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CAPITOLO 3: GLI STATI DEL CORNO

3.3 GIBUTI

Gibuti, insieme ad Eritrea, Etiopia e Somalia è uno dei quattro stati che compone la regione del Corno D’Africa.

Ai tempi del colonialismo era conosciuto come Somalia francese o più propriamente Costa somala dei Francesi, e proprio dalla Francia si rese indipendente nel 1977. Nei primi decenni successivi all’indipendenza, paragonato agli stati vicini, Gibuti poteva sembrare un paese più stabile ed affidabile, ma questa relativa tranquillità, nascondeva in realtà un malcontento sempre crescente, scaturito dall’eredità lasciata dalla dominazione francese.

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Infatti anche in questo stato infatti, come descritto nei capitoli precedenti, una delle più grandi conflittualità lasciate dal periodo coloniale, deriva dalla questione etnica, in modo particolare le diseguali possibilità di accesso al potere e alle risorse per le diverse etnie. I francesi durante la loro dominazione si erano appoggiati per lo più all’etnia degli Issa. Proprio quest’ultimi dopo l’indipendenza furono in grado, anche grazie all’appoggio del primo presidente di Gibuti indipendente, Hassan Gouled Adptidon, di acquisire terreni e sostituirsi di fatto all’imprenditoria francese, diventando la nuova élite economica del Paese. Tutto ciò a scapito dell’etnia degli Afar, rappresentante il 37% della popolazione totale, la quale risultava essere scarsamente rappresentata nelle strutture amministrative, imprenditoriali e di sicurezza del Paese.

Ancora oggi il principale fattore di instabilità e conflittualità all’interno di Gibuti, rimane la forte percezione di marginalità politica ed economica degli Afar.

L’equilibrio instabile tra queste due etnie, viene influenzato fortemente dagli sviluppi politici degli Stati vicini. Infatti essendo, gli Issa e gli Afar, presenti anche in Etiopia, Eritrea e Somalia, molto spesso le tensioni che si creano all’interno in uno di questi stati, finisce con l’assumere carattere regionale, creando così tensioni anche negli altri.

Una testimonianza di questo fenomeno è rappresentata dai rivolgimenti di governo che ci furono nel 1991 in Etiopia, con la cacciata di Menghistu, ed in Eritrea la contemporanea presa del potere da parte di Afewerki che portò all’indipendenza di quest’ultima.

Come effetto domino, in Gibuti iniziò un periodo di grandi disordini, dovuti principalmente a motivi etnici e politici, che vide gli Afar raggrupparsi nel Front for the Restoration of Unity and Democracy (FRUD), nato per combattere contro il regime issa guidato dal presidente Apdtidon. In poco tempo il FRUD riuscì ad accrescere i propri sostenitori, proponendosi non come organizzazione secessionista, ma come un movimento organizzato che si poneva come scopo principale il rinnovamento del paese. A tale insurrezione aderirono anche gli Issa dissidenti e i Somali. Il presidente Apditon, con l’aiuto dei francesi e grazie all’appoggio di Etiopia ed Eritrea, preoccupate di una eventuale affermazione del FRUD, e soprattutto delle eventuali aspettative che ciò avrebbe potuto generare nelle popolazioni Afar presenti nei rispettivi paesi, riuscì a sedare la rivolta.

Tra il 1994 e il 1997 il continuo perpetrarsi di violenze tra le due etnie, spinse il governo a promuovere una maggiore partecipazione alle istituzioni degli Afar, e, allo stesso tempo con

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l’emergere, all’interno del FRUD, di un’ala moderata e più disposta alla negoziazione si crearono le condizioni per un riavvicinamento. Questo parziale ricongiungimento si manifestò con l’elezione di Ismail Omar Guelleh nel 1999.

Figura 19: Ismail Omar Guelleh – fonte: WIkipedia

Guelleh, grazie ad una serie di riforme costituzionali, e nonostante diverse ondate di protesta, ancora oggi conserva il potere instaurando di fatto un regime totalitario.

Negli ultimi venti anni, tutti i cambiamenti nel modo d’agire di Gibuti, sono stati influenzati e dettati da quattro principali fattori: la guerra tra Etiopia ed Eritrea nel 1998, il cambiamento della strategia statunitense in Africa e in Medio Oriente post 11 settembre, la trasformazione economica che ha interessato l’Etiopia e la diffusione della pirateria nel Golfo di Aden e lungo le coste somale.

Il conflitto tra etiopi ed eritrei del 1998, da una parte portò grandi benefici economici, poiché tutte le merci che partivano dall’Etiopia ora confluivano verso i porti gibutiani e non più verso quelli eritrei, dall’altra parte però, rese lo sviluppo economico di Gibuti totalmente dipende da Addis Abeba.

Questa pratica, ovvero quella di capitalizzare la sua posizione e diventare centro dei traffici commerciali, appartiene storicamente a Gibuti, vero e proprio snodo tra il Mar Rosso ed il Golfo di Aden. A testimonianza di ciò si può notare come l’attività portuale rappresenti l’asse portante dell’economia nazionale, e come il 70% dell’attività dei porti gibutiani è assorbita dal transito delle merci etiopi, grazie alla ferrovia di collegamento con Addis Abeba. Questa nuova linea ferroviaria costruita nel 2013, che corre parallela alla vecchia posata dai francesi, è stata realizzata in parte dal Gruppo ferrovie della Cina (il tratto situato

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in territorio etiope), ed in parte dalla Corporazione delle costruzioni di ingegneria civile della Cina (il tratto che si trova in territorio gibutiano).

Un’altra conseguenza che il conflitto del 1998 ha portato, è stato l’inasprimento dei rapporti tra Eritrea e Gibuti. Asmara infatti, con l’obiettivo di ostacolare l’accesso al mare dell’Etiopia, decise di sfruttare i rapporti transnazionali con gli Afar, andando a supportare le frange estremiste del FRUD gibutiano.

In questo quadro di rapporti tra i due paesi, vi fu una prima fase di tensione nel 1996, a causa del contenzioso aperto per il possesso della regione di Ras Doumeira, posta al confine tra Eritrea e Gibuti, a cui seguì la scelta di quest’ultimo di avvicinarsi al blocco Etiope durante il conflitto del 1998.

Nel decennio post 11 settembre, Gibuti divenne l’avamposto per i paesi occidentali per la guerra al terrorismo e agli stati canaglia, come l’Eritrea.

Questa situazione portò ad un inasprimento dei rapporti tra di loro che sfociarono nei tre giorni di scontri tra il 10 ed il13 giugno 2008, per il controllo di Ras Doumeira.

Il breve conflitto cessò grazie all’intervento del Qatar, che negli accordi di Doha firmati nel 2010 tra le parti, decise di porre una “buffer” zone occupata dalle proprie truppe.

Nel 2017 però questa zona cuscinetto è stata abbandonata dall’esercito del Qatar, in seguito alla crisi diplomatica nata all’interno del Consiglio di Cooperazione Golfo, nel corso della quale, il 5 giugno 2017, ha visto l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti ed il Bahrein tagliare i rapporti con il Qatar, accusandolo di supportare il terrorismo.

Gibuti in questa occasione si è schierato con il blocco saudita, causando così l’abbandono della” buffer” zone da parte del Qatar.

In seguito a questo evento, l’esercito eritreo ha di nuovo occupato la zona. Un primo tentativo di normalizzazione c’è stato quando le autorità gibutiane hanno richiesto l’intervento dell’Unione Africana, che avrebbe dovuto ristabilire l’equilibrio delle parti. La situazione si è pacificata definitivamente nel settembre 2018, quando in seguito agli accordi di Gedda intercorsi tra Etiopia ed Eritrea a riconoscimento degli accordi di Algeri 2002, i due stati hanno riallacciato i rapporti diplomatici.

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Infatti il nuovo stato di pace tra i due stati confinanti, ha portato alla distensione dei rapporti tra Eritrea e Gibuti, con la riconsegna a quest’ultimo dei territori contesi.

Figura 20: Zona contesa tra Gibuti ed Eritrea nel 2008 – fonte: Wikipedia

Il secondo elemento che ha influenzato l’atteggiamento strategico di Gibuti è stato, come precedentemente accennato, il cambiamento della politica estera di Washington per ciò che concerne il Corno d’Africa ed il Medioriente. Durante la guerra fredda questa zona era stata ignorata, ma a seguito di diversi episodi come: il fallito attentato al presidente egiziano Mubarak in Etiopia nel 1995, le bombe alle ambasciate degli Stati Uniti a Nairobi e a Dar es Saalam nel 1998, l’attacco al cacciatorpediniere USS Cole nel porto di Aden nel 2000, gli USA hanno colto l’importanza che il Corno e in particolar modo Gibuti potevano assumere nella guerra al terrore, in maniera ancora più importante dopo l’11 settembre.

Gibuti, a causa della prossimità con Yemen e Somalia, Stati definiti “falliti”, ed individuati come sostenitori del terrorismo di al-Qaeda, venne individuato da George W. Bush come stato chiave, sia per l’attività di monitoraggio dell’area, sia come base operativa per missioni anti terrorismo. Così nel 2002 venne deciso di stabilire a Camp Lemonnier, complesso già utilizzato dalle truppe francesi, la prima e unica base statunitense permanente sul suolo africano. La base di Lemonnier è sede anche della Combined Jioint Task Force Horn of Africa (CJTF-HOA), a conferma di come Gibuti rappresenti il polo logistico per gli Stati Uniti ed i suoi alleati nelle diverse operazioni in Africa e nella Penisola Araba.

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Figura 21: Base statunitense di Camp Lemonnier – fonte: Wordpress.

L’importanza strategica acquisita da questo paese, ha permesso al regime autocratico di Guelleh, di godere di molteplici alleanze al fine di ottenere legittimazione internazionale, e in tal modo, rafforzare il proprio controllo sul piano interno ed instaurare così un vero e proprio regime autoritaritario.

Il terzo fattore che ha condizionato le scelte di Gibuti è stato il complesso legame tra le operazioni militari congiunte, e le misure volte a contrastare la pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano. La crescita che questo fenomeno ha avuto in termini di frequenza e di varietà degli attacchi, ha generato nella comunità internazionale, l’idea che la pirateria fosse un problema primario per la sicurezza della navigazione, e di conseguenza andasse affrontato in maniera decisa.

Grazie alla sua posizione geografica, Gibuti, è di fatto diventato un luogo adatto allo sviluppo di nuove forme di collaborazione militare e navale, che coinvolgono una molteplicità di Paesi.

Nel 2009 è diventato base operativa della missione EUNAVFOR Atalanta, la prima operazione sotto egida UE nel contesto sicurezza e difesa comunitaria.

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Gli Stati Uniti non sono l’unica nazione presente militarmente in Gibuti, infatti nonostante la presenza statunitense sia massiccia, una grande influenza è esercitata ancora oggi dalla Francia. L’ex potenza coloniale conserva ancora rapporti privilegiati con l’élite gibutiana, riuscendo sempre ad assicurarsi così un ruolo da protagonista nell’intera regione.

A livello militare il coinvolgimento francese è ancora importante, la Francia detiene il compito di garante esterno della sicurezza di Gibuti e si occupa anche della difesa dello spazio aereo. Nonostante nel 2011 l’impegno militare abbia subito un drastico ridimensionamento, nella base francese di Camp Monclar continuano ad essere presenti truppe e mezzi militari in numero consistente, vi sono infatti ospitati contingenti spagnoli e tedeschi, visto che Spagna e Germania, non dispongono sul posto di basi d’appoggio. La grande importanza strategica che negli anni Gibuti ha assunto, non è stata colta solamente dagli Stati Uniti, ma anche da molte altre potenze. Oltre alla base di Camp Lemonnier possiamo trovare basi di Italia, Giappone e Cina. Anche la Russia ha provato a stabilirsi in questa zona senza mai trovare però il consenso delle autorità locali, timorose che un’eventuale concessione a Mosca possa alienare le simpatie degli USA.

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Tra i nuovi attori possiamo trovare anche il Giappone che nel 2011, con un investimento di 40 milioni di dollari ha stabilito, per la prima volta dopo il 1945, la prima base militare all’estero. Questo è un fatto che fa notizia e che ci fa realmente capire quanto sia importante nello scacchiere geopolitico internazionale questa zona. Il Giappone a partire dal secondo dopo guerra, ha infatti portato avanti una politica basata sul principio del “soft power”, concentrandosi in special modo sulle questioni riguardanti la stabilità politica interna. In passato l’attivismo giapponese andava di pari passo con la volontà di espandersi, tuttavia la sconfitta subita nella Seconda Guerra Mondiale ha ridimensionato le aspirazioni di questo paese, fino a portarlo ad essere militarmente neutrale in tutte le questioni internazionali e dipendente dagli Stati Uniti.

Uno degli scopi invece di questo avamposto militare nipponico nello Gibuti, è quello di fornire protezione alle navi commerciali giapponesi dagli attacchi dei pirati, divenendo così un punto di appoggio per i numerosi operatori che fanno riferimento a Tokio, ed impegnati nella fornitura di aiuti umanitari in favore della popolazione della regione.

Il vero motivo che spinge i giapponesi ad essere così attivi nella zona è però un altro, ovvero quello di contrastare il ruolo di potenza egemonica commerciale emergente, assunto dalla Cina in Africa. Proprio negli ultimi anni infatti, Gibuti ha iniziato ad intensificare la cooperazione con Pechino in molti settori, compreso quello militare. Molte sono le navi cinesi che si appoggiano ai porti di Gibuti, sia come tappa di passaggio verso i mercati Europei, sia per l’ingresso di merci in Africa.

Si sono intensificati anche i rapporti diplomatici, in questo senso va vista la partecipazione del presidente Guelleh al forum di Cooperazione Cina-Africa, a cui sono seguiti accordi commerciali e di investimento cinese nel paese, uno tra tutti il rafforzamento della linea ferroviaria Addis Abeba -Gibuti. Pechino considera la ferrovia un punto nevralgico per la “nuova via della seta” che dovrebbe collegare il porto di Doraleh con l’Oceano Atlantico. Un ulteriore segnale del grande interesse cinese nella zona, è stata l’inaugurazione della base militare il 1° agosto 2017. Ufficialmente lo scopo è quello di fungere da appoggio logistico per i mezzi impegnati in missioni umanitarie e di peacekeeping a largo delle coste somale e yemenite. In realtà questo avamposto rappresenta un hub strategico, situato vicino alla base americana di Camp Lemonnier, nei pressi dell’aeroporto internazionale, ciò consente a Pechino di monitorare le attività militari statunitensi nell’area, dando poi alla Cina, una

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solida base di partenza in un continente che essa vuole portare nella propria sfera di influenza.

Il costo per edificare la base è stato di circa 590 milioni di dollari, in più Pechino versa nella casse gibutiane un affitto annuale pari a circa 20 milioni di dollari per i prossimi 7 anni. La superficie totale è di 36 ettari, vi è presente una pista di volo lunga 400 metri con una torre di controllo per il traffico aereo, dispone inoltre di un molo di attracco di 450 metri, che può ospitare grandi navi, comprese quelle da guerra. Ci sono anche otto hangar per elicotteri e aerei UAV.

È previsto che nel 2026 la base arrivi ad ospitare circa 10000 effettivi, un numero di gran lunga maggiore rispetto ai 4000 degli Stati Uniti.

Il quarto ed ultimo rilevante aspetto che ha portato Gibuti a mutare la propria prospettiva geostrategica, è diretta conseguenza della crescente dipendenza economica dall’Etiopia. Infatti il governo gibutiano per ovviare a ciò, ha iniziato cercare nuovi partner commerciali, trovandoli sull’altra sponda del Mar Rosso.

Partner in grado di finanziare lo sviluppo delle infrastrutture portuali, e le attività ad esso connesse. In questo senso un ruolo chiave è stato giocato dagli EAU e dalla loro politica dei porti.

L’emirato, tramite la Dubai Port World (DP World), nel 2006 ha siglato un accordo di concessione trentennale per il potenziamento e la gestione delle infrastrutture portuali di Gibuti, in particolare per il terminal container di Doraleh, aperto nel 2009.

A partire dal 2014, però, il regime guidato da Guelleh ha iniziato a fare pressioni alla DP World al fine di rinegoziare i termini della concessione, dando vita così ad un braccio di ferro con gli EAU, culminato nel rifiuto di concedere terreni per la costruzione di una base militare. In risposta alle resistenze gibutiani, gli emiratini hanno siglato due nuovi accordi per la gestione di terminal portuali, uno in Eritrea (2015) ed uno a Berbera nel Somaliland (2017), con l’obiettivo di assestare un duro colpo alle finanze di Gibuti.

Nel 2017, Gibuti, a causa delle iniziative intraprese degli Emirati contro di esso, ha deciso unilateralmente di revocare la concessione, ed assumere il controllo del terminal, definendo l’azione come atto di difesa nazionale, iniziando così una battaglia legale con la DP Word. Battaglia che è stata vinta dalla società emiratina, infatti il tribunale arbitrale internazionale

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di Londra, ha dichiarato illegale la decisione di Gibuti di annullare l’accordo con la società di Dubai. Nonostante ciò, nella primavera del 2018, Gibuti ha portato a termine la nazionalizzazione del terminal di Doraleh, attraverso la costituzione di una società statale. La grande disponibilità del governo gibutiano a concedere basi militari a stati esteri, è dettata non solo da ragioni di sicurezza, ma soprattutto da ragioni economiche, poiché in tal modo vengono assicurate delle rendite a medio-lungo termine, che garantiscono delle entrate sicure e stabilità ad uno dei Paesi più poveri del mondo. Ad un aumentata importanza strategica che il paese ha assunto durante gli anni, non è corrisposta alcuna riforma politica che potesse portare ad un miglioramento delle condizioni socio economiche del paese, anzi è stata utilizzata solamente per consolidare il potere nelle mani del presidente Guelleh e della sua cerchia.

La gestione politica ha carattere prettamente personalistico ed autocratico, tutto gira intorno alla figura del presidente che a sua volta ha creato una fitta rete clientelare.

Lo scoppio della guerra civile in Yemen, distante soltanto qualche kilometro dalle coste gibutiane, ha favorito un inatteso incremento dei capitali provenienti da Golfo, soprattutto dall’Arabia Saudita.

Questi nuovi fondi hanno consentito a Guelleh, oltre che ad alimentare la sua rete clientelare, a diversificare gli investimenti, promuovendo piccoli progetti di redistribuzione attraverso piani di edilizia popolare ed infrastrutture.

Allo stesso tempo il regime ha rafforzato il ruolo della gendarmerie, che utilizza come proprio strumento di controllo della vita pubblica e per la repressione delle opposizioni. Nonostante le tante promesse di maggiori aperture democratiche, i cambiamenti tardano ad arrivare. Il malessere continua a crescere a cause delle mancate riforme politiche e della mancata redistribuzione delle ricchezze, a questo si aggiunge la predicazione degli imam salafiti, con il rischio di creare delle condizioni adatte affinchè, l’insoddisfazione sociale possa essere colta dai movimenti di radicalismo islamico, e trasformata in motivo di rivolta popolare

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