La responsabilità di questa servitù volontaria è, secondo La Boétie, delle persone stesse, infatti scrive nel Discorso
«Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire sarebbero liberi. È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola, che, potendo scegliere se esser servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo: è il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca»132.
Come scrive Marcel Françon, il Discorso non è tanto una condanna al tiranno, quanto piuttosto «una mise en accusation de la population qui a fait appel au tyran»133.
131 S. Visentin, "Potere del nome e potenza del linguaggio", op. cit., p. 11. 132 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, op.cit., p. 10.
133 M. Françon, "Sur diverses interprétations du Discours de la servitude volontaire", in
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La Boétie pensa che nello stato di natura l’uomo è libero, è uguale ad ogni altro individuo, le persone sono legate da un sentimento di fratellanza; poi, come scrive P. Clastres, con la nascita dell’organizzazione statale è avvenuto un «malencontre»134, l’origine del potere politico è visto come un accidente, nel quale l’uomo ha perso la propria libertà.
Questo «malecontre» è visto da S. Visentin come «un incontro “perverso” con se stessi, con i propri fantasmi e le proprie allucinazioni»135; anche La Boétie scrive «Spesso gli uomini perdono la libertà perché ingannati, e in questo non sono mai così spesso sedotti da altri di quanto non siano ingannati da se stessi»136.
Gli uomini hanno perduto la memoria della loro libertà originaria, sembra che lo status di “servo” coincida con l’oblio della libertà. Di quest’ultima, non tutte le persone hanno dimenticato l’immagine,
«Vi è sempre qualcuno, migliore degli altri, che, non sopportando il peso del giogo, non può trattenersi dallo scuoterlo; […] non può trattenersi dal pensare ai
134 «accident tragique, malchance inaugurale dont les effets ne cessent de s’amplifier au point
que s’abolit la mémoire de l’avant, au point que l’amour de la servitude s’est substitué au désir de librté.» P. Clastres, "Liberté, Malencontre, Innommable", in E. de La Boétie, Le Discours De La Servitude Volontaire. La Boétie et la question du politique, Payot, Paris 1978, pp. 230-231. P. Clastres afferma che La Boétie separa le società libere conforme alla natura dell’uomo, e quelle senza libertà nelle quali vi è chi comanda e chi obbedisce.
135 S. Visentin, "Potere del nome e potenza del linguaggio", op. cit., p. 9. 136 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, op. cit., p. 21.
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propri diritti naturali e dal ricordare i propri predecessori e la loro condizione primitiva»137.
C’è qualche individuo che ricorda della condizione originaria, ma il tiranno tende ad isolare queste persone, ad allontanarle tra loro, affinché non si incontrino; sono singoli che tengono conto del passato per prevedere gli eventi futuri ed analizzare il presente138. Come scrive Rothbard
«Tyrants often attempt to suppress education in their realms, and in that way those who have preserved their love of freedom, still remain ineffective because, however numerous they may be, they are not know to one another; under the tyrant they have lost freedom of action, of speech, and almost of thought; they are alone in their aspiration»139.
La conoscenza della storia è fondamentale per analizzare e comprendere il presente140, «l’histoire est une arme pour l’action politique»141.
137 Ivi, p. 29.
138 «Le rôle que La Boétie attribue à l’histoire est éminemment moderne; il y voit un moyen de
compréhension du présent et d’anticipation du futur» J.-P. Cavaillé, "Langage, tyrannie et liberté dans le Discours de la servitude volontaire d’Étienne de la Boétie", op. cit. p. 26. Per La Boétie la storia è molto importante, può fungere da bussola per orientarci nel presente e nel futuro. Il Discorso è caratterizzato da riferimenti alla storia classica.
139 M. N. Rothbard, “introduction”, in The Politics of Obedience: the Discourse of Voluntary
Servitude, op. cit., p. 28.
140 M. Smith scrive che gli esempi storici che sono nel Discorso hanno delle allusioni alla realtà
contemporanea. Per esempio quando La Boétie scrive di Giulio Cesare, che fece aprire nuovi uffici, non per riformare la giustizia ma per avere nuovi sostenitori della tirannide; probabilmente si riferisce a Enrico II che nel 1552 creò nuovi uffici per la giustizia.
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Così mentre la “plebaglia” cade nelle reti della servitù, organizzate dai tiranni, per esempio Ciro, alcuni individui hanno ben vivo il ricordo della libertà, possiedono un’intelligenza acuta che hanno educato con il sapere. A questo proposito il Discorso è stato definito elitario, perché vi è l’idea che la massa, la folla sia incline alla dissolutezza; mentre le persone che possono liberare dal giogo della servitù sono poche. J. Terrel afferma che
«cette distinction entre le naturel du menu populaire et le naturel de ceux qui ont la tête bien faite semble nous reconduire, comme on l’a souvent remarqué, à un humanisme civique aristocratique»142.
Anche S. Visentin scrive che il Discorso ha delle sfumature aristocratiche ma non è un’aristocrazia nobiliare, bensì dell’ingegno, «quindi un aristocraticismo profondamente imbevuto di tradizione umanista»143.
Arriviamo adesso ad un punto fondamentale dell’opera, ovvero il comportamento dei complici del tiranno. Questi ultimi sono persone caratterizzate da una grande avidità e ambizione, che pur di poter guadagnare un minimo di potere, si sottomettono al sovrano, e quindi oltre a compiacerlo
141 J.-P. Cavaillé, "Langage, tyrannie et liberté dans le Discours de la servitude volontaire
d’Étienne de la Boétie", op. cit., p. 26.
142 J. Terrel, "Républicanisme et droit naturel dans le Discours de la servitude volontaire: Une
rencontre aporétique", Erytheis, 4, Mars, 2009.
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«devono godere del suo piacere, abbandonare i propri gusti per quelli del tiranno, forzare il proprio temperamento, spogliarsi della propria natura, stare sempre attenti alle parole, alla voce»144.
Rinunciano alla propria felicità, alla propria libertà per guadagnare ricchezze; e subordinati a questi pochi individui ce ne sono altri che comandano altre persone; è una piramide al vertice della quale vi è il tiranno mentre alla base moltissime persone, e tutti i gradini intermedi sono accomunati dallo stesso ethos; ogni persona delega la propria libertà e autonomia alle altre che nella piramide stanno sopra di lei, per poter governare chi si trova al gradino più in basso;
«quei sei hanno poi sotto di loro altri seicento approfittatori, che si comportano nei loro riguardi così come essi stessi fanno col tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila cui fanno fare carriera, ai quali fanno avere il governo delle province o il controllo del denaro, affinché essi diano libero corso alla loro avarizia e crudeltà, e le realizzino al momento opportuno, compiendo peraltro tali malefatte da non poter durare senza la loro protezione, sfuggendo grazie a loro alle leggi e alla pena»145.
Vediamo instaurarsi un sistema gerarchico, che è una conseguenza della servitù volontaria; ecco perché milioni di uomini servono volontariamente,
144 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, op. cit., p. 48. 145 Ivi, p. 45.
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impartiscono ordini e obbediscono; la gerarchia permette di poter godere di un minimo di potere, di esercitarlo su chi è più in basso, e questo basta per sopportare la perdita della propria autonomia e libertà.
Enrico Voccia tenta di dare una spiegazione psicologica al consenso della massa; afferma, che molto spesso è una risposta selettiva alle pressioni della conformità di gruppo. Questo meccanismo è coadiuvato dal fatto che le persone sono isolate le une dalle altre146;
«Di fronte all’apparente consenso generale, essendo pericoloso esprimere le proprie percezioni del reale agli altri, preferisce alla fine modificare le proprie idee. Il dissenso dei singoli individui si trasforma così paradossalmente nel consenso della massa»147.
Come scrive J. Balsamo «Le Discours de la servitude volontaire, si on le lit plus attentivement, dénonçait moins le tyran que ceux dont les complaisances et la faiblesse permettaient l’exercise du pouvoir absolu d’un seul»148.
Inerzia dei cittadini, potenza dell’abitudine
146 Cfr. E. Voccia, "Un’ambigua utopia repubblicana", op. cit. 147 Ivi, p. 4.
148 J. Balsamo, "Le plus meschant d’entre eux ne voudroit pas estre Roy. La Boétie et
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«qui change la résignation en acceptation volontaire, séduction du populaire par la satisfaction de ses appétits grossiers et l’étonnement religieux de son imagination, enfin complicité générale par l’instauration de la pyramide à l’intérieur de laquelle chacun s’imagine bénéficier du régime et, tyrannisant plus ou moins, oublie qu il est tyrannisé»149.
È una nuova concezione del potere quella che descrive La Boétie nel Discorso, perché non fa riferimento ad una autorità militare, ma ad una logica della incorporazione150.
«Pensant le langage, nous pensons déjà le politique, délivrés de l’illusion réciproque des agents, accueillir par principe la différence l’un l’autre, faire entendre qu’elle n’est réductible que dans l’imaginaire et, du même coup – ne manquons pas de le relever -, dénoncer le mensonge des gouvernants qui font de l’union de leurs sujets ou de celle des citoyens le signe de la bonne société»151.
149 P. Mesnard, "La Boétie, critique de la tyrannie", op. cit., p. 404. 150 Cfr. P. F. d’Arcais, "Perché oggi", op.cit.
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Capitolo quinto
Aspetti della servitù volontaria oggi
5.1. "La democrazia dispotica" e il "Discorso"
La domanda che mi sono posta è: quali aspetti del concetto di “servitù volontaria” di La Boétie sono ancora validi nel contesto politico e morale italiano attuale? Quali caratteri del concetto espressi nel Discorso ritroviamo nei libri di Michele Ciliberto, Maurizio Viroli e Danilo Zolo, rispettivamente La democrazia dispotica, La libertà dei servi, e Il principato democratico?
Abbiamo visto il ritratto degli individui che emerge dal Discorso: sono persone che acconsentono alla politica del tiranno, non dissentono in nessuna occasione; sono singoli che obbediscono volontariamente al re e quest’ultimo non ha la necessità di adottare lo strumento della guerra o della forza per governare.
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Sono persone che, scrive La Boétie, hanno subìto il fascino del nome dell’Uno152:
«È cosa davvero sorprendente, eppure tanto comune da doversene rattristare piuttosto che stupire, vedere migliaia d’uomini asserviti miseramente, con il collo sotto il giogo, non già costretti da una forza più grande, ma in qualche modo, come sembra, incantati e affascinati dal solo nome di uno»153.
Può sembrare sorprendente, come precisa La Boétie, vedere la maggior parte degli individui obbedire volontariamente ad una sola persona, ad un solo nome.
Come ho scritto precedentemente, le persone descritte da La Boétie sono legate al nome dell’Uno; S. Margel commentando il Discorso sostiene che questo Uno non è nient’altro che il proprio desiderio di potenza per ogni individuo, il quale proietta in quell’unica persona sé stesso.
«Les hommes mutilés “perdus et abandonnés de Dieu, divisés dans leur corps par leur propre désir de puissance, font subir leur malheur, leur souffrance de serf “non pas à celui qui leur en fait, mais à ceux qui endurent comme eux”»154.
152 Abbiamo visto precedentemente il prezioso contributo di J.-P. Cavaillé sull’importanza del
nome, Cfr. J.-P. Cavaillé, "Langage, tyrannie et liberté dans le Discours de la servitude volontaire d’Étienne de la Boétie", op. cit., p. 13.
153 E. de La Boétie, Discorso, op. cit., pp. 4-5.
154 Cfr. S. Margel, "De la résistance volontaire. La Boétie et le corps politique du pouvoir", op.
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Le persone sono quindi divise tra loro da questo desiderio di potenza, sono prive di un legame orizzontale che le tenga unite, ma ognuna è collegata al tiranno tramite un “filo” verticale, che si identifica nel desiderio di governare.
Dobbiamo precisare che vi sono inevitabilmente dei limiti storici e temporali quando paragoniamo il concetto di “servitù volontaria” che emerge dal Discorso a quella che è descritta da Ciliberto, e Viroli.
La Boétie scrive l’opera intorno alla meta del sec. XVI, nel contesto di un governo regio, in una situazione politicamente e socialmente tesa a causa dei conflitti tra le diverse fazioni religiose: quella cattolica e quella protestante.
Ciliberto e Viroli scrivono i due libri nel sec. XXI riferendosi ad un governo democratico, e vivono loro stessi in democrazia con una relativa serenità politica e sociale.
Ciliberto nel suo libro La democrazia dispotica descrivendo la situazione italiana politica e sociale contemporanea, afferma che gli individui sono isolati gli uni dagli altri, non hanno legami sociali e politici che li uniscano. L’immagine della società civile che emerge dal libro di Ciliberto è quella di una comunità disgregata, in cui le persone hanno un comportamento individualista:
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«“individui” isolati, privi ormai di identità comuni, chiusi nel loro interesse e pronti, nella crisi, a dislocarsi, sul piano politico, a destra o a sinistra, a seconda delle loro convenienze»155.
Un elemento accomuna il popolo descritto nel Discorso e quello descritto ne La democrazia dispotica: la solitudine e l’individualismo.
L’autore aggiunge che la sfera dell’autonomia è sempre più intaccata da un nuovo tipo di dispotismo:
«È il problema del “libero arbitrio”, su cui richiamava, con accenti drammatici, l’attenzione Tocqueville nelle pagine finali della seconda Democrazia in America, sottolineando gli effetti nefasti del “nuovo”, “mite”, dispotismo sulla struttura antropologica dell’uomo, sull’autonomia delle singole personalità»156.
Ciliberto mette l’accento quindi sulla sfera dell’autonomia, sul libero arbitrio che spetterebbe ad ogni persona, ma un nuovo tipo di dispotismo cerca di frantumare la sfera della libertà. Per spiegare questo autoritarismo “dolce”, “mite”, l’autore si serve di un classico della storia della filosofia: La democrazia in America di Tocqueville.
155 M. Ciliberto, La democrazia dispotica, op. cit., p. 150. 156 Ivi, p. 186.
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Ciliberto afferma che le cause e gli effetti di ogni dispotismo di tipo “dolce” sia vecchio che nuovo sono gli stessi, la sfera a cui si riferisce è quella della libertà.
«Questa, in effetti, è, ieri come oggi, la causa, e al tempo stesso, l’effetto di ogni dispotismo, antico e nuovo: la “passività” degli individui, delle loro volontà»157.
È proprio della sfera della libertà che si occupa Tocqueville, dell’equilibrio tra la libertà individuale e il potere democratico. Lo storico francese ha l’occasione di studiare sul posto il sistema democratico americano. Di quest’ultimo descrive le caratteristiche e i potenziali pericoli che potrebbero svilupparsi in un tale sistema, soprattutto riferendosi all’Europa, perché l’immagine della democrazia si stava formando in Europa.
Tocqueville teme che da un sistema democratico nasca l’accentramento del potere e il conformismo regolato da una maggioranza di persone, tutti elementi che nella società di antico regime erano ostacolati dalla differenza di potere dei vari ceti sociali; per citare un caso in Francia la nobiltà cercava di contenere il potere della monarchia. Le cose stanno diversamente nelle società politiche post rivoluzionarie, Tocqueville ne La democrazia in America scrive
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«Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima […] Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua»158.
Da questa descrizione emerge il ritratto di individui che pensano al proprio benessere, che vogliono soddisfare i godimenti riguardanti la propria sfera privata. Non interessa loro se il potere che li sovrasta cura il loro benessere e le preoccupazioni, privandoli però dell’ autonomia e tenendoli bloccati in uno stato di infanzia permanente, in quanto li solleva dalle proprie responsabilità.
Ciò che interessa a Tocqueville è la difesa dell’autonomia di ogni singolo in un sistema democratico, non tanto la difesa dell’eguaglianza. Infatti è più facile essere tutti uguali ma servi, che mantenere la libertà e l’autonomia nell’eguaglianza.
Ciliberto sottolinea proprio questa caratteristica negli individui contemporanei: la mancanza di un’autonomia forte, la “passività” delle loro
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volontà. Non a caso nel suo libro l’autore riprende il Tocqueville de La democrazia in America, il quale sostiene che questo nuovo «dispotismo democratico» interessa soprattutto la sfera intellettiva di ogni singolo e «restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione della volontà e toglie poco alla volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di se stesso»159.
Successivamente Ciliberto commenta il nuovo dispotismo descritto da Tocqueville:
«dolce, previdente, mite, con un obiettivo preciso: distruggere l’autonomia dell’individuo – il suo “libero arbitrio” – trasformandolo in un servo passivo del potere: una “servitù, regolata, mite e pacifica”, che si combina “meglio di quanto si immagini con alcune forme esteriori della libertà”, e che può anche “stabilirsi all’ombra della sovranità popolare”»160.
Si tratta dunque di un potere che si comporta in modo simile ad un padre nei confronti di un figlio, ma il suo scopo è privarlo del suo libero arbitrio, trasformandolo appunto in un «servo passivo», si tratta di una servitù «pacifica» non forzata con la minaccia delle armi, ma compatibile con la libertà riguardante la sfera privata. Ciliberto aggiunge che, anche se questa servitù è
159 M. Ciliberto, La democrazia dispotica, op. cit., p. 13. 160 Ibidem.
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«mite» e si forma in un sistema democratico, «ciò non toglie che essi vivano nella servitù; una nuova forma di servitù, ma pur sempre servitù»161.
L’immagine che viene fuori da questa rilettura dell’opera di Tocqueville, è quella di individui che si fanno servi volontariamente, che permettono ad un potere enorme di appropriarsi in modo pacato e pacifico della loro autonomia.
La novità di questo «nuovo dispotismo» è il fatto che sia scaturito da una società nella quale vige l’eguaglianza tra i cittadini e non ci sono più barriere sociali ed economiche come quelle che esistevano nella società feudale. Proprio questa eguaglianza, afferma Tocqueville, porta l’individuo a ripiegarsi su se stesso, a concentrarsi esclusivamente sulla propria sfera privata, sviluppando un «nuovo ethos di carattere “individualistico” da cui sono scaturiti apatia, indifferenza, tendenza alla servitù»162.
Quindi Tocqueville afferma che la democrazia ha portato ad un indebolimento della personalità. Gli individui sono «pronti ad obbedire, senza recriminazioni, al potere centrale che gestisce la loro vita in tutti gli aspetti, a cominciare da quelli quotidiani»163.
Il sistema democratico, almeno quello europeo, afferma l’autore, ha soppresso il principio della libertà «l’unico in grado di ricostituire l’uomo nella sua integrità, facendolo nuovamente padrone del suo destino»164.
161 Ibidem. 162 Ivi, p. 18. 163 Ivi, p. 21. 164 Ibidem.
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Il sistema democratico però non toglie totalmente la libertà, ma solo quella che è vista come una minaccia per la sopravvivenza del potere, quindi la libertà che riguarda la sfera dell’autonomia delle persone.
Questo potere enorme di cui parla Tocqueville e che riprende Ciliberto per interpretare il nostro tempo storico, si afferma grazie alla separazione tra gli individui, ad una frammentazione sociale, ed è direttamente proporzionale alla frantumazione dell’autonomia e della libertà.
La condizione delle persone che vivono in questa «democrazia dispotica», è quella di molti individui, ognuno chiuso in se stesso, in lotta per il proprio riconoscimento e non quella di una collettività nella quale viga un comportamento solidale165. Questa situazione è molto simile a quella che emerge dal Discorso; infatti La Boétie descrive una moltitudine di uomini separati gli uni dagli altri, caratterizzati da un individualismo molto forte che permette solo di legarsi a colui che detiene il potere e non al resto delle altre persone, come invece vorrebbe la natura:
«non è da mettere in dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi, poiché siamo tutti uguali; e a nessuno può saltare in mente che la natura, che ci ha fatti tutti