultima infatti è stata protagonista di un grande cambiamento a livello politico che ha portato alla guida del paese il primo ministro Abiy Ahmed.

Figura 18: Abbraccio tra Abiy Ahmed e Isais Afewerki in occasione della firma del trattato di Jeddah – fonte: Ispi

La volontà di Ahmed è stata, fin dall’inizio, quella di democraticizzare le istituzioni e normalizzare la vita del popolo etiope. In tal senso ha abolito lo stato di emergenza che era stato perenne negli ultimi anni ed ha portato avanti, come uno dei primi punti della propria politica, la distensione dei rapporti con l’Eritrea.

I due leader, sotto l’egida dell’Arabia Saudita, si sono incontrati a Jedda l’8 luglio del 2018 per firmare uno storico e fondamentale trattato di pace, che ha posto fine così ad uno dei più lunghi e violenti conflitti recenti che hanno avuto luogo nel continente Africano.

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Il trattato ha lo scopo di: porre fine alla belligeranza, instaurare una cooperazione socio- economica, politica e di sicurezza, ristabilire i trasporti e il commercio, far sì che vengano accettati i confini, come stabilito dalle Commissioni del trattato di Algeri e stabilire una cooperazione per lo sviluppo del Corno d’Africa. Dal trattato sono scaturiti altri importanti segnali di avvicinamento come il riallaccio delle linee telefoniche tra i due Stati, la riapertura dell’aeroporto di Asmara alle linee aeree Etiopi e la totale apertura dei confini in modo tale da garantire all’Etiopia l’accesso al porto di Assab.

Anche se fino ad ora il trattato sembra non aver portato ancora dei consistenti risvolti pratici, non considerando quelli appena citati, non si può non osservare il comportamento dell’Eritrea nei confronti del vicino riguardo gli ultimi sviluppi. Infatti come detto precedentemente il Primo Ministro Abiy Ahmed si sta trovando a dover affrontare un conflitto interno contro i dissidenti del Tigray, regione a nord dell’Etiopia confinante con l’Eritrea, e dalle ultime notizie sembra stia riuscendo ad avere la meglio, forte anche dell’appoggio di Asmara. Tale fatto ha una grandissima importanza che fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile.

Il grande problema dell’Eritrea rimane comunque la sua situazione interna. I giovani sono ancora costretti al servizio militare, i partiti dell’opposizione non sono ancora stati riconosciuti e la carta costituzionale ancora non è stata ratificata. Se, quindi, i rapporti con il nemico di sempre sono stati normalizzati, lo stesso non si può dire della vita del popolo eritreo.

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