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CAPITOLO 3: GLI STATI DEL CORNO

3.1 ETIOPIA

Ad oggi l’Etiopia è una repubblica democratica federale. Essa infatti è costituita da 9 stati regionali, più due città autonome.

Gli stati regionali federali sono in ordine alfabetico: Afar, Amara, Benisciangul-Gumus, Gambella, Harar, Nazioni Nazionalità e Popoli del Sud, Oromia, Somali, Tigrè.

Le città autonome sono Addis Abeba (capitale dell’Etiopia) situata nella regione dell’Oromia, Dire Dawa posta tra le due regioni di Oromia e Somali.

Tutti gli stati federali sono stati creati in base al gruppo etnico più numeroso, tranne lo stato federale delle Nazioni Nazionalità e Popoli del sud, che è composto da 46 gruppi etnici differenti. La lingua ufficiale è l’Amarico.

La popolazione è così suddivisa: Oromo 34,4%, Amara 27%, Somali 6,28%, Tigrini 6,08%, Sidama 4%, è la tribù più numerosa dello stato federale delle Nazioni Nazionalità e Popoli del Sud.

Figura 12: Suddivisione in regioni dell’Etiopia – fonte: Wikipedia

Le confessioni religiose più diffuse in Etiopia sono: rito ortodosso etiopico, praticato dal 43,5% della popolazione, 33,9% della popolazione è di osservanza mussulmana, 19% della popolazione pratica altre confessioni religiose cristiane, il resto professa religioni africane.

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Da ciò si deduce come i 2/3 della popolazione etiope non è mussulmana. Il fattore religioso non costituisce elemento di instabilità al momento, ma con l’evolversi dei fatti, le differenze emergenti tra i vari orientamenti confessionali nel mondo sunnita, possono arrivare a divenire causa di conflittualità all’interno dei vari gruppi etnici presenti in Etiopia , come invece lo è già la composizione etnica della popolazione, che ha portato alla formazione di uno stato federale, proprio per poter rispettare ogni gruppo etnico, al fine di mantenere la situazione in equilibrio.

L’Etiopia rispetto agli altri stati del Corno D’Africa può essere considerato uno Stato relativamente stabile, con istituzioni abbastanza salde e desideroso di ergersi a guida e riferimento, per tutta la regione dell’Africa orientale.

La storia di questo paese ruota tutta essenzialmente intorno a due questioni fondamentali: la necessità di avere uno sbocco sul mare, di vitale importanza per l’economia etiope, ed i contrasti esistenti tra le varie etnie presenti, se ne contano infatti circa 80, in concorrenza fra di loro per vedere aumentare il loro proprio peso specifico nella definizione e nella direzione delle sorti del paese. Il gruppo dominante in Etiopia, fino all’indipendenza dell’Eritrea, era il tigrino, elemento maggioritario nella regione eritrea, che sommato ai tigrini etiopi, costituivano la maggioranza della popolazione nel vecchio stato, del quale mantenevano il controllo delle istituzioni politiche e militari.

Rispetto agli altri stati del Corno, l’Etiopia riesce a trovare una maggiore presenza nella storia. Ha avuto una lunga esperienza imperiale (1137-1974), intervallata da una breve parentesi coloniale, di cui l’Italia è stata a più riprese protagonista, terminata poi con la rivoluzione socialista del 1974.

La rivoluzione portò ad uno grande stravolgimento istituzionale, infatti venne deposta l’ultima dinastia imperiale, quella Salomonide, per lasciare spazio al Derg o Comitato, una giunta militare di stampo socialista marxista, guidata dal suo leader Menghistu.

Gli anni del Derg portano a grandi cambiamenti in Etiopia, infatti se fino a quel momento lo stato etiope era appartenuto alla sfera di influenza occidentale, ed era quindi visto come un importante punto di partenza, dal quale poter esercitare azioni di controllo per tutto il Corno d’Africa, con l’ascesa di Menghistu e l’avvento della rivoluzione socialista, si assistette al passaggio dell’Etiopia alla sfera di influenza sovietica.

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La volontà del Derg era quella di trasformare l’Etiopia dall’essere un impero, ad essere uno stato di matrice socialista.

Nonostante i cambiamenti apportati, il nuovo corso non riuscì a dare, attraverso riforme economiche e politiche, le risposte che il popolo etiope si aspettava. Il Derg, allora onde evitare nuovi rivolgimenti politici, con il supporto dell’URSS, spostò l’attenzione su due nuovi temi politico-militari: il nazionalismo pan-somalo sfociato nella guerra dell’Ogaden e il secessionismo eritreo.

L’Ogaden è un territorio esteso per circa 200.000 chilometri quadrati, esso è una regione per la maggior parte desertica, ad eccezione di alcune aeree fertili dove scorrono dei corsi d’acqua. La regione è abitata per lo più da pastori somali. L’irredentismo somalo identificava come “Somalia occidentale” la zona della città di Harar e Dire Dawa, così come le ampie porzioni di territorio comprese tra le province di Bale e Sidamo.

Figura 13. Ogaden, regione motivo di conflitto tra Etiopia e Somalia – fonte wikipedia.it

Dietro alle rivendicazioni somale non c’erano solo motivi di natura etnica, ma anche di natura economica.

Ciò che interessava realmente ai somali era la zona di Harerge, tra le più fertili di tutta l’Etiopia, ma soprattutto parte della linea ferroviaria che collegava Addis Abeba al porto di Gibuti e che passava per la città di Harar.

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Vista la relativa debolezza dell’Etiopia, nel luglio del 1977, ancora sconvolta dai rivolgimenti politici interni, l’esercito somalo varcò i confini etiopi con l’obiettivo di annettere l’intera regione dell’Ogaden e realizzare così il progetto della Grande Somalia. Gli ufficiali somali decisero di portare avanti un tipo di guerra non convenzionale, limitandosi a supportare la guerriglia dei ribelli somali del “Western Somali Liberation Front”, senza ottenere però i risultati voluti. Così, grazie all’intervento sovietico al fianco di Addis Abeba, nel marzo del 1978, i somali subirono una grave sconfitta che portò gravi conseguenze sia a livello economico, sia come perdita di vite umane.

La questione dell’Eritrea invece aveva radici più profonde, che risalgono al periodo di dominazione italiana. Dopo la seconda guerra mondiale la posizioni riguardanti lo stato eritreo erano abbastanza contrastanti, infatti la Gran Bretagna ne voleva la divisione tra Etiopia e il Sudan, l’Etiopia ne voleva l’annessione, ed infine gli eritrei ne reclamavano l’indipendenza. La soluzione adottata fu quella di porla temporaneamente sotto l’amministrazione britannica. Questa situazione durò fino alla decisione presa dall’ONU di federarla all’Etiopia, cosa che avvenne il 14 novembre del 1962, dopo la ratifica della risoluzione ONU, con voto espresso dall’assemblea legislativa eritrea, sottoposta a forti pressioni etiopiche.

L’obiettivo principale dell’Etiopia, oltre a quello dichiarato dall’Imperatore Hailè Selassiè di voler ricostituire lo stato sui vecchi confini precoloniali, era quello volersi di assicurare lo sbocco sul mare andando a sfruttare i porti eritrei, dopo il verificarsi di tali eventi, questo obiettivo venne raggiunto. Con la federazione dell’Eritrea all’Etiopia, iniziarono ad animarsi diversi gruppi di opposizione a questa nuova situazione politica, tra cui l’Eritrean Liberation Front (ELF), che diede inizio ad una forte guerriglia contro lo stato centrale, conclusasi solo nel 1988. Durante questi anni le fasi dello scontro furono alterne, più volte l’Etiopia si trovò in difficoltà, soprattutto a causa delle guerre civili interne, e della guerra nell’Ogaden contro la Somalia. Al termine del conflitto, non ci fu un vero e proprio vincitore, ma è importante sottolineare, come da lì a pochi anni l’Eritrea ottenne l’indipendenza 1991, ratificata ufficialmente nel 1993.

Con la riduzione del supporto sovietico e le crescenti pressioni interne per una maggiore democrazia, il Derg e il suo leader Menghistu nel maggio 1991, crollarono sotto la spinta dell’Ethiopian People’s Revolution Democratic Front (EPRDF) guidato da Meles Zenawi. L’EPRDF era formato da quattro partiti, ognuno espressione di altrettante etnie. Oltre al

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partito del leader, il Tigrayan People’s Liberation Front (TPLF) troviamo: l’Oromo People’s Democratic Movement (OPDM), l’Amhara National Democratic Movement (ANDM) e il Southern Ethiopian People’s Democratic Movement (SEPDM). Il TPLF rappresentava gli interessi dell’etnia Tigrai (6% della popolazione), mentre l’OPDM rappresentava l’etnia Oromo (34% della popolazione e l’ANDM rappresentava l’etnia Amhara (27% della popolazione)3.

Preso il potere, Meles Zenawi, di etnia tigrina, portò avanti una timida democratizzazione delle istituzioni, il suo progetto principale era quello di creare un’Etiopia che si basasse sul così detto “federalismo etnico”, caratterizzato da un grande decentramento del potere e dalla concessione di autonomie e libertà ai diversi gruppi etnici del paese.

Il “federalismo etnico” non portò ai risultati sperati, anzi, portò ad una accentuazione delle disuguaglianze tra le etnie, ma soprattutto favorì una competizione per la conquista del potere. Il tutto accompagnato da una grande crescita demografica ed allo scarseggiare delle risorse di base, soprattutto quelle legate al settore agro-industriale, questo mise alle strette Zenawi e l’EPRDF, i quali si trovarono di fronte al fallimento di tutti i loro programmi. Anche in questo caso, come qualche anno prima fece Menghistu, il malessere del popolo etiope venne incanalato nel nazionalismo e nella volontà di ricostruire una “Grande Etiopia”, a farne le spese furono i rapporti, già da tempo compromessi, con l’Eritrea.

Il motivo del contendere, questa volta, fu il villaggio di Badme, e più in generale la definizione dei confini nella regione del Tigray. Nel 1998 l’esercito eritreo occupò il villaggio, ritenendolo parte del proprio territorio, dando così l’inizio alle ostilità. Gli scontri si protrassero per due anni e si conclusero con il trattato di Algeri, firmato il 12 dicembre del 2000. Gli accordi prevedevano la formazione di una zona smilitarizzata di 25 km sita, per intero, nel territorio eritreo. A presidiarla venne posto il

3 Dati percentuali riferiti a Le due sponde del Mar Rosso

Figura 14. Villaggio di Badme posto al confine tra Etiopia ed Eritrea – fonte internzaionale.it

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contingente di caschi blu della United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea (UNMEE). La questione dei confini venne invece lasciata ad una commissione tecnica cui venne dato il compito di demarcare i confini, sulla base degli accordi del 1900, 1902 e 1908 tra l’amministrazione coloniale italiana e l’impero etiopico.

La commissione si espresse nell’aprile del 2002 assegnando il villaggio di Badme all’Eritrea. L’Etiopia inizialmente sembrò accettare il verdetto, salvo aprire un contenzioso con la commissione internazionale con l’obiettivo di ribaltare la situazione.

Figura 15. Rivendicazioni confinarie tra Etiopia ed Eritrea – fonte treccani.it

Nonostante i numerosi tentavi di abbassare la tensione nella zona, non si arrivò mai ad una situazione definitiva. Nel 2008 i caschi blu abbandonarono la zona cuscinetto prevista dal trattato di Algeri, provocando un innalzamento della tensione tra i due stati contendenti, i quali sono giunti ad una soluzione solo nel 2018, con la rinuncia da parte dell’Etiopia alla sovranità sul villaggio di Badme.

Alla fine del conflitto l’Etiopia oltre a dover prestare attenzioni alle crescenti turbolenze interne, si trovò a dover trovare un’alternativa in termini di sbocchi al mare. Il conflitto, infatti, aveva portato alla rottura di qualsiasi rapporto con l’Eritrea e di conseguenza anche il porto della città di Assab non era più uno sbocco al mare disponibile.

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La soluzione a questo problema venne trovata nel porto di Gibuti, il quale divenne il principale hub commerciale per tutta l’Etiopia.

Zenawi, come accennato prima, si trovò a dover affrontare, all’alba delle elezioni del 2005, una situazione interna sempre più tesa che vedeva crescere il consenso verso i partiti e i rappresentanti delle opposizioni. La risposta che venne data fu caratterizzata da una maggior controllo sulla vita pubblica, repressioni e arresti nei confronti dei leader dei partiti di opposizione.

Tutto questo portò l’EPRDF a presentarsi alle elezioni come unico partito portando quindi l’Etiopia ad essere un paese dalle tendenze sempre più autoritarie.

In questa difficile situazione interna Zenawi, come accaduto con la questione dell’Ogaden del 1977 e con l’Eritrea nel 1998, tentò di spostare nuovamente l’attenzione verso la politica estera puntando, sul rischio terrorismo islamico in Somalia.

La guerra civile che in quegli anni attanagliava la Somalia vedeva contrapporsi le corti islamiche, tra cui il gruppo islamico al-Shaabab, e il governo federale somalo. Il timore dell’Etiopia era che la grande instabilità di questo paese, e soprattutto le manovre eritree a favore di al Shaabab, potessero avere delle ricadute sull’intera regione del Corno e sfondare anche gli stessi confini etiopi.

La decisione fu quella di intervenire con l’esercito a partire dal 2006 a fianco della coalizione africana AMISOM (African Union Mision in Somalia) e degli USA.

L’intervento contro il terrorismo islamico somalo consolidò i rapporti con gli Stati Uniti, i quali vedevano l’Etiopia come regione strategica per il controllo delle rotte commerciali del Mar Rosso.

Questo, però, non ostacolò l’apertura dello stato etiopico ad una partenership molto discussa con la Cina. Pechino avviò quindi una politica basata sul principio di “soft power”, intervenendo tramite programmi di assistenza allo sviluppo, con aiuti finanziari e assistenza tecnica, sia mediante investimenti diretti, pubblici e privati in settori strategici per il Paese. L’Etiopia viene vista dalla Cina come uno stato relativamente stabile che offre energia elettrica e manodopera a basso costo, allo stato attuale dei fatti, si può affermare che il maggiore partner etiope sia proprio la Cina.

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Il motivo di questo avvicinamento va ricercato soprattutto nel fatto che gli Stati Uniti, soprattutto con quella che è stata l’amministrazione Obama, nell’investire negli stati del Corno d’Africa prestava molta attenzione alla “good governance”, utilizzandola come elemento discriminante al fine di fornire supporto economico, mentre i cinesi puntano molto di più sull’utilità che deriva dai rapporti economici, piuttosto che sulla corretta gestione politica.

Il sostegno all’economia proveniente dall’estero ha portato l’Etiopia ad avere, negli ultimi anni, un tasso medio di crescita del 10%.

Tale crescita interessa però solamente una piccola parte del popolo etiopico andando a marcare, in maniera sempre più netta, la differenza tra la ricchezza emergente e una base di povertà assoluta.

Al problema della iniqua distribuzione delle ricchezze, si è sovrapposto il problema della religione e più in particolare dell’Islam politico.

In Etiopia si possono trovare tre principali tipi di Islam: il primo è quello tradizionale autoctono sviluppatosi intorno agli insegnamenti sufi, il secondo è un islam normativo di stampo wahhabita tipico della penisola arabica, il terzo è un islam salafita radicale molto vicino allo jihadismo.

Il diffondersi delle correnti wahhabite ha portato ad una destabilizzazione delle comunità musulmane locali e delle relazioni che queste hanno con i cristiani. Questa base di instabilità si è tradotta in numerose proteste pacifiche alla base delle quali non c’era la richiesta di libertà di culto, già garantita dalla costituzione, ma la domanda di una maggiore rappresentanza politica.

Il Governo, facendosi trovare impreparato, ha risposto alle proteste con la violenza, provocando lo sdegno non solo della comunità internazionale ma anche della comunità musulmana.

Il peggioramento delle condizioni di vita, la siccità che nel 2016 ha colpito il popolo etiope lasciando senza acqua circa 10 milioni di persone, e le maggiori richieste di apertura democratica, hanno portato ad una serie di rimostranze, più o meno pacifiche, nei confronti del governo.

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Il punto di svolta c’è stato però quando il primo ministro Hailemariam Desalegn, erede politico di Zenawi, morto nel 2012, si è dimesso, dichiarando di voler aprire ad un periodo di riforme e di maggiore apertura democratica.

La volontà di cambiamento del popolo etiope si è manifestata con la nomina, il 2 aprile 2018 del primo ministro Abiy Ahmed. Personalità di spicco dell’etnia oromo, da giovane aveva partecipato alla lotta contro il regime comunista del Derg e di Menghistu e successivamente aveva prestato servizio presso l’esercito nazionale. È stato tra i fondatori dell’Agenzia etiope per la sicurezza delle reti di informazioni, da lui diretta tra il 2008 e il 2010, e Ministro delle Scienza e della tecnologia durante il governo di Desalegn.

La sua elezione come primo ministro, mostra chiaramente la volontà di cambiamento del popolo etiope e soprattutto la volontà di iniziare un periodo di riforme democratiche, con l’obiettivi di portare l’Etiopia ad essere lo Stato guida dell’intero Corno d’Africa.

Il suo mandato è iniziato con la concessione di una serie di amnistie e la liberazione di oppositori politici, ha proposto riforme economiche e sociali, ha denunciato l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza governativa, ma l’atto più importante e che segna, di fatto, il cambiamento di un’epoca, è stato il riavvicinamento con l’Eritrea, storico nemico, conclusosi cona la stipula del trattato di pace, firmato a Gedda il 9 luglio del 2018. L’importanza di questa accordo è storica perché segna il ripristino delle relazioni bilaterali tra Etiopia ed Eritrea ma soprattutto mette fine a venti anni di atroci conflitti. I due ex nemici si candidano a diventare il nuovo asse geo-economico della regione e rovesciare i precedenti schieramenti di alleanza.

Tale processo di avvicinamento ha visto come principali protagonisti non i paesi occidentali, che con il passare del tempo si sono sempre più allontanati da questi Stati, bensì i Paesi del Golfo, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita in primis.

I principali punti dell’accordo di pace riguardavano la cooperazione in materia di economia, sicurezza, difesa, commercio e investimento, e la demarcazione dei confini. Nonostante alcuni passi di avvicinamento siano stati effettivamente compiuti come la riapertura dell’aeroporto di Asmara alle linee aeree etiopi e il collegamento delle linee telefoniche tra i due Stati, i progressi avanzano lentamente, anche la questione dei confini non è stata definita e le trattative si svolgono con difficoltà.

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È importante evidenziare come questo processo di distensione e pace, sia verso l’interno, che verso l’esterno sia valso al primo ministro etiope il premio Nobel per la pace 2019. L’elezione di Abiy Ahmed ha avuto grandi ripercussioni non solo in politica estera ma anche sugli equilibri interni del paese e in seno al principale partito etiope, l’EPRDF. Infatti se fino a quel momento il protagonista nel panorama politico era stato il Tigray People’s Liberation Front (TPLF), rappresentante dell’etnia tigrina, con il nuovo primo ministro, il TPLF viene relegato ad un ruolo marginale, grazie al patto siglato tra: il partito Oromo, dello stesso Abiy Ahmed e l’Amhara National Democratic Movement (ANDF). Questa variazione degli equilibri interni ha portato non pochi problemi al nuovo governo, in tal senso vanno visti l’attentato fallito nei confronti di Ahmed del giugno del 2018 e il tentativo di colpo di Stato del luglio del 2019.

La principale sfida del nuovo corso politico è quella di rivedere i termini del federalismo etnico introdotto negli anni ’90 dal TPLF. Il motivo va trovato nel mutamento degli equilibri tra le etnie del paese, e soprattutto nel crescente peso acquistato del partito Amhara, da sempre schierato verso la creazione di un forte stato centrale con forti limitazioni per le autorità regionali, convinto che la creazione di sub stati su base etnica e l’attribuzione di poteri esclusivi di gestione del territorio alle amministrazioni locali, abbiano minato l’unità nazionale e minacci la stessa integrità territoriale dell’Etiopia. Così facendo, i dirigenti politici oromo e amhara hanno voluto dimostrare ai propri elettori la volontà di distaccarsi e rendersi indipendenti dal TPLF. I timori di un eccessivo ridimensionamento del partito tigrino non sono limitati all’elite politica, ma sono condivisi da buona parte della società del Tigray. Questo senso di marginalizzazione ha creato un clima di tensione crescente tra il governo della regione e il governo federale.

La situazione è totalmente degenerata agli inizi di novembre 2020, quando l’esercito di Addis Abeba ha varcato i confini della regione del Tigray per difendere una base dell’esercito federale dall’attacco dell’esercito tigrino.

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Figura 16. Tigray, regione dell’Etiopia interessata dagli ultimi conflitti – fonte africarivista.it

Questo è stato l’ultimo atto che, secondo le parole del primo ministro Abiy Ahmed, ha portato al superamento della “sottile linea rossa”. Come appena descritto, i rapporti tra il governo federale e il TPLF appaiono compromessi e molto tesi da anni. Prima di tutto c’è l’inconciliabile differenza di posizione su quale debba essere il progetto di sviluppo per il futuro dell’Etiopia. Infatti se da una parte troviamo la prospettiva di federalismo etnico- linguistico fortemente voluto dal TPLF e ratificato dalla Costituzione del 1994, dall’altro troviamo la prospettiva del primo ministro, il quale propone di superare il modello federale per tornare ad avere un’Etiopia più unita, con un potere centrale più forte. In secondo luogo

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