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Etica ed estetica dell’«uomo nuovo»: Enea eroe di regime

La romanità offriva al regime anche un irresistibile modello cui guardare nel suo tentativo di forgiare l’«uomo nuovo» della rinnovata Italia, il «romano della modernità».240 Il fascismo coltivò

tenacemente nel corso del Ventennio il progetto di una rivoluzione antropologica cui affidava l’obiettivo ambizioso di una vera e propria rigenerazione del carattere nazionale. L’«Italiano Nuovo» di Mussolini non doveva avere «niente di comune con l’Italiano del passato, tranne la comunità delle tradizioni, del costume, della lingua» e doveva rappresentare «l’antitesi più perfetta del cittadino demoliberale ammalato di tutti gli scetticismi debilitanti, di tutte le demagogie, e rendersi ancora fisicamente differente»:241 la palingenesi inseguita e perseguita ossessivamente dal regime attraverso

le sue organizzazioni si presentava dunque come un processo di rinnovamento radicale, che voleva incidere sull’aspetto fisico, sulla condotta morale, sulle abitudini, sui costumi degli italiani. Inteso come una sorta di nuova fucina del carattere, il fascismo avrebbe forgiato una nuova stirpe di uomini

239 MARCHESI, Virgilio, cit., p. 135.

240GENTILE, Il culto del littorio, cit., p. 154.

nuovamente degni, duemila anni dopo, di guidare i destini del mondo nel nome di Roma.

Il mito dell’«uomo nuovo» non rappresentava in realtà un appannaggio esclusivo del regime. Emilio Gentile, nel ripercorrerne peculiarità e modalità della declinazione fascista, ricorda come questo mito abbia accompagnato, dalla rivoluzione francese in poi, tutti quei movimenti che aspiravano a realizzare una palingenesi non solo delle strutture politiche, ma anche del tessuto sociale della propria nazione.242 In Italia il motivo aveva avuto particolare ricorrenza fin dalle fasi iniziali del Risorgimento e aveva in seguito conosciuto una notevole fortuna all’interno dei movimenti avanguardistici e rivoluzionari sorti nel primo quindicennio del secolo, diffondendosi quale nuova parola d’ordine tra i futuristi, i vociani, i nazionalisti, i sindacalisti rivoluzionari, gli interventisti. Questi ultimi ritenevano che la guerra sarebbe stata in grado di accelerare e finalmente realizzare quel processo di rigenerazione tanto atteso – e a loro avviso non più procrastinabile – che avrebbe finalmente rivelato l’Italia agli italiani243 e fatto di loro una grande nazione, scuotendoli dallo stato di torpore in cui il giolittismo li aveva precipitati. Nel mito dell’«uomo nuovo» convergevano dunque, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia, spinte rivoluzionarie, velleità espansionistiche, culto della Patria, volontà di potenza, insoddisfazioni e frustrazioni per l’Italietta liberale e per la sua debolezza nel consesso europeo. Il dopoguerra avrebbe caricato questo motivo palingenetico di altre inquietudini e di una nuova radicalizzazione; l’«uomo nuovo», forgiato dalle trincee, purificato dall’esperienza bellica e consacrato quale vera élite ed aristocrazia morale del Paese, continuava ora la sua guerra sul fronte interno, contro la meschinità della vecchia classe dirigente e il parassitismo della borghesia.244 Il fascismo ereditava, al momento del suo apparire, questo mito, queste aspettazioni: giustamente Emilio Gentile osserva che è lo squadrista «la prima versione del mito fascista dell’italiano nuovo».245 L’obbedienza, lo spirito di sacrificio, il rispetto delle gerarchie, la percezione di sé in una dimensione sovraindividuale, in termini di “corpo d’armata” – attitudini riconducibili all’ethos militare del soldato – vengono ora trasportati nel contesto civile (sebbene all’inizio lo squadrismo sia stato di fatto

242 EMILIO GENTILE, L’«uomo nuovo» del fascismo. Riflessioni su un esperimento totalitario di rivoluzione antropologica,

in Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 235-264. Sulla diffusione del mito dell’«uomo nuovo» nella cultura europea del Novecento, si vedano i contributi raccolti in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», IX, 2002 (in particolare il saggio di LUCA LA ROVERE, «Rifare gli Italiani»: l’esperimento di

creazione dell’uomo nuovo nel regime fascista, alle pp. 51-77).

243 Cfr. MUSSOLINI, Opera omnia, cit., vol. VII, pp. 196-97.

244 «Scaraventati nella fornace, noi siamo stati tutti rifoggiati su di una misura ben differente da quella di prima [...]. Ben

presto dovemmo accorgerci che il vecchio abito borghese era divenuto troppo stretto per il nostro torace allargato e la vecchia vita accidiosa ed egoista non poteva più essere l’ideale di colui che si era abituato a scagliare la propria anima oltre la meta. Molti, pur soffrendone, non capirono il loro disagio del passato, il loro tormento del futuro. Pochi, guidati da Uno, compresero che il combattente che si era foggiato nel crogiolo della guerra, doveva a sua volta rifoggiare la vita. E gettarono i vecchi abiti ammuffiti per indossare ancora la lacera divisa di combattimento». (AUGUSTO TURATI, Ragioni

ideali di vita fascista, Roma, Berlutti, 1926, pp. 180-181).

una realtà paramilitare) e proposti quali virtù essenziali della nuova etica della nazione:

Oggi il Fascismo è un Partito, è una Milizia, è una Corporazione. Non basta: deve diventare qualche cosa di più, deve diventare un modo di vita. Ci debbono essere gli Italiani del Fascismo, come ci sono a caratteri inconfondibili gli Italiani della Rinascenza e gli Italiani della Latinità. Solo creando un modo di vita, cioè un modo di vivere, noi potremo segnare delle pagine nella storia e non soltanto nella cronaca. E quale è questo modo di vita? Il coraggio, prima di tutto, l’intrepidezza, l’amore del rischio, la ripugnanza per il panciafichismo e per il pacifismo. L’essere sempre pronti ad osare nella vita individuale, come nella collettività, ed aborrire tutto ciò che è sedentario. Nei rapporti la massima correttezza, i colloqui a quattro e non le vociferazioni clandestine, animose e vili: l’orgoglio di ogni ora della giornata di sentirsi italiani, la disciplina del lavoro, il rispetto per l’autorità.246

Al pari di altri miti assunti dal regime, il mito dell’«uomo nuovo» non fu esente da oscillazioni e incoerenze. Proposto inizialmente ai soli militanti, cui il primo Mussolini raccomandava l’esercizio della più ferrea disciplina, soprattutto quando «costa sacrificio e rinuncia»,247 nel mito dell’«uomo nuovo» crebbe in seguito l’ambizione di una rivoluzione antropologica totalitaria, rivolta alla rigenerazione dell’intera nazione. Mussolini era convinto che attraverso un’opera capillare e costante di educazione politica e morale, condotta a tutti i livelli della vita pubblica e privata, dall’istruzione scolastica, all’organizzazione del lavoro e del tempo libero, alle attività sportive e ricreative, alla “regolamentazione” della sfera dell’affettività e della famiglia (in particolare nell’aspetto della maternità)248, fosse possibile forgiare secondo i valori e gli obiettivi del fascismo una tipologia di uomini che avrebbe concretamente realizzato la civiltà fascista del futuro, garantendo stabilità e continuità alla Rivoluzione fascista.

Nel raggiungimento di questo fine furono coinvolte e mobilitate le istituzioni statali e culturali, le strutture del partito, la persona stessa del duce. Ma quali erano i valori caratterizzanti dell’«uomo nuovo»? Una sintesi interessante è offerta dalla voce Fascismo dell’Enciclopedia Treccani (1932), redatta da Mussolini, Volpe e Marpicati, vera e propria summa teorica della dottrina fascista:

246 MUSSOLINI, «Intransigenza assoluta». Discorso al Congresso fascista tenutosi all’Augusteo, 22 giugno 1925, ora in

ID., Opera omnia, cit., vol. XXI, pp. 357-364, p. 362.

247 Alla voce Disciplina del Dizionario della dottrina fascista, Amerigo Montemaggiori riporta un frasario

particolarmente significativo della ricorrenza e della durata del motivo, su cui Mussolini insiste in maniera ossessiva dai primi discorsi, precedenti la costituzione del partito, fino agli ultimi anni del regime. Il virgolettato inserito nel testo è tratto da un’affermazione di Mussolini risalente all’aprile 1926 (MONTEMAGGIORI, Dizionario della dottrina fascista, cit., p. 203).

248 Per un approfondimento sul progetto totalitario dello stato fascista nelle sue ripercussioni sulla società italiana si

L'uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l'istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l'individuo, attraverso l'abnegazione di sé, il sacrifizio dei suoi interessi particolari la stessa morte, realizza quell'esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo. [...] Il fascismo vuole l’uomo attivo e impegnato nell’azione con tutte le sue energie: lo vuole virilmente consapevole delle difficoltà che ci sono, e pronto ad affrontarle. Concepisce la vita come lotta pensando che spetti all’uomo conquistarsi quella che sia veramente degna di lui, creando prima di tutto in se stesso lo strumento (fisico, morale, intellettuale) per edificarla. [...] per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenza tutta la vita del popolo.249

Due sono gli aspetti maggiormente posti in risalto, il sacrificio del singolo per un bene superiore, individuato nella nazione, e la volontà. L’accento è posto con insistenza su una concezione della vita non individualistica, ma nazionale, condotta nell’interesse superiore della collettività, cioè dello Stato: «l’uomo fascista è tutto indirizzato alla totalità, risale dal proprio particolare all’unità dello Stato», avrebbe scritto Bottai su «Critica Fascista» nel gennaio 1934.250 Nel nome dello Stato, inteso, totalitariamente, quale unica e piena realizzazione dell’uomo, venivano a cadere i particolarismi, le logiche dell’interesse privato, le contrapposizioni tra i singoli: si affermava «un tipo nuovo di individuo non più in contrasto con tutti gli altri nell’accanita lotta per la vita, ma consapevole e partecipe della solidarietà di gruppo e di nazione».251 Allo Stato l’«uomo nuovo» sacrificava desideri ed aspirazioni, espressione del «proprio particolare»; ne derivavano quindi i caratteri dell'abnegazione di sé e il valore della rinuncia per un bene superiore. Il secondo aspetto è poi quello della volontà. L’«uomo nuovo» vestiva la disciplina come abito morale, rispettava le gerarchie, obbediva agli ordini, esercitava l’autocontrollo. Non ammetteva la paura, viveva per l’azione, era risoluto.

Date queste premesse, Virgilio e in particolare il personaggio di Enea costituivano un esempio paradigmatico particolarmente efficace nell’illustrare virtù e meriti dell’«uomo nuovo» preconizzato dal fascismo. Se è vero che già nelle Georgiche gli interpreti allineati al regime scorgevano

249 MARPICATI, MUSSOLINI,VOLPE, s.v. Fascismo, cit., p. 858. (Ora anche in MUSSOLINI, Opera omnia, cit., vol. XXXIV,

pp. 117-19).

250 GIUSEPPE BOTTAI, Appelli all’uomo, «Critica Fascista», XII, 1,1 gennaio 1934, p. 4. 251 AUGUSTO DE MARSANICH, Civiltà di masse, Firenze, Vallecchi, 1940, pp. 37-38.

l’indicazione di un modello di vita, quello piccolo-contadino, valido anche per il presente e di fatto riproposto con insistenza nell’iconografia del bimillenario, è tuttavia nell’Eneide che trova conferma la tipologia caratteriale che si è cercato brevemente di delineare. Applicato al piano della rappresentazione letteraria, il progetto pedagogico dell’«uomo nuovo» fascista portava ad interpretare Enea come il condottiero «santo nel patire e forte nell’agire»,252 come lo definì Achille Beltrami, l’eroe della «fortezza irremovibile d’animo»,253 colui che sacrifica i propri affetti ad un bene superiore che è poi la fondazione di Roma e l’instaurazione del principato augusteo.

Non c’è traccia dell’inquietudine e della pensosità di quest’eroe così lontano dalla tipologia omerica, né delle sue titubanze, dei suoi tentennamenti;254 la critica insiste sull’obbedienza e sulle doti di dux di Enea, appiattendo di fatto l’affascinante complessità e la ricchezza della figura, la cui pietas rappresenta un insieme di valori strettamente connessi con l’imperativo del «credere, obbedire, combattere» e non ammette alcuna interiorizzazione né drammatizzazione da parte del personaggio.255

Ad eccezione delle due voci dissidenti registrate nelle pagine precedenti, che facevano di Enea sostanzialmente un vinto, rinvenendo proprio in questo aspetto il valore e la verità poetica della figura, prevale la tendenza ad enfatizzare le sue qualità epiche, minimizzandone le innegabili contraddizioni e le incoerenze in cui la narrazione epica sovente inciampa:256

gli eroi virgiliani si turbano e restano indecisi soltanto fino ad un certo punto: quando suona l’ora, dimenticano la vita, e pensano solo allo scopo per il quale combattono, come voleva Tirteo, come fecero le giovani reclute, che coprirono di grigioverde la destra del Piave, per sbarrare la via all’invasione nemica. Virgilio fu il primo ad insegnare lo spirito di sacrifizio per l’idea, ed i suoi eroi sono eroi martiri. Un eroe martire è anche il protagonista, Enea.

252 ACHILLE BELTRAMI, Italia e Roma nell’«Eneide» di Virgilio, in Atti del I° Congresso Nazionale di Studi Romani,

aprile 1928, Roma, Istituto di Studi Romani, 1929, vol. II, pp. 277-290: 281.

253 ANGELO CUSTODERO, L’«Eneide»: poema della Nuova Italia, Torino, Paravia, 1933, p. 29.

254 Il rimando immediato è alla vicenda di Didone (IV libro), al momento cioè in cui Enea sembra addirittura rinunciare

al progetto, voluto dal Fato, della fondazione di una propria città; accanto a questo che resta, probabilmente, l’episodio più grave di “debolezza” dell’eroe, Virgilio non tace sul senso di stanchezza, di smarrimento e di profondo sconforto che coglie il suo personaggio in vari punti della narrazione (I, vv. 92-101; III, vv. 85-89, solo per citare due momenti significativi).

255 Su questo aspetto, si vedano le affascinanti pagine di MARCO FERNANDELLI, Sum pius Aeneas. Eneide I e

l’umanizzazione della pietas, in «Quaderni del Dipartimento di filologia, linguistica e tradizione classica “A. Rostagni”»,

XIII, 1999, pp. 197-231. Fernandelli parla di «pietas come valore rifondato nell’esperienza individuale, come idea intensamente umanizzata e, per ciò stessa, investita di problematicità» (Ivi, p. 229).

256 Costituisce un’eccezione l’interpretazione, per la verità precedente il Bimillenario, di Nicola Terzaghi, filologo

classico e docente prima presso l’Università di Torino, poi di Firenze, che nel suo Virgilio ed Enea si sofferma ampiamente sul carattere scarsamente epico del protagonista, riconducendo tale caratterizzazione all’intenzione celebrativa non tanto del progetto politico di Augusto, quanto del suo disegno di rinnovamento religioso. Si veda NICOLA TERZAGHI, Virgilio ed Enea, Palermo, Sandron, 1928.

Chi ha chiamato Enea «un pio automa», «il pio fantoccio» che «vince senza far nulla, biascicando orazioni», non ha capito la poesia di Virgilio, e non sa, o non pensa che cosa sia il sacrifizio dell’individuo per la collettività.257

Il parallelo attualizzante, fondato sulla rivendicazione della continuità, è formulato ancora una volta attraverso il riferimento alla Prima Guerra Mondiale e ai soldati che combatterono sul Piave, divenuto un vero e proprio simbolo della retorica fascista dell’eroismo e del sacrificio.258 Anche l’Eneide, in questa lettura, veniva a costituire un tassello significativo nell’opera di esemplificazione delle virtù che conducono, per linea genetica, all’«uomo nuovo», e che un sistema scolastico basato sul prestigio della classicità contribuiva, proprio attraverso la scuola, a rilanciare. Il riferimento all’eroismo dei soldati italiani accreditava poi l’idea che «la vicenda di Enea [potesse] essere compagna solo a maschie generazioni»,259 cioè a coloro che, rinnovati dalla guerra, erano ora pronti a rilanciare la

grandezza dell’Italia fascista:260

È bastata una rapida corsa attraverso il poema per vedere e sentire ad ogni passo quanta parte dell’anima nostra vibri in esso e quanta parte dell’anima latina riviva nella nostra generazione che ha visto nella luce radiosa di Vittorio Veneto risplendere un raggio dell’antico impero; e scavando nelle tormentate doline del Carso, ha raccolto dal suolo profondo, dove giacevano sepolti da lunghi secoli, i fasci non ancora logori dei nostri Padri. E quali orizzonti abbiamo scoperti, salendo, di trincea in trincea, le cime delle nostre Alpi, e mari e terre vastissime a noi precluse! Arma la prora e salpa verso il

mondo grida il nostro poeta-soldato per spingerci ad uscire fuori dall’angusta

cerchia […]. Qual libro dovremo dare come viatico ai nostri fratelli che percorrono il Mediterraneo, o varcano l’Oceano, in cerca di nuovi e più ampi confini per la Patria? Nessuno risponde meglio alle presenti nostre aspirazioni che questo vecchissimo e giovanissimo poema, il più vecchio e insieme il più giovine di quanti ne abbia l’Italia.261

257 PAOLO FABBRI, Virgilio poeta sociale e politico, Milano, Società Editrice Dante Alighieri, 1929, pp. 208-209. Fabbri

allude polemicamente ad una definizione espressa da Guglielmo Ferrero nella sua monumentale storia di Roma,

Grandezza e decadenza di Roma, in 5 voll., pubblicata per l’editore Treves di Milano tra il 1901 e il 1907.

258 Un medesimo accostamento tra Eneide e valore dell’esercito italiano si trova anche in FRANCESCO VERRENGIA, Il

sentimento nazionale di Virgilio attraverso le «Georgiche» e l’«Eneide», cit., p. 28: «Virgilio rivive nei tempi moderni

anche con l’Eneide, in cui si rispecchia l’impresa gloriosa del nostro magnifico e poderoso esercito. […] La battaglia di Vittorio Veneto, per le grandi forze impiegate, ed i grandi risultati ottenuti, ha già i caratteri della leggenda».

259 DOTT-SOTTA, Palinodia virgiliana, in Bimillenario virgiliano, cit., pp. 75-77: 76.

260 Il mito del reduce cui affidare la ricostruzione morale e materiale di un’Italia destinata a “tornare grande”, autentica

realizzazione dell’«uomo nuovo», si trova bene attestato nel fortunato romanzo di MARIO CARLI, L’italiano di Mussolini:

romanzo dell’era fascista, Milano, Mondadori, 1930.

261 ANGELO CUSTODERO, L’«Eneide»: poema della Nuova Italia, cit., p. 65. Il motivo dell’espansione e dell’esplorazione

(ma in chiave politica) di nuove terre, qui accennato attraverso il riferimento al celebre verso dannunziano (La nave, 1908), giustifica l’accostamento, da parte di Custodero, della figura di Cristoforo Colombo a quella di Enea: «simili

L’insistenza sulla virilità quale elemento fondamentale nella lettura del personaggio di Enea si inseriva in realtà nel contesto più ampio di una “virilizzazione” che investiva quasi interamente tutti gli ambiti e le funzioni della socialità, in quanto principio normativo sia della costruzione dell’identità individuale che delle pratiche collettive. È un aspetto che condurrebbe lontano e che è bene lasciare sullo sfondo;262 basterà qui sottolineare come anche la letteratura, e nel caso specifico l’Eneide, si prestassero a veicolare una rappresentazione del mondo fortemente sessuata, all’interno della quale «il culto della giovinezza, del dovere, del sacrificio e delle virtù eroiche, della forza e del vigore, dell’obbedienza, dell’autorità e della potenza fisica», che ritroviamo variamente incuneate nel culto della romanità e ad un livello più generale nello stesso fascismo, «sono tutte declinazioni di quel termine principale, virilità».263

«Un secondo valore originale del poema è la vivida affermazione dell’italianità».264 L’esaltazione ossessiva in chiave nazionalistica di Virgilio e di Enea non sfuggiva in realtà ad una contraddizione solo da poche voci apertamente formulata:

Credo infatti unico al mondo l’esempio di un’epopea nazionale come la nostra, dove l’eroe principe non è un indigeno ma uno straniero, dove tutto culmina nell’esaltazione dello straniero, presentato come il fondatore dello stato, come il tipo dell’uomo perfetto, come il messo di Dio, di fronte al quale l’elemento indigeno passa in seconda linea e si rende subordinato.265

L’osservazione evidenziava un aspetto del mito potenzialmente esplosivo dal punto di vista ideologico e probabilmente, pochi anni più tardi, con lo svilupparsi di una vera e propria ossessione razziale, non sarebbe stata formulata con la stessa leggerezza. L’Eneide costituiva un’opera particolarmente problematica dal punto di vista identitario, per la complessità del rapporto tra stato, popolo, etnicità e spirito “nazionale” che emergeva al suo interno. In Virgilio il popolo romano appariva come l’esito dinamico di una lunga evoluzione storica, realizzata attraverso fusioni, scambi, incontri tra genti diverse. Questo aspetto non costituiva un problema (anzi, una visione “aperta” della

nell’indomita costanza del carattere e nella dolcezza dell’indole, simili nella profonda pietà religiosa, simili nella coscienza che avevano dell’ardua missione loro affidata dal cielo, Enea e Colombo lasciavano il piccolo mondo conosciuto, cercando […] un mondo nuovo e maggiore, […] una più lontana Esperia, per portarvi i sacri pegni della Patria» (Ivi, pp. 37-38).

262 Cfr. BARBARA SPACKMAN, Fascist Virilities. Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, Minneapolis, Minnesota

University Press, 2008. Vd. anche SANDRO BELLASSAI, Il virile ventennio, in L’invenzione della virilità. Politica e

immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma, Carocci, 2011, pp. 63-164.

263 SPACKMAN, Fascist Virilities. Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, cit., p. XII. Traduzione mia. 264 GIUSEPPE FANCIULLI, Antologia classica per la 3a classe della scuola media, Torino, SEI, 1942, p. 414.