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Nuovi scenari nell'area dello stretto di Bab El Mandeb

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

ACCADEMIA NAVALE

Corso di Laurea Magistrale in Scienze Marittime e Navali

TESI DI LAUREA

IN ELEMENTI DI INTELLIGENCE

NUOVI SCENARI NELL’AREA DELLO STRETTO DI BAB EL MANDEB LAUREANDO: G.M. Marco MATTEI

RELATORE T.V. Oscar ALTIERO

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO 1: CENNI STORICI ... 6

1.1 IL CORNO D’AFRICA PRIMA DEL COLONIALISMO ... 6

1.2 APERTURA DEL CANALE DI SUEZ ... 9

1.3 SCENARIO GEOPOLITOCO AL TERMINE DEL COLONIALISMO ... 17

CAPITOLO 2: RILEVANZA INTERNAZIONALE DELLO STRETTO DI

BAB EL MANDEB ... 21

2.1 ANALISI DELLO STRETTO DI BAB EL MANDEB COME VIA DI COMUNICAZIONE MARITTIMA E DI SCAMBIO COMMERCIALE ... 21

2.2 CANALE DI SUEZ: ROTTA DI TRAFFICI MARITTIMI TRA OCCIDENTE ED ORIENTE, LUOGO STRATEGICO NELLA GEOPOLITICA MONDIALE ... 27

CAPITOLO 3: GLI STATI DEL CORNO ... 37

3.1 ETIOPIA ... 37

3.2 ERITREA ... 48

3.3 GIBUTI ... 54

3.4 SOMALIA ... 63

CAPITOLO 4: INFLUENZA DELLE POTENZE GLOBALI, REGIONALI

E MONARCHIE DEL GOLFO, NEL CORNO D’AFRICA ... 73

4.1 STATI UNITI, CINA, RUSSIA, YEMEN, KSA, EAU, QATAR, TURCHIA, IRAN. .... 73

CAPITOLO 5: POSSIBILI SCENARI FUTURI... 97

CONCLUSIONI ... 103

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INTRODUZIONE

Le ragioni che rendono l’area dello stretto di Bab el Mandeb, che in arabo significa Porta delle Lacrime, una delle zone più “calde” del mondo, sono molteplici, complesse e di varia natura. Questo braccio di mare infatti, insieme allo stretto di Malacca e lo stretto di Hormuz è uno dei Choke Point (collo di bottiglia) più importanti del globo terrestre.

In questa porzione di pianeta si intrecciano gli interessi delle potenze globali, quali USA, Cina, Russia, delle potenze macro regionali come KSA, EAU, Qatar, Turchia, Egitto, Iran, e delle potenze regionali come Etiopia, Eritrea, Sudan, Somalia, Gibuti.

Tali interessi scaturiscono da una interazione di fattori locali quali i contenziosi residui del colonialismo, le questioni relative ai confini tra gli stati, e addirittura, tra i vari gruppi etnici all’interno dello stesso stato, conflitti religiosi, terrorismo islamico (corti islamiche, Al Shabaab, stato islamico), desiderio di alcuni paesi ad elevarsi a potenze regionali, come Etiopia ed Egitto, la quale Etiopia basandosi su una vecchia tradizione statuale nella sua accezione più ampia, aspira ad una posizione di egemonia regionale.

Questa situazione porta, a seconda di come si combinano le aspirazioni, a posizioni di vantaggio in loco dei vari protagonisti, ad alleanze variabili, che spesso non rispecchiano quelle teoriche di partenza dovute ad equilibri maturati in precedenza.

Le influenze che arrivano dall’esterno al fine di poter manovrare nel Corno d’Africa, sono di varia natura: economica, come il sostegno della Repubblica Popolare della Cina nei

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confronti dell’Etiopia e Gibuti, discorso che vale anche per la Turchia e il Qatar a favore della Somalia, in cambio poi di porti e basi militari.

Aiuti economici arrivano da parte degli EAU nei confronti dell’Eritrea e del Somaliland, al fine di ottenere posizioni privilegiate nell’uso dei porti eritrei di Massua e Assab e Berbera nel Nord Ovest della Somalia, utili oltre che per scopi commerciali, anche come basi di partenza per le operazioni militari emiratine nello Yemen, e comunque per avere garantita una presenza militare nella zona dello stretto di Bab el Mandeb.

Il quadro si completa con l’affermazione di Gibuti come hub militare per: USA, Francia, Cina, Italia, Giappone ed a breve per KSA e EAU.

A questo va aggiunta la costante tendenza delle Monarchie del Golfo ad avere un certo controllo degli eventi in questa parte di Africa Orientale, al fine di rendere sicure le acque dello stretto di Bab el Mandeb e del golfo di Aden, dove passano milioni di barili di petrolio necessari ad alimentare i sistemi economici di tutto il mondo.

Tale esigenza di mantenere sotto controllo questi bracci di mare, spiegano anche la guerra combattuta per procura nello Yemen tra, KSA, EAU, da una parte e ribelli Houti sostenuti dall’Iran dalla altra, conflitto nel quale si innesta anche la lotta fra separatisti yemeniti e lealisti governativi dello Yemen, e non ultimo la lotta contro i qaedisti localizzati nell’entroterra del paese, che come ricordiamo sia stato uno dei luoghi di transito e permanenza di Osama bin Laden.

Dal quadro della situazione così tratteggiato, se ne ricava un’immagine del Corno d’Africa in un equilibrio instabile, mantenuto al prezzo di alleanze fra i protagonisti locali, dettate più dalla volontà di raggiungere un vantaggio nel breve termine, piuttosto che un vantaggio strategico nel lungo termine. A ciò va aggiunta l’intenzione delle potenze mondiali a non lasciarsi coinvolgere direttamente in una serie di conflitti locali di bassa intensità militare, ma comunque costosi in termini politici ed economici.

La politica di questi ultimi quindi, tende a mantenere uno status quo molto precario, orientato a non fare emergere troppo un attore nei confronti dell’altro, cercando così di mantenere una situazione di equilibrio “instabile” permanente. Situazione questa, che affonda le sue radici nel passato storico recente e lontano dei paesi appartenenti al Corno d’Africa e al Corno d’Africa allargato, fatto di conflitti etnici e interessi politici legati al raggiungimento di una

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supremazia locale, che ancora ostacola la maturazione di condizioni sociali ed economiche tali da avere uno sviluppo stabile e duraturo nell’area.

Conflitti etnici che periodicamente riemergono, soprattutto quando l’equilibrio “instabile” raggiunto, sembra volgere a favore di un attore locale, come si sta verificando in questo ultimo lasso di tempo in Etiopia, dove il TPLF (fronte popolare per la liberazione del Tigray) espressione della classe dirigente dello stato federale del Tigray, sta guidando una rivolta contro il governo centrale guidato dal premier Abiy Ahmed, di etnia Oromo.

Questi violenti scontri sono dovuti al fatto che Abiy Ahmed ed il governo federale promuovono il rafforzamento dello stato etiope per arrivare ad una Grande Etiopia, dove l’elemento unitario prevalga sulle spinte autonomiste locali, sponsorizzate invece e soprattutto dal governo locale del Tigray.

A ciò va aggiunto il desiderio mai del tutto celato da parte dell’etnia tigrina, di voler riassumere quel ruolo centrale nella politica etiope che essi hanno sempre avuto nel corso degli anni, e che ora non hanno più.

Al momento la situazione in loco, dopo i primi attacchi riconducili a truppe locali tigrine, vede prevalere le truppe federali di Abiy Amed, che sembra godere dell’appoggio delle altre etnie che compongono lo stato federale etiope.

La situazione attuale vede crescere la volontà degli stati federali di arginare la volontà tigrina di riassumere il potere, o almeno di aumentarne il suo peso specifico all’interno dello stato etiope.

Da menzionare il tentativo del TPLF di coinvolgere negli scontri l’Eritrea, lanciando sulla capitale Asmara dei razzi. Evento questo che sembra non aver raggiunto lo scopo voluto, ma anzi vede crearsi una collaborazione sul campo di Etiopia ed Eritrea.

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CAPITOLO 1: CENNI STORICI

1.1 IL CORNO D’AFRICA PRIMA DEL COLONIALISMO

Il Corno d’Africa, come precedentemente illustrato, costituisce al giorno d’oggi una delle aree di maggior rilievo, dal punto di vista geopolitico, a livello mondiale.

Questa penisola che si trova nella parte orientale dell’Africa, a causa della contiguità ad una delle zone più calde del mondo, ovvero lo stretto di Bab el Mandeb, rappresenta il terreno di incontro ma spesso anche di scontro tra le più grandi potenze mondiali e sistemi socio economici e culturali molto diversi fra loro.

Per capire a pieno ciò che verrà in seguito sviluppato, è necessario andare a descrivere quella che è stata la storia di questa zona, e quali sono stati gli attori principali.

Se si parla di Corno d’Africa non si possono certo non menzionare due importantissimi protagonisti ovvero: Etiopia ed Eritrea.

Sappiamo che la regione etiope è abitata dall’uomo fin dai tempi della preistoria, e che successivamente è stata attraversata da popoli provenienti dal Medio oriente come i Sabei e gli Ebrei, ma il primo regno importante di cui si abbiano notizie certe è quello di Axum. Sviluppatosi fra il IV e il I secolo a.C. il regno nacque probabilmente dall’unificazione di regni minori e in seguito si iniziò ad espandere. Venne coniata una propria moneta e gli storici del tempo lo annoverano tra le grandi potenze accanto all’Impero Romano, alla Persia ed alla Cina.

Nella prima metà del IV secolo il regno divenne cristiano, e proprio in questo periodo conobbe la sua massima espansione, riuscendo a controllare, Etiopia, Eritrea, Sudan settentrionale, Egitto Meridionale, Gibuti, Somalia occidentale, Yemen e Arabia Saudita meridionale. In questo lasso di tempo il regno di Axum giunse a confinare con l’Impero Romano, che controllava l’Egitto settentrionale.

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Figura 1. Carta rappresentante l’estensione del Regno di Axum – fonte wikipedia.it

Intorno all’anno 1000 il regno di Axum di sfaldò completamente dando inizio ad un periodo oscuro della storia dell’Etiopia, di cui si sa pochissimo e che termino nel XII secolo. Infatti proprio alla fine dello stesso, venne fondato un nuovo regno con una nuova dinastia e lo stato prese il nome di Impero Etiope.

Il nuovo impero controllava un territorio che comprendeva le regioni di Tigrè, Amhara e Shewa.

A partire dal XV secolo ebbero inizio i primi contatti tra gli imperatori etiopi e i regnanti europei, ma solo nel secolo successivo si stabilirono i primi accordi continuativi tra l’Impero di Etiopia e il Regno del Portogallo.

Tali contatti portarono ad un nuovo tentativo di espansione del mondo cristiano in questi luoghi tramite i missionari gesuiti, i quali riuscirono a far costruire chiese, ponti ed altre opere di pubblica utilità.

Tra la metà del XVIII secolo e il 1855, l’Etiopia visse un periodo di isolamento che terminò però con l’apertura del canale di Suez nel 1869.

L’apertura di tale canale diede così inizio in questi territori al colonialismo, vedendo come protagoniste inizialmente la Gran Bretagna e successivamente anche l’Italia.

La storia dell’Eritrea, come di fatto anche il presente, è molto legata allo stato etiope. Abitata fin dall’antichità, forse da popolazioni imparentate con i Pigmei, il Paese entrò a far parte

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del Regno di Axum ed era proprio qui, in maniera più specifica, presso il porto di Adulis che avvenivano i movimenti e gli scambi di una elevata quantità di merci.

Figura 2. Cartina fisica dell’Eritrea – fonte Sapere.it

Come il regno di cui faceva parte, conobbe un periodo di grande prosperità, divenendo uno dei maggiori centri di smistamento di tutto il Mar Rosso, grazie ai frequenti traffici con l’Impero Romano e i vicini egiziani.

La conquista araba dell’Egitto tagliò fuori il Regno di Axum e quindi l’Eritrea da ogni contatto con il resto del mondo. Poco tempo dopo, mentre le isole Dhalak e Massaua passavano prima in mano araba e poi yemenita, gli altipiani dell’interno caddero sotto il controllo dei sovrani etiopici. Sembra che la dinastia salomonide (prima dinastia del nuovo impero etiope) nel 1270 esercitasse un certo controllo sui capi dei centri costieri a nord e a sud di Massaua, e che a intermittenza occupasse anche quest’ultimo porto, dove le navi portoghesi approdarono nel 1513.

Nel 1577 i turchi occuparono Massaua ed espulsero i missionari gesuiti dall’Etiopia, provocando la chiusura della regione agli europei. Solo circa 300 anni dopo raggiungevano la zona i primi missionari lazzaristi francesi e italiani.

Nel 1866 la Turchia cedeva l’amministrazione di Massaua all’Egitto a fronte del pagamento di in tributo annuo. Poco dopo gli egiziani provarono ad impadronirsi dell’intera regione

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scontrandosi però con l’esercito etiope di dell’imperatore Giovanni IV che li sconfisse, segnando l’uscita definitiva dal teatro locale dell’Egitto.

Con l’apertura del canale di Suez, questa regione attirò l’attenzione delle grandi potenze e conobbe allo stesso modo dell’Etiopia, sia le mire espansionistiche della Gran Bretagna, che dell’allora Regno d’Italia.

Ovviamente il Corno d’Africa non comprende solamente Etiopia ed Eritrea ma anche Somalia, Gibuti e Sudan i quali ruoli iniziano ad avere una maggiore rilevanza al termine del colonialismo.

1.2 APERTURA DEL CANALE DI SUEZ

L’interesse dell’uomo verso il mar Rosso risale sino ai tempi dei faraoni d’Egitto, muovendosi tra la leggenda ed i fatti realmente accaduti.

La particolare collocazione geografica di questo mare, lo ha reso nel corso del tempo, più che una barriera o un ostacolo, una via di comunicazione ed un luogo di scambio. A nord la continuità con la penisola arabica, a sud lo stretto di Bab el Mandeb, costituiscono delle vie di transito naturali tra due aree geografiche diverse: la penisola arabica, a suo tempo punto di arrivo e di contatto con il sub continente indiano, l’estremo oriente, e l’africa sub sahariana.

Sin dal 1850 A.C. il faraone Sesostris III° della XII^ dinastia, tentò di aprire una via d’acqua est-ovest che unisse il Nilo al Mar Rosso.

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Allo stesso modo anche, il faraone Ramsete II° nel 1300 A.C. aprì una via di collegamento tra il fiume ed il mare, via che però nel tempo si interrò a causa delle piene del Nilo. Il tentativo fu ripetuto dal faraone Nekao II (609-594 A.C.), con il “Canale dei Faraoni” che avrebbe dovuto collegare Wadi Tumilat nei pressi della foce del Nilo ed il Mar rosso. L’opera però si presentò subito troppo difficoltosa da realizzare, così fu il faraone stesso a dare disposizione a dei navigatori fenici di trovare un passaggio verso il Mar Rosso, e si dice che questi ultimi la trovarono circumnavigando l’Africa.

Fu lo storico greco Erodoto che per primo testimoniò lo scavo e la realizzazione del canale da parte di Dario I° di Persia, evento confermato anche da iscrizioni rinvenute su delle steli commemorative poste sulle rive del Nilo. Su di esse veniva ricordato come il Re di Persia, partendo dall’Egitto navigò fino al regno di Saba (comprendente allora Etiopia e Yemen) attraversando il Mar Rosso.

L’attenzione riservata al canale di collegamento da parte dei faraoni d’Egitto era tale che lo sottoponessero ad opere di manutenzione e efficentazione del percorso continue, sia per scopi commerciali che militari. Il faraone Tolomeo II°, continuando su questa linea, fondò lungo le sponde del Mar Rosso una serie di città e punti di approdo, come Berenice nell’Egitto meridionale, e Berenice Epi Dire nell’attuale Eritrea meridionale. Oltre a queste opere portuali e città, egli sviluppò una rete di collegamento terrestre tra questi e siti, e tra questi ultimi e l’interno del paese, affinchè si potesse sviluppare il commercio in tutta l’area, e rendere facile lo spostamento di contingenti militari.

Questa politica di mantenimento e potenziamento, fu portata avanti anche sotto la spinta dell’Impero Romano. L’imperatore Traiano nel 106 d.C. fece costruire l’Amnis Traianus e potenziò la flotta del Mar Rosso al fine di proteggere le vie commerciali ed i vecchi porti già esistenti. Il canale ebbe vita fino all’anno 842 d.C., quando il califfo Abu Giafar durante un periodo di conflitti interni al mondo arabo, al fine di evitarne l’uso da parte di nemici, fece interrare ed ostruire il canale.

Dopo la conquista dell’Egitto da parte degli Arabi nel VII sec. D.C., il Mar Rosso divenne per così dire un “lago arabo”. Essi infatti ne controllavano entrambe le sponde e tutti i traffici commerciali che vi avvenivano. Dal VII sec. d.C. al XII sec. d.C., nell’area dell’attuale Etiopia ed Eritrea si assistette così al declino del regno axumita, ed alla conseguente perdita di influenza dell’area in quel contesto regionale.

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Nella regione si susseguirono al potere casate di origine autoctona, tra le quali quella Salomonide, da cui ebbe origine il futuro imperatore di Etiopia, Hailè Gebresilassiè. I signori locali durante questo periodo non mostrarono mai troppo interesse verso le vie d’acqua, ma si occuparono sempre con maggiore attenzione a ciò che accadeva all’interno dei loro territori, le coste del Mar Rosso rimasero così sotto il dominio arabo.

Della riapertura di un canale di collegamento con il Mar Rosso, se ne riprese a parlare dopo che Vasco de Gama circumnavigando l’Africa, aprì la via da sud per le indie orientali, così i mercanti veneziani vedendo diminuire l’importanza di quei porti ed il volume d’affari ad essi legato, proposero perciò la realizzazione della gigantesca opera, non ottenendo però alcun risultato.

Di questa possibilità se ne parlò in ambiente ottomano, per tutto il Cinquecento fino al 1568 quando il gran visir Mehmed Pascià Sokollu prese in considerazione l’idea senza però procederne alla realizzazione. Durante tutto il XVI sec. si assistette ad una crescita degli interessi portoghesi nel Mar Rosso, orientati ad usare i porti ivi dislocati come basi di appoggio e di scambio merci da e verso l’estremo oriente, interessi che cozzavano contro quelli degli Ottomani che perseguivano invece la supremazia su quelle acque, soprattutto per colonizzare lo Yemen, dominio questo che durò fino al 1800.

Durante questo periodo di dominio turco si assistette ad un lento declino delle città, dei porti e delle attività commerciali ad esse connesse. Declino dovuto a metodi di gestione repressivi che non favorivano la circolazione degli uomini e merci.

Si riprese a parlare dello scavo che unisse i due mari e non più del Nilo con il Mar Rosso, con l’avvento delle campagne napoleoniche per la conquista dell’Egitto. Napoleone Bonaparte venne a conoscenza dei carteggi elaborati dal fisico e matematico tedesco Liebniz, presentati nel 1670 a Luigi XIV. Egli li fece così rielaborare dai suoi ingegneri, i quali però lo sconsigliarono di proseguire con il progetto, poiché avevano calcolato che ci fosse un dislivello di 10 mt tra i due mari, fatto questo che avrebbe richiesto la costruzione di un costoso e difficile da realizzare sistema di chiuse, a causa di ciò il progetto venne abbandonato.

Il primo passo verso la realizzazione di questo grande opera, fu compiuto nel 1833, quando l’imprenditore francese Prosper Enfantin riuscì a strappare ad uno scettico vice re d’Egitto,

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Mehmet Alì, l’assenso all’approvazione del progetto, partì così una campagna di raccolta fondi per costituire una società per lo studio e la realizzazione del progetto finale.

A ciò si arrivò nel 1846 con la costituzione della “Società di studio per il canale di Suez”, che in seguito ad un accurata campagna di rilevazione topografica, stabilì che il dislivello tra i due mari era trascurabile, la costruzione delle costose chiuse era quindi scongiurata, ed i costi si riducevano, rimaneva così da valutare allora il non trascurabile problema dell’attraversamento del canale, che poteva essere compiuto solo da navi a vapore, mentre in quel periodo la maggior parte delle navi veniva spinta dalla propulsione velica. Il tonnellaggio disponibile per le navi a vapore ai fini commerciali, era limitato dalla quantità di carbone stivato necessario per la navigazione, risultava allora più conveniente usare vascelli oceanici a vela pluri alberi come i “clipper”. Tale limite fu superato da lì a poco dal migliorato rendimento raggiunto dalle macchine a vapore. L’avvento e lo sviluppo di tale sistema propulsivo segnò l’inizio del declino del trasporto delle merci a vela.

Al termine degli studi di fattibilità dell’opera fu costituita da Ferdinand de Lesseps, la “Società universale del canale marittimo di Suez”, che si sarebbe occupata della realizzazione del canale. Questa società per il 50% era controllata da un azionariato popolare francese (più di 20000 azionisti), il 46% era controllato dallo stato egiziano, il restante 4% azionariato diffuso. La scelta del progetto da seguire fu ostacolata dall’Inghilterra, che male vedeva la realizzazione di una via d’acqua che potesse danneggiare i propri interessi commerciali, infatti essa proponeva la costruzione di una linea ferroviaria, che riprendendo un’antica via carovaniera, attraversasse il deserto, congiungendo così il Mar Mediterraneo con il Mar Rosso. Tale soluzione non fu gradita dal vice re d’Egitto Said Pascià, il quale voleva uscire dall’orbita di influenza inglese, già potenza mondiale nei commerci e nel campo militare, ed affidò definitivamente la realizzazione alla società franco-egiziana. Lesseps decise a questo punto di seguire il progetto dell’ingegnere alto atesino Luigi Negrelli, allora di cittadinanza austro ungarica, che risultava il più pratico ed economico da eseguire. Al Negrelli venne affidata la direzione dei lavori, cosa che non potè portare avanti poichè gravemente malato. Nel 1859, seguendo il progetto di Luigi Negrelli, iniziarono i lavori di scavo e costruzione. Servirono 1.000.000 di operai e 125.000 morti, per movimentare i 75.000.000 di metri cubi di roccia e sabbia, necessari alla realizzazione del canale, che fu inaugurato il 17 Novembre 1867.

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Il canale, mantenendosi sempre al livello del mare, era lungo 163 km, collegando Porto Said, sul Mar Mediterraneo, e Suez sul Mar Rosso, con una profondità di 8m, una larghezza sul fondo di 22m ed in superficie di 53m. Il giorno dell’inaugurazione fu attraversato da 80 navi, di cui almeno 50 militari appartenenti ai paesi invitati alla cerimonia.

Questo dato dimostra in modo inequivocabile l’importanza strategica del canale, a prescindere dall’interesse economico. Un “choke point” ovunque si trovi, costituisce sempre un polo catalizzatore di interessi, tra i quali l’emergente volontà degli stati per affermare il proprio “potere marittimo”, nell’accezione moderna del concetto, volontà espressa sia dalle “talassocrazie”( USA e Gran Bretagna), sia dalle potenze che esprimono una egemonia più spiccata sulla terra( Russia, Germania, Cina).

Tale concetto si può così esprimere molto sinteticamente nell’essere presenti nei punti nevralgici del globo terrestre, con assetti militari o con imprese commerciali capaci di farsi interpreti delle realtà locale, dalla quale comunque ricavare e fornire informazioni sulla situazione locale degli scambi commerciali, e di ricavare così gli orientamenti geostrategici in loco.

Un evento di importanza cruciale, che evidenzia come questa linea di comportamento sia tenuta dalle potenze marittime in special modo, e mondiali in senso generale, si è verificato nel 1875 quando, a causa del dissesto finanziario dello stato egiziano, l’Inghilterra rilevò le quote di partecipazione di quest’ultimo nella società che gestiva il canale. Così senza compiere atti politici o azioni militari eclatanti, che avrebbero potuto comunque alterare l’equilibrio mondiale all’epoca, l’Inghilterra si trovava di fatto ad essere il vero gestore del canale di Suez, del quale aveva sempre avversato la costruzione, temendo che da esso potessero derivare danni alla posizione dominante sui mari che ella aveva.

Il regime giuridico che regolamentava l’accesso ed il flusso di naviglio mercantile e militare nel canale di Suez, fu sancito dalla conferenza di Costantinopoli del 1888.Come voluto in passato da Said Pascià al rilascio dell’approvazione dei lavori di scavo e costruzione del canale, il canale veniva considerato zona neutrale, poteva essere attraversato da qualsiasi tipo di naviglio, anche militare non considerato pericoloso per l’Egitto.

Nel corso degli anni che vanno dalla presentazione del progetto, e la costituzione della società di realizzazione dell’opera, fino all’anno di apertura ufficiale del canale (17 Novembre 1869), si alternarono al governo dell’Egitto, che aveva rilasciato la concessione

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di gestione dell’opera alla Compagnia del Canale di Suez stessa, della durata di 99 anni, governatori che assunsero posizioni ambigue nei confronti delle potenze europee interessate allo scavo del canale, manovrati soprattutto dall’Inghilterra, la quale assunse una serie di posizioni legali e scientifiche, al fine di ostacolare l’opera, in funzione anti francese.

Il 19 Marzo 1866 arrivò la firma ufficiale dei trattati da parte del Sultano di Costantinopoli sostenuti dell’allora reggente dell’Egitto Ismail Pascià. Come detto, il regime giuridico sancito dalla conferenza di Costantinopoli, riprendeva i principi enunciati dal primo promotore egiziano dell’apertura del canale, Said Pascià, che voleva fosse di libero accesso, neutrale, senza limitazioni all’accesso proposte o effettuate da alcuno.

L’apertura del canale nel 1869, rappresentò per, gli stati europei una sorta di via libera alle loro mire espansionistiche in Africa, rendendola così più facilmente raggiungibile, in special modo la parte orientale, che grazie all’apertura di questa nuova via d’acqua diventava un nuovo territorio da colonizzare e sfruttare. A rendere evidente l’enorme portata innovativa del canale, basti ricordare che prima della sua apertura le merci venivano trasportate via terra, dopo che erano state sbarcate da una parte sulle sponde del Mediterraneo e dall’altra sulle sponde del Mar Rosso. L’apertura del Canale di Suez, dando inizio ad un nuovo ciclo di colonizzazioni da parte degli stati europei, attirò l’attenzione del Regno d’Italia, che ripose i propri interessi in modo particolare sulla baia di Assab. Essa infatti avrebbe potuto costituire un punto di partenza per una penetrazione italiana nelle zone interne dell’Africa Orientale.

Questa nuova situazione geopolitica, determinata dalla realizzazione di questa grande opera, favoriva le politiche espansionistiche in nuovi territori, in precedenza difficilmente raggiungibili, da parte degli stati europei.

Si assistette così allo scatenarsi di una guerra diplomatica tra Francia, Inghilterra, Germania, al fine di accaparrarsi i territori migliori. Vista però la natura desertica della regione, la scarsità delle popolazioni, che vivevano per lo più di pastorizia, le difficili condizioni climatiche al loro interno, l’attenzione fu rivolta soprattutto alle coste e quindi ai porti esistenti o a quelli che lì sarebbero potuti nascere, e che dal momento dell’apertura del canale di Suez assumevano fondamentale importanza, sia come scalo merci sia come punto di rifornimento per le navi a vapore.

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Nel 1869 ebbe inizio così l’attività coloniale italiana, non direttamente, ma per interposta persona. Fu infatti Giuseppe Sapeto che acquistò, per la compagnia di navigazione Rubattino, la baia di Assab, da due signori locali. Ad essa subentrò nel 1882 il regno d’Italia. Seguì poi nel 1885 l’acquisto della città portuale di Massawa. Da lì iniziò la penetrazione italiana sistematica verso l’entroterra eritreo.

Tutto ciò avvenne con una situazione politica locale in atto ambigua, infatti il sovrano etiope Giovanni IV non ostacolò gli insediamenti italiani di Assab e Massawa sulla costa, anche se di fatto dopo il ritiro egiziano dall’area, quella era considerata zona di competenza etiope. Quando però iniziarono le spedizioni di conquista militare verso l’interno, l’atteggiamento dell’Impero etiope cambiò, ed in seguito, dopo la battaglia di Dogali nel 1887, dove fu annientato un contingente italiano, le operazioni militari subirono uno stop. Questo portò al trattato di Uccialli, nel quale furono sancite le zone di influenza delle due parti. Furono riconosciuti così gli stanziamenti portuali italiani sulla costa, e la sovranità etiope all’interno. Nella versione italiana del trattato, si riconosceva al Regno d’Italia l’esclusiva rappresentanza dell’Impero di Etiopia nei consessi internazionali, ma nella versione scritta in lingua amarica, essa risultava come una possibilità, non un obbligo nei confronti dell’Impero etiopico, il quale secondo questa versione del trattato manteneva tutta la propria potestà rappresentativa. Questa discrasia sarà in futuro oggetto di controversia tra l’Impero etiope ed il Regno d’Italia.

Il Regno d’Italia con una serie di azioni diplomatiche nell’estate 1889, riuscì ad occupare anche le città di Cheren e di Asmara, che diventò capitale della Colonia Eritrea dal 1° gennaio 1890. Tutto ciò fu reso possibile ed anche sollecitato dall’Inghilterra in chiave antifrancese. Il governo francese infatti aveva già acquistato da signori dancali il territorio di Obock, l’attuale Gibuti, occupato da truppe francesi nel 1855, ed ufficialmente francese dal 1862, con il nome di Costa francese dei somali.

Contemporaneamente alla colonizzazione dell’Eritrea, il Regno d’Italia portò avanti l’acquisizione della Somalia. La penetrazione del Regno d’Italia nella Somalia iniziò, come consuetudine in quei territori ed in quel periodo, con un accordo commerciale, nel 1885 con il Sultano di Zanzibar, sotto il potere del quale ricadeva la regione.

L’accordo avvenne sempre con il benestare dell’Inghilterra, che a partire dal 1884 aveva posto la propria attenzione sul Somaliland attuale, allora Somalia britannica, tanto da farne un protettorato britannico nel 1888.

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Tale mossa dell’Inghilterra traeva spunto dal fatto che essi, occupando dal 1839 Aden nello Yemen, sbarcando poi nel 1882 in Egitto, con l’intenzione di ristabilire l’ordine interno, venuto a vacillare a causa dei dissidi interni alla casa regnante, sarebbero riusciti a controllare il Canale di Suez ed entrambe le sponde dello stretto di Bab el Mandeb. Con l’unica incertezza dovuta alla presenza francese nella Costa somala dei francesi, l’attuale Gibuti.

Alla luce degli avvenimenti che si sono succeduti nella zona dello stretto di Bab el Mandeb prima e dopo l’apertura del Canale di Suez, si può ben affermare che l’evento è stato del tutto eccezionale. Si sono avvicinati infatti mondi che sembravano lontanissimi, si sono aperte vie commerciali fino ad allora impensabili, si sono portati alla luce della storia popoli che sino ad allora venivano raccontati solo dagli esploratori e viaggiatori.

La costruzione dell’immensa opera quale era ed è il canale di Suez, ha rappresentato la sintesi di tutte le conoscenze che l’uomo aveva accumulato sino ad allora, e che non riuscivano ad esprimersi in tutti i campi conosciuti, dalla finanza, all’idraulica, alla tecnologia delle costruzioni, allo sviluppo delle macchine a vapore, e da lì a poco dell’energia elettrica. Si venne così a manifestare, la volontà degli Stati europei di cercare nuovi territori nei quali cimentarsi in nuove sfide, sia dal punto di vista della geopolitica, della finanza, dell’industria, dare sfogo alle popolazioni che non trovando possibilità nel proprio paese, si rimettevano in gioco in altri territori dalle condizioni di vita più difficili di quelle di partenza, ma soprattutto iniziò a passare il concetto che, se uno stato voleva assurgere a potenza mondiale, doveva disporre della forza, della volontà e dei mezzi per farlo.

Il controllo dei mari e delle vie di comunicazione marittime al di là dei benefici commerciali, costituivano un vantaggio strategico enorme.

Tale situazione era favorita dal fatto che gli europei che intraprendevano queste iniziative, si trovavano di fronte a popolazioni in una fase molto diversa del loro sviluppo sociale, culturale, economico e tecnologico, rispetto a quello degli stati europei, per questo è stato relativamente facile il concretizzarsi di tali situazioni di fatto in loco.

Lo stato europeo che ne uscì più rafforzato, fu comunque l’Inghilterra, poiché nel giro di trent’anni si trovò cogestore del Canale di Suez, senza aver profuso nessuno sforzo reale nella sua costruzione, se non quello di rilevare le quote di partecipazione alla società di gestione del Canale dallo stato egiziano, controllandone di fatto l’accesso meridionale vista

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la posizione di forza assunta con l’occupazione di Aden e della Somalia britannica, e l’accesso settentrionale occupando la zona di porto Said.

Dagli equilibri creatisi in questa parte di Africa Orientale, inizieranno a nascere ed evolversi vicende che avranno un grosso peso nel futuro di quell’area.

1.3 SCENARIO GEOPOLITOCO AL TERMINE DEL COLONIALISMO

Il Corno d’Africa è la regione più povera del continente africano, i livelli del prodotto pro capite, dell’alfabetizzazione e dell’aspettativa di vita sono tra i più bassi al mondo.

Tale situazione viene ulteriormente aggravata dalla continua presenza di conflitti, sia tra i diversi stati della regione, che all’interno degli stessi.

Tra le tante cause che potrebbero dare una spiegazione del perché il Corno d’Africa ad oggi versa in queste pessime condizioni, se ne può individuare una, alla quale molte, a loro volta, possono essere collegate, ovvero: il processo di decolonizzazione.

L’abbandono della regione in questione da parte delle grandi potenze europee, è iniziato a partire dal secondo dopo guerra, l’aspetto su cui però è necessario concentrarsi è la condizione in cui si sono ritrovate le ex colonie nel momento in cui i loro dominatori hanno lasciato le loro terre.

Ad oggi quello che è possibile notare, e che è diretta conseguenze del processo di decolonizzazione, è la presenza di Stati istituzionalmente deboli, la cui instabilità interna, caratterizzata da rigide dittature e guerre civili, provoca ripercussioni a tutti i Paesi vicini. Su queste fragili fondamenta vanno poi a pesare due ulteriori problematiche lasciate in eredità dal colonialismo ovvero: il problema dei confini e le diseguaglianze tra etnie dello stesso paese.

Come è noto, i confini dell’Africa vennero totalmente ridisegnati dalle potenze europee durante la conferenza di Berlino del 1884-1885, nella spartizione i confini vennero disegnati in modo arbitrario e funzionale ad interessi economici e strategici, andando ad ignorare completamente le linee di appartenenza etnica, culturale, storica e religiosa della popolazione. Se, però, nella maggior parte del continente africano questi confini sono stati accettati in maniera pacifica, lo stesso non si può dire di ciò che succede nel Corno.

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Il problema del riconoscimento dei confini è causa di conflitti di intensità variabile tra gli stati del Corno d’Africa.

Etiopia ed Eritrea hanno combattuto per questioni di confine (questione di Badammè) Eritrea e Gibuti hanno avuto dissidi di diversa entità per l’isola di Doumeira ed il rilievo ad essa prospiciente, la collina di Ras Doumeira.

Il Sudan ha avuto conflitti locali per i confini meridionali con Etiopia ed Eritrea.

La Somalia ha avuto conflitti con l’Etiopia per il possesso dell’Ogaden conteso tra i due paesi, ma posto in territorio etiope.

Gli stati dell’Africa orientale, infatti, hanno portato avanti politiche irredentiste molto aggressive, andando a generare una grande area di instabilità. Inoltre la nascita di nuovi stati ha dato luogo a conflitti interni tra gruppi di diversa composizione etnica, e una lunga serie di rivendicazioni territoriali che, in molti casi hanno portato a vere e proprie guerre civili. Collegato al problema dei confini c’è quello dell’accesso alle risorse naturali, in particolare quelle idriche, importanti come non mai in queste aride zone.

Un esempio può essere la tensione che si è generata tra Etiopia, Sudan ed Egitto intorno allo sfruttamento delle acque del Nilo. Tale tensione si va poi a riflettere sulle relazioni tra gli attori regionali tanto che l’Etiopia ha più volte accusato il Cairo di appoggiare gruppi di opposizione interni con l’obiettivo di minacciare ed indebolire il governo centrale.

L’esempio appena citato mostra una dinamica tipica di queste zone, in cui i rapporti di alleanza non si basano su amicizia e lealtà, ma esclusivamente secondo la logica “il nemico del mio nemico è mio amico”.

Ogni Stato vuole prevalere sul proprio vicino e per farlo cerca di destabilizzare l’ambiente politico e sociale, animando rivolte e scontri, così che non si vadano a creare i presupposti sufficienti e necessari per una crescita economica e sociale.

Passando ora al secondo aspetto lasciato in eredità dal colonialismo, si può vedere come l’elemento etnico, in queste zone, non costituisce un elemento in cui identificarsi ma anzi costituisce un elemento su cui basare le disparità che ci sono all’interno della comunità. Questo perché durante la dominazione, le grandi potenze europee scelsero di appoggiarsi su

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determinati gruppi etnici, i quali godettero quindi di maggiori privilegi in campo educativo, economico, politico e di gestione delle risorse rispetto ad altri.

Tale meccanismo ha cancellato le linee politiche, sociali ed economiche che disegnavano la società africana, andando ad esacerbare le rivalità e differenze tra i diversi gruppi appartenenti alla stessa comunità.

Al di fuori di queste due ragioni che sono direttamente ricollegabili al colonialismo, se ne può individuare un’altra che comunque ad esso può essere ricollegato: la mancanza di un sistema economico sostenibile ed autonomo.

La precarietà economica porta questi paesi ad essere dipendenti e a subire ingerenze da parte di potenze extraregionali, e ad essere così continuamente in balia degli spostamenti degli equilibri internazionali.

Il vuoto di potere lasciato dalle superpotenze è stato progressivamente sostituito da un’accesa competizione tra gli attori locali, desiderosi di ergersi in una posizione egemonica sul Corno.

Tutte queste dinamiche caratterizzano l’intera subregione del Corno d’Africa come un “sistema di conflitto”1, in cui le guerre non sono solamente intrecciate tra loro ma

caratterizzano e plasmano l’intera regione intorno alla dimensione della conflittualità. La maggior parte degli Stati del Corno sono considerati Stati fragili o deboli, addirittura Stati falliti o stati “canaglia”, come per esempio Eritrea e Somalia, che a causa dell’assenza di istituzioni forti e di un coinvolgimento totale dei popoli ad ogni livello, non riescono ad esercitare con fermezza la loro autorità, oppure come nel caso dell’Eritrea, sono di fatto delle dittature, dove non vengono riconosciuti i più elementari diritti del popolo eritreo, come il diritto al voto( non si tengono libere elezioni dal 1993), servizio militare obbligatorio per tutti da 18 a 50 anni( inizia il servizio e termina solo quando decide lo stato, provocando così una fuga continua di giovani dall’Eritrea, che alimenta il traffico clandestino di esseri umani) risultando così vulnerabili dal punto di vista della sicurezza interna, e mancanza credibilità internazionale.

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Figura 4. Militanti somali di al Shabab – fonte Geopolitica.info

A questo si aggiunge l’incapacità di trovare soluzioni che possano essere durature e che possano attenuare le radici dei conflitti e delle tensioni. Oltre a motivi di tipo strutturale e socio storico, quello che sembra mancare in tutti gli attori locali è la volontà politica di creare un ambiente in cui le cause dei conflitti interni ed esterni possano essere risolte, e ci sia quindi, la possibilità per tutti di poter creare delle basi solide su cui poter ricostruire le delle istituzioni forti che riescano a garantire autonomia e benessere.

Il quadro così delineato mette in risalto tutte le difficoltà del Corno d’Africa e mostra come sia difficile andare ad agire in questa regione, dagli equilibri così instabili ma allo stesso tempo così importante nello scacchiere geopolitico mondiale.

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CAPITOLO 2: RILEVANZA INTERNAZIONALE DELLO

STRETTO DI BAB EL MANDEB

2.1 ANALISI DELLO STRETTO DI BAB EL MANDEB COME VIA DI

COMUNICAZIONE MARITTIMA E DI SCAMBIO COMMERCIALE

Figura 5. Immagine satellitare dello Stretto di Bab el Mandeb – fonte wikipedia.it

Lo stretto di Bab el Mandeb è situato tra Gibuti e Yemen, ha una larghezza di soli 27 km e nel mezzo, è caratterizzato dalla presenza di un piccolo isolotto, Perim, il quale lo divide in due canali: uno di circa 3 km di ampiezza, che corre lungo le coste dello Yemen, l’altro, più ampio, misura circa 20 km. Proprio quest’ultimo costituisce la via per la navigazione internazionale dall’Oceano Indiano al Mar Rosso.

Il significato di Bab el Mandeb, ovvero “porta del pianto” ci fa capire molto riguardo la sua natura. Il suo nome, secondo molti, deriva dagli elevati rischi che si correvano nel navigare in queste acque, provenienti soprattutto dalla presenza di forti correnti e venti contrari. Infatti è stato studiato che a sud del 20° parallelo latitudine nord, i venti spirano nei mesi estivi da sud sud-est mentre nei mesi invernali da nord nord-est. A nord del 20° parallelo latitudine nord, invece spirano tutto l’anno in direzione sud sud-est. È facile capire, quindi, che nell’antichità, dove si navigava per lo più a vela, il suo attraversamento risultava

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alquanto difficile, se non si teneva conto dei precedenti fattori climatici e meteorologici. In aggiunta Bab el Mandeb, è caratterizzato dalla presenza di bassi fondali, ricchi di barriere coralline, che rappresentavano e rappresentano un ulteriore rischio per la navigazione. L’attraversamento dello stretto viene regolato dalla Convenzione di Montegobay del 1982, in rispetto del diritto di passaggio in transito. Secondo questo diritto tutte le navi e gli aeromobili possono impegnare lo stretto purchè lo percorrano in maniera rapida e continua, la sosta e l’ancoraggio sono previste nel solo caso di emergenza. Questo diritto non può essere revocato. Alle navi militari è attribuito il diritto di passaggio inoffensivo ovvero: nell’attraversare lo stretto non devono arrecare pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero.

Lo stretto di Bab el Mandeb rappresenta un fondamentale punto di giunzione posto lungo una via di comunicazione marittima, anche detta “sea line of commerce” (SLOC), fra le più trafficate del pianeta. Viene solcato ogni giorno da 55 navi per un totale di 20000 passaggi annui e riesce ad incanalare, ogni anno, il 20% dei flussi commerciali globali. Nel 2018 hanno attraversato lo stretto circa 1.3 miliardi di piedi cubici di gas naturale liquefatto e 6.2 milioni di barili di greggio2.

Per la sua importanza strategica come punto nevralgico per i commerci marittimi, viene definito “choke point” ovvero “collo di bottiglia”.

Per esemplificare il concetto e renderlo maggiormente chiaro, oltre a quello sopracitato, si possono individuare altri importanti “choke point” come lo stretto di Hormuz, Malacca, il Canale di Suez. Questi sono solo alcuni, ma se ne potrebbero elencare molti altri.

Il tratto comune che caratterizza questi punti nevralgici del traffico marittimo internazionale, è che nonostante le convenzioni internazionali ne regolino e garantiscano la libertà di passaggio, questi tratti di mare a causa della loro vulnerabilità intrinseca, che gli deriva dalla situazione geopolitica che li circonda, costituiscono i punti deboli della catena delle SLOC (sea line of commerce).

Tornando allo stretto di Bab el Mandeb, è importante sottolineare come la sua importanza strategica non si manifesti solamente a livello civile ma anche e soprattutto a livello militare. Infatti il transito attraverso questo stretto è stato fondamentale in più di una occasione.

2 Dati presi da cesi-italia.org, lo stretto di Bab el Mandeb, tra tensioni geopolitiche e nuove minacce

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Durante il conflitto Iran-Iraq, si ebbe l’operazione Golfo 1, alla quale prese parte la Marina Militare italiana con il XVIII° Gruppo navale, le unità della coalizione internazionale incrociavano in quelle acque per garantirne la sicurezza della navigazione. Il transito di navi da guerra per sostenere e garantire la sicurezza e lo svolgimento dell’operazione Desert Storm (prima guerra del golfo 1991 in Iraq), l’operazione Resolute Behaviour-Enduring Freedom (2001 in Afghanistan), Guerra al terrorismo (Iraq 2003). La lotta alla pirateria e al terrorismo internazionale, soprattutto di origine somala, che per anni hanno infestato le acque del Mar Rosso e del Golfo di Aden (operazione Ocean Sheald, operazione Atlanta). La sicurezza della navigazione marittima, al giorno d’oggi, risulta essere fortemente influenzata e messa in pericolo da fenomeni transazionali e ideologie radicali, come il terrorismo, di conseguenza molte potenze mondiali che economicamente dipendono per la gran parte dal commercio marittimo, hanno inserito tale questione al primo posto della loro agenda.

I chocke point catalizzano sempre di più l’interesse globale, oggi più del passato, considerando che il 90% del commercio internazionale transita via mare.

Il Mar Rosso continua a rappresentare un fondamentale punto di passaggio sia per il petrolio che parte dal Golfo Persico, sia per le navi che trasportano beni di varia natura dall’Asia all’Europa e viceversa, per un fatturato di 700 miliardi annui, ed infine anche per le navi da crociera che alimentano i flussi turistici della regione.

Un’ipotetica chiusura di Bab el Mandeb o di Suez, a causa dell’instabilità dei territori che li circondano avrebbe delle gravissime ripercussioni economiche a livello globale. Si può ben capire infatti che, nel caso in cui si dovesse andare ad impiegare una rotta alternativa, ovvero quella che passa per il Capo di Buona Speranza, i costi del trasporto lieviterebbero a dismisura. Ma anche avere una forte area di insicurezza rischia di avere costi elevati in quanto le compagnie di trasporto vedrebbero aumentare le loro tariffe assicurative, dovrebbero provvedere all’impiego di forze di sicurezza, corrispondere indennità di rischio più elevate per l’equipaggio.

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Figura 6. Differenza in miglia tra il passaggio per Suez e il passaggio per Capo di Buona Speranza – fonte geograficamente.wordpress.com

Per evitare lo scenario appena descritto, paesi molto lontani geograficamente, che su questa area nutrono molti interessi, stanno cercando di guadagnarsi un punto di appoggio sul Mar Rosso. In tal senso non si possono non citare Cina e Giappone.

La Cina, potenza in grande crescita e con enormi ambizioni, dipende in larga misura dal petrolio del Medio Oriente che passa per Hormuz, ma la quota di greggio che viene estratto nel Sudan del Sud è in continua crescita, ed in questa ottica è importantissimo che venga garantito un passaggio libero e sicuro delle navi cisterna da e per il Mar Rosso.

Inoltre, un altro dato da non trascurare, è che la maggior parte dell’export cinese è indirizzato verso l’Europa, e vede come passaggio obbligato Bab el Mandeb, il quale è destinato ad essere uno dei punti nevralgici dei flussi commerciali della “Nuova Via della Seta”.

Un importante dato che ci mostra chiaramente l’interesse dei paesi asiatici sopra citati su questa zona, è la loro partecipazione a partire dal 2008 alla coalizione internazionale, al fianco della NATO e dell’UE (operazione Ocean Shield ormai conclusa ed EUNAVFOR-Operazione Atalanta) per combattere la pirateria nel Golfo di Aden. Obiettivo che sembra essere stato raggiunto. Infatti se nel 2011 si contavano 176 tentativi di attacchi, nel 2019 si sono ridotti a un singolo episodio. Da segnalare anche la presenza del CTF-151, fondato nel 2009 dalle Forze Marittime Combinate (CMF) e della Quinta Flotta degli Stati Uniti di

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stanza a Manama in Bahrein. Anche in questo caso l’obiettivo principale è quello di garantire la sicurezza marittima attraverso pattugliamenti ed altre operazioni speciali.

Figura 7. Pirati somali nel Mar Rosso – fonte lastampa.it

Il Giappone vede passare per lo stretto il 10% del traffico commerciale ed inoltre al largo del Corno d’Africa, nel Golfo di Aden e nell’oceano Indiano vede impegnati i propri pescherecci atti a rifornire uno dei settori più importanti per l’economia nipponica, ovvero quello della pesca.

Negli ultimi anni, con l’accrescere degli interessi di Tokyo su questa zona, dovuti anche alla sempre maggiore importazione di petrolio proveniente da quelle zone, si può notare un cambio di atteggiamento. Infatti si è passati da una politica più neutrale ad una caratterizzata da una maggiore presenza, in questo senso va vista la base militare giapponese a Gibuti, volta soprattutto a controbilanciare la presenza cinese.

Oltre alla pirateria, le minacce sulla direttrice Golfo di Aden-Suez si chiamano: traffico di esseri umani, contrabbando e terrorismo di matrice islamica.

Se il fenomeno della pirateria sembra essere stato attenuato grazie alla sempre maggiore presenza di forze militari e alla sicurezza privata a bordo delle navi mercantili, lo stesso non si può dire dei fenomeni precedentemente nominati, i quali assumono dimensioni sempre più importanti.

Il traffico di essere umani è una realtà consolidata nello stretto, soprattutto grazie alla vicinanza delle due sponde del Mar Rosso, che rende agevole il passaggio dal Corno d’Africa alle coste della penisola arabica. Infatti sempre più migranti, per lo più somali ed etiopi, lasciano i loro paesi in direzione Arabia Saudita, via Yemen, in cerca di lavoro e di speranze per il loro futuro.

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Il contrabbando di merci è strettamente legato all’incapacità dei Paesi che si affacciano sullo stretto di esercitare un certo controllo sui traffici illeciti, in aggiunta la necessità di risorse economiche spinge, molto spesso, i pescatori ad intraprendere il contrabbando. Le destinazioni principali sono le aree instabili di Yemen e Somalia ma anche la Siria.

Il fenomeno che desta più preoccupazione per le grandi potenze è che le armi di contrabbando vanno a rifornire, molto spesso, i gruppi terroristici in Africa (al-Shabaab), in Yemen (Houti e al-Qaeda) e in Siria (ISIS).

Al momento ciò che più mette a rischio la navigazione nella zona, è la guerra civile che dalla fine del 2014 sta lacerando lo Yemen. I casi più recenti di atti terroristici nello stretto di Bab el Mandeb sono stati attribuiti agli Houti. Quest’ultimi sono un movimento armato islamico zaydita di origine sciita, presente nello stato yemenita a partire dal 2004, che si sono dichiarati al controllo del governo, sciogliendo il parlamento e creando un Comitato Rivoluzionario a guida del Paese, dando di fatto inizio alla guerra civile.

Tra gli episodi più importanti si può ricordare l’attacco all’unità di supporto logistico saudita, Swift, colpita da missili antinave, e l’attacco subito da due navi da guerra statunitensi che pattugliavano le acque intorno alla zona di Mokha.

Figura 8. Una nave logistica saudita, HSV-2 Swift, gravemente danneggiata in seguito ad un attacco al largo della costa yemenita – fonte ocean4future.org

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La minaccia però non riguarda solamente le navi militari ma anche le navi mercantili che attraversano il Mar Rosso, proprio nel 2017, infatti, abbiamo infatti assistito all’attacco di due navi cisterna.

L’elemento più preoccupante e che mette più in pericolo gli interessi economici e l sicuraezza della zona, è la capacità militare dimostrata dagli Houti negli ultimi anni e gli equipaggiamenti in loro possesso, di gran lunga più sofisticati ed efficienti rispetto a quelli dei pirati somali.

Dal quadro che è stato appena delineato, è facile comprendere come gli equilibri geostrategici lungo il corridoio energetico, che dagli Stati del Golfo raggiunge il Mediterraneo e l’Europa, siano particolarmente precari e vulnerabili. L’Europa essendo dipendente dal petrolio del Medio Oriente e dai traffici commerciali con i paesi asiatici, appare come l’anello più debole della catena, e quello su cui si avrebbero delle maggiori ripercussioni a livello economico a seguito di un eventuale chiusura, anche temporanea di Bab el Mandeb.

Proprio a causa della grande importanza che riveste lo stretto, diventa fondamentale, la continua presenza della comunità internazionale, con lo scopo di proteggere la regolarità del traffico marittimo. Senza tale forma di controllo le dinamiche interne dei Paesi fragili che si affacciano su queste acque, andrebbero a destabilizzare non solo l’intera regione del Golfo di Aden, ma anche la regione mediterranea, con effetti disastrosi che non si fermano soltanto all’aspetto meramente economico.

2.2 CANALE DI SUEZ: ROTTA DI TRAFFICI MARITTIMI TRA OCCIDENTE

ED ORIENTE, LUOGO STRATEGICO NELLA GEOPOLITICA MONDIALE

Il 6 Agosto 2015, al termine di lavori durati meno di un anno, è stato inaugurato in Egitto dal presidente Abdel Fattah al Sisi, il raddoppio del Canale di Suez.

L’allargamento del Canale era già stato preso in considerazione dai precedenti presidenti, Mohamed Morsi e Hosni Mubarak, ma poi non furono mai iniziati i lavori.

Le ragioni che hanno indotto l’attuale presidente egiziano ad intraprendere l’opera di raddoppio del canale di Suez sono principalmente due, la prima è dovuta a problemi di

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politica interna e di crescita economica dell’Egitto, la seconda è dovuta alla volontà dello stato egiziano ad elevarsi a potenza di riferimento regionale sostenuta per lo scopo dalla Arabia Saudita, la quale vede nell’Egitto un promotore e assertore della stabilità nell’ area, sia sul versante mediterraneo che sul versante del Mar Rosso.

Queste due cause sono legate tra di loro, poiché senza sviluppo economico e stabilità interna, non si può immaginare uno stato egiziano vigile e garante dell’equilibrio regionale.

I maggiori fruitori di questa situazione in loco sono il regno saudita e gli Emirati Arabi, poichè nell’ Egitto trovano un alleato forte, tanto da garantirgli un alto livello di controllo e sicurezza nella zona del Mar Rosso, a tutela del flusso di greggio verso i mercati occidentali, e di merci verso il golfo persico.

In questi ultimi anni, si è assistito ad un rilevante incremento di acquisto di armamenti di ogni tipo da parte dell’Egitto, finanziati dall’Arabia Saudita, impiegati per rinforzare l’esercito egiziano schierato sulla frontiera libica, e per garantire il pattugliamento e controllo del traffico commerciale nel Mar Rosso. Anche l’Italia è interessata e coinvolta nel programma di riarmo dell’Egitto quale fornitore di mezzi navali, aerei da combattimento, aerei da addestramento con funzioni di appoggio tattico alle truppe di terra. La prima consegna è costituita dalla fregata multi ruolo Spartaco Schergat, ribattezzata dall’Egitto al Galala. Il valore del programma di fornitura raggiungerà al termine delle consegne, il valore di 18.000.000.000 di euro.

I lavori eseguiti hanno consentito al canale di Suez di arrivare a 193km di lunghezza, 24m di profondità, larghezza a 11m di profondità variabile tra 205 e 225m.

Tali dimensioni raggiunte consentono a tutti i tipi di navi di solcare le acque del canale, infatti possono attraversarlo sia le petroliere fino a 300.000tn lorde di stazza, che navi porta container della stazza dell’Hmm Algeciras, lunga 399m, larga 61m, con 17m di pescaggio e 24.000tn di carico utile.

L’opera ha interessato soprattutto il corpo centrale del Canale, per 77km circa, dei quali 35km di raddoppio vero e proprio, nel tratto compreso tra i laghi Amari ed il ponte di Al Qantarah, mentre il rimanente tratto, comprendente il minore dei laghi Amari fino a Suez, è stato sottoposto a dragaggio profondo, in modo da recuperare pescaggio per poter consentire il transito alle navi più grandi.

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Ad oggi, il regime giuridico del Canale di Suez è garantito dalla Convenzione di Costantinopoli firmata il 29 Ottobre 1888, composta di 17 articoli, e proprio il primo ne sancisce la neutralità e la navigabilità, aperta sia al traffico commerciale che al traffico militare.

“The Suez Maritime Canal shall always be free and of commerce or of war, without distinction of flag. Consequently, the High Contracting Parties agree not in any way to interfere with the free use of the Canal, in time of war as in time of peace. The Canal shall never be subjected to the exercise of the right of blockade.”

Nei fatti però, il regolamento per l’attraversamento del canale ed il suo rispetto, è garantito dalla Autorità del Canale di Suez, la quale comunque pone dei rigidi limiti riguardanti sia la natura che la quantità delle merci trasportate, mentre la Convenzione stessa pone le regole che devono rispettare i convogli militari o il singolo naviglio della stessa natura che intende attraversarlo.

Fino al 26 luglio 1956 il Canale di Suez era stato gestito dalla società a partecipazione anglo-francese denominata, a seconda della lingua usata per la traduzione, Compagnia Universale del Canale di Suez se tradotta dal francese, oppure semplicemente Compagnia del Canale se tradotta dall’inglese, vista la composizione azionaria della società.

In quella data però, il primo ministro egiziano Gamal Abdul al Nasser, salito al potere dopo la cacciata di re Faruq I e la successiva deposizione del suo successore, il generale Muhammad Nagib, nazionalizzò il canale di Suez, privando così Francia e Gran Bretagna sia del controllo del traffico marittimo, che degli introiti dovuti ai pedaggi da esso derivanti. Ciò scatenò la reazione militare delle due potenze europee appoggiate dallo stato di Israele, il quale voleva cogliere l’occasione per dimostrare come il neo nato stato ebraico potesse essere considerato potenza militare a livello mondiale.

Si arrivò così alla occupazione militare della zona del Canale da parte israeliana e anglo-francese, alla quale seguì la chiusura dello stesso da parte egiziana, mediante l’affondamento di circa 40 navi per impedirne il transito.

La situazione si sbloccò dopo la presa di posizione degli USA e dell’URSS a favore dello stato egiziano, e la successiva sospensione delle azioni militari da parte di Israele, Francia, Gran Bretagna, con il conseguente abbandono delle posizioni acquisite sul campo.

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L’Egitto da parte sua garantì comunque un risarcimento economico alle parti contraenti il precedente accordo, e la libera circolazione nel canale, nel quale il traffico riprese nella primavera del 1957.

In seguito il Canale di Suez subì un'altra chiusura, a causa della Guerra dei Sei Giorni, conflitto che vide opporsi Egitto, Siria, Giordania, Iraq, allo stato di Israele.

Lo stato egiziano chiuse il passaggio a tutte le navi dal giugno del 1967 al giugno 1975, quando aprì di nuovo la navigazione nel Canale. Le navi israeliane invece poterono tornare a solcare quelle acque solo nel 1979, dopo la firma dei trattati di pace fra Egitto ed Israele. Queste due chiusure non furono prive di conseguenze, da esse derivarono delle crisi petrolifere inserite in crisi internazionali più ampie, ma nelle quali l’approvvigionamento di prodotti petroliferi costituiva un fattore determinante. Si assistette così ad un aumento del costo del petrolio, sia dovuto alla scelta dei paesi produttori di ridurre le loro quote di estrazione, ma anche dovuto al fatto che le petroliere per giungere in Europa dovevano doppiare il Capo di Buona Speranza, allungando la tratta da percorrere e quindi l’aumento dei costi di trasporto, che inevitabilmente andavano ricadere sui paesi consumatori di prodotti petroliferi.

L’ampliamento del Canale ha portato il numero di attraversamenti per l’anno 2019, a 18.800, raddoppiando perciò il transito giornaliero di navi, che è passato da 49 a 97 unità.

Il tempo impiegato per l’attraversamento è diminuito da 18h a 11h. Lungo il tragitto l’Autorità del Canale prevede l’impiego di rimorchiatori a supporto dei convogli, di piloti che conducono le navi, una serie di supporti alla navigazione fatti radio fari e segnalazioni luminose.

Si hanno tre convogli giornalieri alternati, due nord-sud e uno sud-nord.

Per l’anno 2017 la quantità di merci che ha attraversato il Canale di Suez è stata pari a 1.000.000.000 tnu circa, pari al 9% del traffico mondiale, stimato in 11.000.000.000. Il traffico è stato così ripartito: 550.000.000 tnu verso sud, 450.000.000 tnu verso nord. Le merci trasportate sono così suddivise: 40% minerali, 32% idrocarburi, 28% merci varie, tra le quali oltre frumento, grano, prodotti alimentari non finiti, il 7% è costituito minerali e materiali per costruzione.

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Nella zona del Canale di Suez e dello stretto di Bab el Mandeb, passano circa 5.000.000 di barili al giorno di prodotti petroliferi, pari al 10% della produzione giornaliera mondiale. Questo flusso va per 85% verso il Mediterraneo, il restante 15% verso sud (Cina ed estremo oriente).

I pedaggi pagati per l’attraversamento generano entrate per lo stato egiziano pari 5,8 miliardi di dollari (terza fonte di introito per lo stato egiziano, dopo il turismo e le rimesse degli emigrati), le autorità egiziane prevedono che esse possano arrivare fino a 13,2 miliardi di dollari entro il 2023.

L’Egitto nel programma di modernizzazione del paese, oltre alla realizzazione del raddoppio del Canale di Suez, costato circa 8 miliardi di dollari, ha ideato un progetto di sviluppo industriale denominato SCZ ovvero Suez Canal Zone, nell’intento di attirare capitali stranieri utili per favorire la crescita economica del paese. Per la realizzazione di questo progetto, sono state individuate 2 aree di integrazione industriale, 2 aree di sviluppo industriale e 4 nuovi porti, per un totale di 461 kmq.

Le due aree industriali integrate ai porti sono: Ain Sokhna con Ain Sokhna port, porto Said con East port Said. Le aree di sviluppo industriale sono Qantarah West, Isamailia East.I nuovi porti saranno: West port Said, Adabya, Al Tor, Al Arish.

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Le infrastrutture situate più a nord verso il Mediterraneo stanno attirando interessi e investimenti dalla Russia, allo scopo di rafforzare la sua presenza nel Mediterraneo orientale, migliorare i collegamenti con le basi russe in Siria e con il Mar Nero. Questi riposizionamenti vanno letti alla luce degli accordi stipulati tra Russia e Sudan nel mese di Novembre 2020, per la costruzione di un hub portuale a sud di porto Sudan, delle dimensioni tali da poter ospitare almeno 4 unità militari del tipo cacciatorpediniere, ed un sottomarino nucleare. Le aree invece più prospicenti al Mar Rosso, rientrano nella sfera di interesse della Repubblica Popolare della Cina, la quale oltre gli investimenti rivolti a vari approdi nel mediterraneo (Grecia, Italia, Francia, Marocco), vuole rafforzare la propria presenza commerciale nella zona del Canale di Suez, oltre la nota presenza militare cinese nello stato di Gibuti e precisamente nella zona portuale di Doraleh. La presenza della Cina nella zona, è motivata dalla volontà di quest’ultima di promuovere e realizzare il progetto commerciale noto come la Nuova via della seta (Belt and road iniziative, Bri).

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L’importanza che assume la zona del Canale di Suez e lo stretto di Bab el Mandeb per la Repubblica popolare cinese, è resa evidente dal programma di interconnessione commerciale ed infrastrutturale conosciuto come Belt and Road Initiative (Bri) oppure come OBOR (One Belt One Road).

Esso prevede come strategia generale operativa, la promozione, il rinnovamento, e la costruzione di nuove vie e rotte commerciali di interconnessione, che favoriscano e velocizzino gli scambi fra tutti i paesi che intendono aderire all’iniziativa, e lo sviluppo di tutte le attività annesse e necessarie per realizzazione del progetto.

Portando avanti il programma di ammodernamento e costruzione di reti di collegamento al fine di favorire lo scambio di merci, si danno impulsi a tutti i settori industriali, dalle costruzioni, alla cantieristica navale, alla finanza, alle telecomunicazioni, secondo il concetto che il commercio fungerà da traino e sviluppo per tutti i settori ad esso connessi.

Questo programma è stato presentato nel settembre 2013 dal presidente della Repubblica Popolare della Cina Xi Jinping, secondo le stime fatte arriverà ad interessare nel continente euro asiatico, il 65% della popolazione mondiale ed il 40% del Pil globale, la realizzazione del piano stimolerà investimenti pari a 900 miliardi di dollari, a questo scopo la Cina ha costituito la Banca Asiatica di investimenti ed infrastrutture (ABII) con la quale finanziare l’apertura di nuove rotte commerciali, porti, nuovi collegamenti ferroviari , potenziando e rinnovando quelli esistenti. Ci saranno così due direttrici per gli scambi, una terrestre per ferrovia, ed una marittima.

Allo scopo sono state individuate tre linee ferroviarie che, attraversando l’Asia centrale, collegano la Cina con l’Oceano indiano e con l’Europa. La via di comunicazione che riceverà maggiore impulso sarà quella marittima, per la quale il programma prevede la creazione di una rete di collegamenti portuali, detta anche “collana di perle” la quale partendo dalla città portuale cinese di Fuzhou, attraversando il mar Cinese meridionale, l’Oceano indiano, il Mar Arabico, lo stretto di Bab el Mandeb ed il Canale di Suez, arriva nel Mediterraneo, nel porto greco del Pireo, scelto come Hub principale. Di fatto però data la grande quantità di merci in arrivo ed in transito, saranno interessati diversi porti che ad esso si affacciano, tra i quali quello di Trieste. Saranno previsti anche scali sulla costa francese, algerina e marocchina.

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Figura 11: I porti cinesi nell’Indo-Pacifico – fonte: Insideover

Questa via della Seta marittima tocca i più importanti stati e mercati asiatici, Vietnam, Thailandia, Malaysia, Cambogia, Myanmar, Bangladesh, India, Pakistan, Kenya, Tanzania, Gibuti, Sudan, Egitto. La Cina seguendo il programma di sviluppo ed interconnessione previsto dalla BRI, implementerà una zona terminal container, nel porto egiziano sul Mediterraneo di Abu Qir, per un traffico di 1.000.000 di container l’anno.

Inoltre Pechino è impegnata nello spostamento della capitale amministrativa dell’Egitto, a circa 40km ad est del Cairo, per un progetto del valore di circa 60 miliardi di dollari, il 10% dei quali provenienti da società cinesi.

Ad esemplificare lo sforzo finanziario sostenuto dalla Repubblica Popolare della Cina nel Corno d’Africa, meritano menzione la riattivazione ed elettrificazione della linea ferroviaria Addis Abeba – Gibuti, e la realizzazione del nuovo palazzo dell’Unione Africana sempre presso la capitale dell’Etiopia.

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L’approccio cinese nella regione è bilanciato tra politiche di “soft power”, e securitarie a tutela dei propri traffici commerciali, esempi di tale attività sono il porto di Doraleh nello stato di Gibuti passato dagli emiratini ai cinesi, e la grande base militare costruita sempre a Gibuti dalla Repubblica Popolare della Cina.

Le autorità cinesi nelle valutazioni effettuate prima muovere investimenti nell’area di interesse, tengono conto di più della stabilità e della posizione strategica, piuttosto che della buona politica ed amministrazione delle autorità locali. Le attività economiche svolte hanno sempre lo scopo di deviare flussi commerciali e finanziari verso l’area di interesse cinese a scapito degli altri concorrenti globali, cercando sempre nuove fette di mercato da acquisire. La politica cinese nella regione del Corno d’Africa allargato, è molto aggressiva soprattutto nel settore finanziario, dove mediante capitali ed investimenti, cerca di legare alle proprie strategie, paesi economicamente deboli che per sopravvivere hanno bisogno di aiuti ed investimenti provenienti dall’estero.

Il volume degli scambi commerciali, sulla rotta est ovest e viceversa generati dal progetto di interconnessione commerciale denominato” Belt and road initiative”, arriveranno secondo le stime entro il 2040, al valore di 7000 miliardi di dollari, tenendo conto che in questi ultimi 10 anni i volumi di interscambio tra la Cina ed il Mediterraneo allargato è aumentato del 37%, mentre i traffici con i paesi del Golfo persico è aumentato del 77%.

Merita una riflessione particolare l’offerta turistica che il Corno d’Africa e l’Africa Orientale stessa possono fornire al turismo internazionale.

In Eritrea ci sono le barriere coralline dell’arcipelago di Dalhak, la capitale Asmara detta anche la “piccola Roma” visto lo stile architettonico lì importato dall’Italia nel periodo coloniale, le antiche città di Adulis e Berenice.

In Etiopia i rilievi interni (le così dette Ambe), le sorgenti del Nilo Azzurro, i Monasteri cristiani risalenti al X sec., le isole nel lago Tana, la Rift Valley.

Le note località turistiche del Kenya sull’Oceano Indiano, e dell’Egitto poste sul Mar Rosso e nella penisola del Sinai, oltre che il patrimonio archeologico egiziano situato all’interno del paese.

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In condizioni di pace e stabilità nella zona, gli introiti derivanti da tali attività, costituirebbero un fonte di guadagno per le popolazioni locali, che così potrebbero migliorare le loro condizioni di vita.

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