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STATI UNITI, CINA, RUSSIA, YEMEN, KSA, EAU, QATAR, TURCHIA, IRAN

CAPITOLO 4: INFLUENZA DELLE POTENZE GLOBALI, REGIONAL

4.1 STATI UNITI, CINA, RUSSIA, YEMEN, KSA, EAU, QATAR, TURCHIA, IRAN

IRAN.

Il Corno D’Africa, penisola che si colloca tra Asia e continente africano, avamposto tra Mar Rosso ed Oceano Indiano, negli ultimi quindici anni è diventato protagonista di dinamiche politiche ed economiche che hanno assunto grande rilevanza a livello globale, e che hanno reso questa regione una delle più importanti e soprattutto una delle più ambite al mondo. Il motivo di questa rinnovata importanza lo si può rintracciare prima di tutto, nella sua posizione geografica altamente strategica, ed in secondo luogo, nella vicinanza a diversi scenari di crisi, tra i quali, un esempio su tutti, può essere quello dello Yemen.

Negli ultimi anni, per i motivi sopra citati, diversi attori esterni, impegnati ad aumentare la propria presenza ed influenza nell’area, si sono resi protagonisti di una vera e propria corsa verso questa regione, con lo scopo di garantirsi l’installazione di strutture militari, la costruzione di hub logistici, o semplicemente con lo scopo di guadagnare una posizione dominante nel controllo delle rotte marittime e commerciali che dall’Asia, passando per Bab el Mandeb e il canale di Suez, sono dirette nel Mar Mediterraneo.

Inoltre la regione del Corno si distingue per una rinnovata valenza geopolitica e strategica anche in termini di sicurezza. Una dimostrazione di questo aspetto la si può ritrovare nelle numerose missioni internazionali e nell’elevato numero di basi militari straniere presenti nella zona. Questa presenza militare ha il principale obiettivo di combattere fattori destabilizzanti come il terrorismo internazionale di matrice islamica e la pirateria.

Tra i paesi più attivi ed interessati ad espandere la propria influenza in questa regione vi sono le monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar), l’Iran, la Turchia oltre, ovviamente, alle grandi potenze come Cina, Stati Uniti e Russia.

Se da una parte la competizione che si genera tra gli attori internazionali porta i paesi del Corno a trarre dei vantaggi in termini di sviluppo infrastrutturale, agricolo e militare, dall’altra le contese contribuiscono ad inasprire fratture politiche a livello locale, alimentando le ambizioni di attori che, contando sul supporto esterno, possono contestare le

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già fragili autorità centrali. Nonostante gli stati del Corno non possano essere considerati alla pari nei rapporti con gli attori esterni, assumerli come soggetti passivi, come accaduto al tempo della spartizione dell’Africa, sarebbe quantomeno sbagliato, in quanto oggi i paesi in questione conservano una certa autonomia d’azione.

Ciò che ha permesso l’inserimento di nuovi attori, come quelli precedentemente elencati, è stata l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003, strategia dettata dalla volontà dell’amministrazione Bush, di ridisegnare su scala globale l’egemonia americana e di creare i presupposti di un nuovo ordine in Medio Oriente. Al fallimento di questa strategia è seguito il disengagment promosso dall’amministrazione Obama che ha così permesso alle potenze regionali di affacciarsi sui nuovi teatri. La presenza statunitense rimane comunque massiccia nel Corno, una dimostrazione ne è sicuramente la base di Camp Lemonnier in Gibuti, e ad oggi, il loro principale obiettivo è quello di arginare l’ascesa di più attori concorrenti nell’area, la Cina su tutti.

La Cina, come già accennato nei capitoli precedenti, ha individuato nel Corno d’Africa uno snodo fondamentale per il suo nuovo progetto di espansione commerciale, conosciuto come la Nuova via della Seta marittima, e lo identifica come porta d’accesso al continente africano, del quale è diventata primo partener commerciale, superando proprio gli Stai Uniti già nel 2009. In questo senso vanno visti gli stretti contatti e numerosi accordi commerciali tra quest’ultima e l’Etiopia, e la costruzione, a Gibuti, della prima base militare cinese all’estero. Il principale motivo della presenza cinese rimane però quello di garantire la sicurezza della navigazione, in quanto mettere in sicurezza il commercio e l’area geografica è diventato, dal 2015, una questione di sicurezza nazionale, come delineato dal China Military Strategy white paper. Sia la Cina che le altre potenze regionali ed internazionali sono interessate alla zona, al fine di mantenere un elevato grado di sicurezza locale, regionale e globale. Quest’ultima viene messe in pericolo da gravi fattori principali quali: terrorismo, pirateria, migrazioni dovute a conflitti, carestie, governi dittatoriali. L’intenzione di Pechino non è quella di invadere e conquistare gli Stati, ma quella di controllarli economicamente, al fine di garantire la salvaguardia delle rotte commerciali e dei propri interessi economici.

La Russia, rispetto alle altre potenze internazionali appena citate, si trova a ricoprire un ruolo di minore importanza nella regione del Corno d’Africa. Questa zona era stata di fatto abbandonata al termine della guerra fredda, con il collasso dell’URSS, ma proprio negli ultimi decenni l’interesse russo sembra essere rinnovato. Non potendo puntare ad una

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strategia economica e politica simile a quella di Stati Uniti e Cina, Mosca ha cercato di indirizzare la propria azione puntando soprattutto su due settori: energia ed armi. L’obiettivo russo è quello di sviluppare una propria presenza imprescindibile in mercati di nicchia, come energia nucleare e armamenti appunto. Nelle intenzioni russe, il rinnovato interesse verso l’Africa e soprattutto verso il Corno va incontro a due precise esigenze: una di tipo economico commerciale e una di tipo geopolitico.

Per quanto riguarda la prima, Mosca vede nei mercati africani una fondamentale alternativa ai mercati europei e nordamericani, da cui era stata estromessa a seguito di sanzioni per i fatti avvenuti in Ucraina nel 2014. Per quanto riguarda la seconda, la costruzione di un hub strategico in una zona così importante permetterebbe alla Russia di avere un controllo indiretto sui traffici commerciali nell’area, e allo steso tempo gli permetterebbe di poter garantire una certa protezione ai propri interessi nel Mediterraneo orientale, si ricorda come già in precedenza evidenziato, l’accordo con il Sudan del novembre 2020, per la costruzione di un approdo militare a sud di Porto Sudan, e la realizzazione di aree industriali in Egitto, lungo il corso del Canale di Suez. Nonostante questa terza potenza globale non abbia ad oggi i mezzi per competere con le altre sue pari (Cina, USA), la sua principale intenzione, è quella di riassumere quella posizione assertiva, che rivestiva prima del dissolvimento dell’URSS, e riemergere come protagonista importante e da non trascurare, con il quale doversi confrontare anche nel Corno d’Africa.

Detto che il peso nell’area degli attori appena citati rimane forte e costante, al fine di poter comprendere in maniera completa le dinamiche della regione, è di fondamentale importanza spostare il focus del discorso sulle monarchie del golfo e sugli stati, come Turchia, Iran ed Egitto, che ad essi ed a tale area sono legati.

I rapporti che legano i paesi del Corno con quelli del Golfo negli anni sono stati abbastanza altalenanti. Tutto è iniziato nel 1973 con il boom petrolifero. In quell’occasione le monarchie del Golfo, hanno iniziato a sostenere le economie dei paesi emergenti dell’Africa orientale, prestando loro ingenti somme di denaro ai paesi arabi e non, in Africa. Gli anni ’90 hanno rappresentato un periodo di disimpegno da parte delle monarchie, soprattutto a causa dell’instabilità della regione ed interessati e coinvolti nelle tensioni orbitanti intorno al Golfo Persico, ed i conflitti presenti nella zona.

In questi ultimi anni la tendenza si è invertita nuovamente. Ciò che ha determinato questo nuovo cambiamento è conseguenza di alcuni sviluppi che ci sono stati in Medioriente, come

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la rivalità tra Iran e Arabia Saudita, e la spaccatura che si è creata tra Arabia Saudita, Emirati Arabi, Baharein ed Egitto da una parte, ed il Qatar dall’altra, con la formazione del così detto “quartetto arabo” composto da i primi quattro paesi citati. Infatti a giugno 2017 Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno interrotto i propri legami diplomatici e commerciali con il Qatar, accusando quest’ultimo di sostenere il terrorismo. L’elemento che oggi lega maggiormente queste due regioni, non è più, quindi, il legame storico bensì la necessità di acquisire posizioni in una zona strategica, il Corno d’Africa appunto. Nello stesso tempo, il Qatar è stato affiancato dalla Turchia nella gestione della geopolitica dell’area, non rimanendo così isolato nelle questioni di politica estera riguardanti il continente africano, ed il Corno d’Africa in particolare.

Se si analizzano con attenzione le dinamiche che regolano i rapporti tra tutti questi protagonisti regionali, si potrà notare che la competizione strategica nell’area in questione, interessa almeno tre blocchi. Il primo è rappresentato da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrain, il secondo dall’asse Qatar-Turchia ed infine il terzo blocco costituito dall’Iran.

La conferma della costituzione di tali blocchi è fornita, dalla crisi che sta vivendo lo Yemen dall’inizio degli anni duemila.

Lo Yemen può essere individuato come il terreno di scontro di questi blocchi, se non proprio scontro diretto, luogo dove si combatte una guerra per procura o “proxy war”.

Questo paese nella sua storia, è sempre stato individuato in modo molto chiaro, sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista etnico, meno dal punto di vista politico e religioso, anche se tutti i rivolgimenti che esso ha subito, sono stati causati da rivendicazioni economiche, sulle quali si sono innestate poi rivendicazioni politiche ed infine religiose. Lo Yemen fino al 22 maggio 1990, era diviso in due stati: a nord la Repubblica Araba dello Yemen, a sud la Repubblica democratica popolare dello Yemen.

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Figura 25: La Repubblica araba dello Yemen e la Repubblica popolare democratica dello Yemen – fonte: Wikipedia

La loro storia ha seguito lo stesso percorso fino al 1839, quando le varie casate locali che si sono alternate al potere sino ad allora, hanno subito l’ingresso nei territori da loro controllati, di una potenza coloniale: l’Inghilterra.

Essa infatti, seguendo le vicende che ruotavano attorno ai progetti di realizzazione del Canale di Suez, opera da quest’ultima comunque ostacolata, iniziò, allo scopo di assicurarsi delle piazze forti, da dove poter controllare e rendere sicure le rotte marittime percorse dal naviglio inglese diretto in India, a conquistare il porto di Aden, ed altri approdi lungo la costa orientale dello Yemen.

Il nord del paese rimaneva invece nelle mani dell’Impero Ottomano, presente nello Yemen già dal XVI sec.

Fino a tutto il XX secolo, i ceppi nobiliari yemeniti che si sono avvicendati alla guida del paese seguivano un ramo particolare dell’islam sciita, ossia il ramo zaiydita. Gli ottomani invece erano di confessione sunnita, ma questo elemento nella gestione del governo locale non costituiva un problema, poiché la nobiltà yemenita garantiva stabilità. Nel 1918, a seguito della a crisi dell’Impero ottomano, il Nord divenne un “imamato zaiydita” indipendente, mentre il Sud rimaneva sotto il controllo britannico come protettorato.

Il 1962 per il nord dello Yemen fu un anno chiave per gli sviluppi futuri del paese. Il 19 settembre di quell’anno venne a mancare l’imam Ahamad bin Yahya della casa regnante

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yemenita. Tale evento fu sfruttato da un gruppo di ufficiali nazionalisti yemenita, sostenuti dal presidente egiziano Nasser, per dichiarare, il 26 settembre 1962, la nascita della Repubblica araba dello Yemen. La neonata repubblica, sostenuta dall’Egitto di Nasser con contingenti militari, era vista come un pericolo dai regnanti al Saud, i quali temevano che gli ideali repubblicani e non confessionali, avrebbero potuto attecchire nelle zone di confine saudite, generando instabilità nel regno. Per questo sostennero le fazioni conservatrici filo saudite, in un clima di guerra civile e scontri armati. Tale situazione permase fino al 1967, quando a causa della sconfitta egiziana nella “guerra dei sei giorni”, Nasser fu costretto a ritirare i propri contingenti dallo Yemen del Nord.

Nello stesso periodo nel sud dello Yemen, in modo particolare nella regione di Aden, si stavano organizzando dei movimenti insurrezionali contro il protettorato britannico. Questo movimento, sostenuto sia dalle città del sud, che dalle tribù dell’interno, con il coinvolgimento di tutti gli strati sociali, pastori e contadini, compresi, prese il nome di Fronte di liberazione Nazionale.

Il 14 ottobre 1963, il Fronte di liberazione Nazionale dello Yemen, diede inizio alla guerra d’indipendenza dalla Gran Bretagna. Il conflitto ebbe termine il 29 novembre 1967 con la sconfitta dei britannici. Il Fronte di liberazione Nazionale divenne Partito socialista Yemenita (PSY).

Il 30 novembre dello stesso anno, nacque la Repubblica democratica popolare dello Yemen, di orientamento socialista marxista.

Anche in questo caso, l’Arabia Saudita diede inizio ad una politica assertiva ed interventista nei confronti della neonata repubblica, percepita come un grande pericolo, aggravato dal fatto che la Repubblica Araba del nord, aveva sostenuto il movimento insurrezionale del sud. Gli anni che vanno dal 1967 al 1990, sono anni che vedono sempre instabilità in entrambi i paesi, nel Nord si verificano scontri interni tra fazioni rivali, fino quando nel 1978 riesce a prendere il potere Alì Abdullah Saleh, di fede sciita zaiydita, come presidente della repubblica.

Nel sud invece si assiste ad una serie di interventi dell’Arabia Saudita, al fine di indebolire e mettere in difficoltà la repubblica socialista del sud.

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Come detto lo Yemen è sempre stato identificato, anche dagli stessi yemeniti come nazione, meno come stato, e questa situazione verrà ovviata alla fine degli anni ottanta, quando la scoperta di giacimenti petroliferi e di minerari al confine tra i due paesi, creò la necessità di sfruttamento comune di tali risorse. Si arrivò così nel maggio 1990 all’unificazione del paese, sotto il nome di Repubblica dello Yemen. Questo clima di proficua collaborazione fra le parti durò fino al 1993, quando a seguito di elezioni politiche, che videro l’affermazione dei partiti del nord, il Partito Socialista del sud iniziò a pretendere il governo delle regioni meridionali, dichiarando la secessione dal nord.

La guerra civile tra le due fazioni ebbe termine nell’aprile 1994, quando le truppe del nord conquistarono Aden, la capitale secessionista del sud. La repressione della rivolta fu guidata da Alì Abdullah Saleh, che vide così rafforzarsi il proprio potere personale ed il regime che lo sosteneva, fino al 2011. Il carattere personalista della presidenza Saleh, è evidenziato dal come egli, in funzione del tornaconto individuale, non esitò ad assumere posizioni filo irachene durante la prima guerra del golfo (1991) e filo americane durante la seconda (2003). Atteggiamenti questi non sempre di sostegno al regime yemenita.

Il 2011 fu un anno particolare per il mondo islamico, poichè si ebbero in quasi tutti i paesi arabi e arabi del nord Africa, movimenti di protesta popolare, tesi ad ottenere riforme istituzionali, partecipazione della popolazione alla attività politica, onestà e trasparenza nella gestione della cosa pubblica, naturalmente tutto ciò in osservanza degli usi e consuetudini mussulmani.

Tali movimenti divennero noti a livello globale come “Primavera Araba”, sostenuta dal movimento politico islamico “Fratelli mussulmani”, presente in modo particolare in Egitto, dove con Mohamed Morsi nel 2012, riuscì ad arrivare dopo elezioni democratiche, alla presidenza della repubblica egiziana.

Per lo Yemen questo periodo fu segnato da un governo Saleh molto duro e repressivo, capace di soffocare qualunque tentativo di protesta.

Nonostante questa politica repressiva sia nel nord del paese, che nel sud, si ebbero segnali di contestazione nei confronti dell’operato del presidente in carica.

Il periodo che va dalla fine della guerra civile del 1993/94, alle “primavere arabe” del 2011, per lo Yemen e per il presidente non fu un periodo di calma, ma per motivi diversi vide il riaccendersi focolai di crisi sia al nord che al sud del paese.

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Nel sud ripresero l’attività dei secessionisti nell’area di Aden, al nord arrivò al culmine la protesta della fazione degli Houthi.

Fino al 2004 questa fazione che si opponeva al presidente Saleh ed al suo regime corrotto e personalistico, era in realtà un partito politico fondato nel 1992 da un esponente di una antica e nobile famiglia yemenita di fede sciita zaiydita, Husayn al Houthi, chiamato Ansarullah (Partigiani di Dio). La tribù Houthi era stanziata nel nord ovest del paese, nella regione di Sad’a.

Gli obiettivi che perseguivano il partito Ansarullah ed il suo fondatore Husayn al Houthi, erano quelli di ottenere più rispetto da parte delle autorità centrali nei riguardi della fede da loro professata, non essere per questa discriminati, accesso alle cariche pubbliche, meno corruzione, e più onestà e trasparenza nelle istituzioni. Tutti temi questi che avevano creato una grande attenzione e seguito al leader politico, nonché un forte sentimento di partecipazione ed affetto popolare.

L’evento che portò all’affermazione ed al rafforzamento di Ansarullah, e ad una identificazione del partito con la famiglia Huthi, avvenne nel settembre del 2004.

In seguito all’invasione dell’Iraq da parte degli USA del 2003, Ansarullah ed Husayn al Huthi assunsero un atteggiamento critico nei confronti del governo Saleh, che invece si schierò su posizioni filo statunitensi. Ne scaturirono degli scontri tra le fazioni governative e quelle del partito dei Partigiani di Dio e della famiglia Huthi, che portarono alla uccisione di Husayn il 10 settembre 2004.

La morte di Husayn non portò, come avrebbe voluto la compagine governativa, ad un abbassamento dell’intensità dello scontro, ma ebbe esattamente l’effetto contrario, si ebbe la fusione di Ansarullah e il clan Huthi, che diventò un movimento insurrezionale antigovernativo, con il nome Huthi.

Il movimento gode del rispetto e del sostegno delle popolazioni del nord dello Yemen, per questo nel corso degli anni non si è indebolito ed è riuscito a tenere testa alla coalizione a guida saudita.

Gli anni che vanno dal 2004 fino al 2012, anno delle dimissioni di Saleh a favore del suo vice Hadi, vedono crescere le operazioni di guerriglia anti governative da parte degli Huthi

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e vedono crescere il sostegno popolare del movimento, sostenuti in modo particolare dalle tribù dell’interno.

In questo quadro si inseriscono gli effetti delle primavere arabe nei paesi islamici, non tanto per l’affermarsi dei Fratelli Mussulmani, quanto per il messaggio da loro trasmesso, che sprona ancor di più le richieste di trasparenza ed onestà fatte dal movimento alle istituzioni, fino ad arrivare alle dimissioni di Saleh a favore di Hadi.

La situazione all’interno dello Yemen a seguito di questi cambiamenti, non migliora le condizioni di vita della popolazione locale, tra le più povere a livello mondiale, e porta ad un risveglio di moti secessionisti nel sud del paese.

Il movimento Huthi, a capo delle proteste popolari causate dalla disastrosa interna, arrivò all’invasione prima pacifica, alla fine del 2014, della capitale San’a, e poi militare, nel gennaio 2015.

In seguito a tali eventi nel marzo 2015, si scatenò la reazione bellica delle monarchie del Golfo, le quali si unirono in una coalizione militare a guida saudita, di cui fecero parte Emirati Arabi Uniti, Baharein, Qatar, Egitto e Sudan.

La nascita di questa coalizione, ebbe un effetto non previsto da essa, e cioè il riavvicinamento tra Saleh e gli Huthi.

Questa nuova intesa non era di ordine ideologico, ma di ordine pratico, infatti da una parte c’era la necessità Huthi di non essere troppo isolati, dall’altra la volontà di Saleh di risalire sul palco scenico della politica yemenita, di cui lui è stato per quasi 40 anni protagonista. Il conflitto tra alterne vicende e sorprendenti cambi di coalizione, è ancora in atto.

La situazione attuale è molto complicata. Le fazioni sul campo ed in lotta fra di loro sono diverse e con alleanze variabili, specchio della nuova geopolitica nell’area dello stretto di Bab el Mandeb, e tra le due sponde del Mar Rosso, specchio anche di come nel conflitto nello Yemen confluiscano gli interessi degli attori regionali e locali.

Ad oggi, il presidente riconosciuto dalla comunità internazionale Abd Rabbih Mansur Hadi, si trova in Arabia Saudita in attesa che il conflitto si plachi, segno di debolezza e sfiducia

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