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Romanità fascista: una nuova mitologia per la nazione

Negli ultimi vent’anni un dibattito storiografico spesso vivace e arricchito dagli apporti di nuovi filoni di ricerca ha progressivamente illuminato una stagione turbolenta della storia italiana come quella che portò alla nascita e all’affermazione del fascismo.140

Negli anni intercorsi tra l’entrata in guerra dell’Italia, nel «maggio radioso» celebrato tra le fila interventiste – nelle quali militava anche l’ex socialista Benito Mussolini –, e la pace di Versailles (1919), segnata dal mito della “vittoria mutilata” e da una difficile transizione politica e socio- economica, maturano le condizioni di sviluppo e crescita di un movimento eterogeneo, che aveva la violenza come sua componente costitutiva e che, ancora confusamente, in quella sua prima fase aurorale, si presentava come antipartitico, repubblicano, antistatalista e libertario: il 23 marzo 1919

140 Costituisce una buona sintesi dello stato del dibattito storiografico e delle nuove prospettive di elaborazione degli

eventi che conducono all’affermazione del partito fascista in Italia GIULIA ALBANESE, La crisi dello Stato liberale e le

origini del fascismo, in «Studi Storici», XLV, 2, aprile-giugno 2004, pp. 601-608; tra i contributi recenti che hanno

richiamato l’attenzione sull’importanza, fin dalle origini del fascismo, dell’assunzione di una mitologia, si segnalano in particolare i lavori di EMILIO GENTILE, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma- Bari, Laterza, 2009 (1993); ID., Fascismo di pietra, Roma-Bari, Laterza, 2010.

nascevano a Milano i Fasci italiani di combattimento, che raccoglievano intorno alla figura carismatica di Mussolini reduci di guerra dal difficile reinserimento nella società civile, ex interventisti e nazionalisti delusi dagli esiti del processo di pace.

La cronaca dei due anni successivi avrebbe registrato aggressioni quasi quotidiane contro braccianti, leghe, militanti sindacali, esponenti e sedi di partito, cooperative di consumo e di produzione, scuole popolari, circoli culturali, tipografie, municipi, nella frequente connivenza di esercito e prefetture. Le consultazioni del 15 maggio 1921, avvenute in un clima di grande instabilità e paura, portarono infine all’elezione dei primi trentacinque deputati fascisti alla Camera e mostrarono a Mussolini che era giunto il momento di consolidare il suo movimento in partito. È con questa stabilizzazione141 che compaiono i primi riferimenti organici a quello che sarebbe diventato in breve tempo il mito fascista della romanità.142

L’esaltazione della romanità, presto intesa come sinonimo di autentica italianità, da riaffermare in contrapposizione alla “degenerazione” dell’«Italietta liberale» e concretizzata in una serie di pratiche esteriori e nell’esibizione di una gestualità accuratamente codificata e cerimoniale, servì, in una fase iniziale, da collante per un movimento che si presentava fortemente disomogeneo al suo interno e non privo di profonde contraddizioni. In questa prospettiva, l’adozione di simboli e di riti romani (il

141 Il 7 novembre 1921 nasceva il Partito Nazionale Fascista, con segretario Michele Bianchi, ex socialista e sindacalista

rivoluzionario, interventista e combattente, già tra i fondatori del movimento dei Fasci Italiani di Combattimento. Nel 1922, con oltre 200.000 iscritti, il PNF si presentava come la più forte organizzazione politica del paese e preparava la sua rapida scalata al potere.

142 Il primo riferimento di Mussolini a Roma antica è contenuto in un discorso tenuto a Trieste il 20 settembre 1920. Vi

ricorrono i motivi già riscontrabili nel Mussolini interventista e direttore del «Popolo d’Italia»: l’insistenza sulla «vitalità della stirpe», sull’italianità di Trieste, consacrata dalla guerra; l’elogio di D’Annunzio, «il più grande poeta d’Italia»; la critica del bolscevismo e il ruolo del fascismo nel «tenere testa alla demagogia con coraggio, energia ed impeto». Al motivo dell’italianità, Mussolini lega l’importanza dell’eredità romana: «Ora noi rivendichiamo l’onore di essere italiani, perché nella nostra penisola, meravigliosa e adorabile […] s’è svolta la storia più prodigiosa e meravigliosa del genere umano. […] Roma è il nome che riempie tutta la storia per venti secoli. Roma dà il segnale della civiltà universale; Roma che traccia strade, segna confini e che dà al mondo le leggi eterne dell’immutabile suo diritto» (BENITO MUSSOLINI, in «Popolo d’Italia», 24 settembre 1920, ora in Opera omnia, a c. di EDOARDO e DUILIO SUSMEL, vol. XV, Firenze, La Fenice, 1952, pp. 214-223: 217).

Il mito fascista della romanità è stato oggetto di indagini scrupolose e puntuali. Per una panoramica ragionata sull’ampia bibliografia prodotta, si rimanda a JAN NELIS, La romanité (romanità) fasciste. Bilan des recherches et propositions pour

le futur, «Latomus», LXVI, 4, ottobre-dicembre 2007, pp. 987-1006. Dello stesso autore, si vedano anche Constructing Fascist Identity: Benito Mussolini and the Myth of Romanità, «Classical World», C, 4, 2007, pp. 391-415; From Ancient to Modern: the Myth of Romanità During the Ventennio Fascista. The Written Imprint of Mussolini’s Cult of the Third Rome, Bruxelles-Roma, Institut historique belge de Rome, 2011. Tra i lavori che costituiscono un punto di partenza

fondamentale per chi voglia indagare il rapporto tra il fascismo e la classicità romana, si vedano almeno MARIELLA CAGNETTA, Antichisti e impero fascista, Bari, Dedalo, 1979; LUCIANO CANFORA, Ideologie del classicismo, Torino, Einaudi, 1980; ANTONIO LA PENNA, La rivista «Roma» e l’Istituto di Studi Romani. Sul culto della romanità nel periodo

fascista, in BEAT NÄF (hrsg.), Antike und Altertumswissenschaft in der Zeit von Faschismus und Nationalsozialismus, Kolloquium Universität Zürich 14-17 Oktober 1998, Mandelbachtal-Cambridge, Cicero, 2001, pp. 89-110.

saluto a braccio teso, il fascio littorio, la marcia cadenzata,143 l’origine romana della terminologia con cui Mussolini aveva battezzato le nuove strutture paramilitari del suo movimento: manipoli, centurie, coorti e legioni) e il costante riferimento all’idea di Roma costituivano molto più di un semplice richiamo ad un passato illustre nei confronti del quale ci si poneva come eredi e continuatori, ma rappresentavano il tentativo di offrirsi come nuova religione politica144 e di proporre un immaginario rinnovato a quella che si voleva far diventare una nuova nazione. L’assunzione del mito della romanità va dunque legata al tentativo di affermare la propria legittimità fondandola su un patrimonio ideale ancora eloquente, capace di alimentare una fede politica, di sostenere una militanza che aveva bisogno, come suo combustibile, di riconoscersi nei simboli e nei riti di una propria liturgia.145 Nel richiamarsi a questo modello, il fascismo si riallacciava, in parte, ad una mitologia che era già stata fatta propria dal nazionalismo.146 Rispetto a quella tradizione, tuttavia, inedita era la sistematicità del recupero e la sua trasformazione in uno strumento operativo, in una straordinaria macchina del consenso che avrebbe sorretto e accompagnato la parabola evolutiva del regime fino alla sua caduta. L’efficacia del paradigma proposto e imposto dal fascismo si manifestava sul piano fattuale- organizzativo e soprattutto sul piano ideologico. Se è vero che il riferimento ad un modello rigidamente gerarchizzato e l’insistenza ossessiva sulla disciplina, sul sacrificio di sé, sull’abnegazione ad un ideale superiore, erano necessari a Mussolini per controllare un movimento che si presentava, lo si è già sottolineato, ancora molto eterogeneo, è sul piano identitario, dell’auto- rappresentazione ideale, che il mito della romanità svela tutto il suo potenziale ideologico. Condotto fino ai limiti di quella che Luciano Canfora definisce una vera e propria «romanolatria»,147 il culto di Roma fornì al regime un solido fondale cui ancorare il senso di un’appartenenza comune e, allo stesso

143 «Noi anche così abbiamo abolito e tendiamo ad abolire il gregge, la processione. Noi aboliamo tutto ciò e sostituiamo

a queste forme di manifestazioni passatiste la nostra marcia, che impone un controllo individuale ad ognuno, che impone a tutti un ordine e una disciplina. Perché noi vogliamo appunto instaurare una solida disciplina nazionale, perché pensiamo che senza questa disciplina l’Italia non può divenire la nazione mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni» (BENITO MUSSOLINI, Discorso di Bologna (3 aprile 1921), in Scritti e discorsi. La rivoluzione fascista (23 marzo 1919-28 ottobre

1922), Milano, Giuffré, 1938, vol. II, p. 156). Sull’adozione del fascio littorio, si veda GENTILE, Il culto del littorio, cit., p. 74-80.

144 Si veda la voce Fascismo dell’Enciclopedia Treccani, redatta da Arturo Marpicati, Gioacchino Volpe e dallo stesso

Mussolini nel 1932, vera e propria summa teorica e dottrinale del movimento: «Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l'uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l'individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale» (ARTURO MARPICATI, GIOACCHINO VOLPE, BENITO MUSSOLINI, Fascismo, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere, arti, vol. XIV, Roma, Treves-Treccani- Tumminelli, 1932, p. 858; corsivo mio).

145 Romke Visser definisce questo aspetto come «theatrical use of romanità», funzionale all’ottenimento di un consenso

popolare emotivo ed immediato, cui non va disgiunto (ma ad un livello più alto di astrazione) un uso della romanità più ideologico e strutturato all’interno della dottrina fascista. Cfr. ROMKE VISSER, Fascist Doctrine and the Cult of the

Romanità, in «Journal of Contemporary History», XXVII, 1, January 1992, pp. 5-22: 6.

146 Su questo aspetto si rimanda a LORENZO BRACCESI, L’antichità aggredita. Memoria del passato e poesia del

nazionalismo, Roma, L’«Erma» di Bretschneider, 2006.

tempo, costituì un dispositivo mobile attraverso il quale di volta in volta ridefinire e rilanciare obiettivi politici e sociali anche ambiziosi. Ogni ricostruzione del passato è, in quanto rielaborazione ex post di un evento, ideologica: la lettura della storia e della cultura romane messa in atto dal fascismo costituiva dunque un modello operativo e ideologicamente connotato attraverso cui proporre e realizzare una precisa Weltanschauung.

Ma che cosa rappresentava concretamente la romanità per il fascismo? In un articolo apparso nel 1937 sull’organo di stampa dell’Istituto di Studi Romani, la rivista «Roma», Carlo Galassi Paluzzi fornirà un elenco dettagliato e piuttosto diversificato di che cosa si dovesse intendere per romanità:

L’amore invincibile e bene ordinato per l’universale; la necessità di creare e mantenere l’ordine; equilibrio armonioso ed armonico fra le varie facoltà umane; il senso del possibile e del limite; l’aderenza spontanea alla realtà, gli sconfinati ideali di conquista ed impero sulle anime non meno che sui corpi, coordinati, però e, ove occorra, subordinati alle necessità del reale; la vastità nel concepire, la possanza guerriera nell’agire; la perseveranza indefettibile nel conseguire; il buon senso in filosofia; la forza e la dignità nelle arti plastiche; il magistero di perfetta espressione nelle lettere; la sapienza somma nel giure; l’attitudine istintiva ed insuperabile nel governare; l’ius e l’etica considerati sempre ben superiori all’estetica e alla logica formale; il carattere considerato massima espressione dell’uomo; la vocazione veramente divina ad ordinare, governare, normalizzare popoli e cose, ed essere centro e norma di vita: ecco ciò che si può ritenere essenzialmente e perennemente essere “romanità”.148

Se l’articolo appartiene ad anni più tardi rispetto a quelli che qui si sta considerando, tuttavia la concezione della romanità che Galassi Paluzzi tenta di mettere a fuoco corrisponde a quell’insieme confuso di idealità e aspirazioni riscontrabile fin dai primi discorsi di Mussolini. La romanità può risultare in quest’articolo il prodotto di una sistematizzazione più elaborata, con l’inserimento del riferimento alle arti plastiche, alla filosofia, alle lettere, ad esempio, ma non si discosta significativamente dai moniti e dalle esortazioni degli inizi. Ciò che cambia, nel Ventennio, è la sua graduale trasformazione in una risorsa politica sempre più persuasiva, frutto di una progressiva elaborazione condizionata dall’ideologia; caduto il regime, sarà necessario fare i conti con questa strumentalizzazione del classico e con le sue falsificazioni, attraverso un graduale e non facile processo di riscoperta e “defascistizzazione” della tradizione culturale. Accadrà anche per la figura e l’opera di Virgilio.

148 Ricavo il passo da ANTONIO LA PENNA, Il culto della romanità nel periodo fascista, in «Italia Contemporanea», XXVI,

217, dicembre 1999, pp. 606-630: 623. L’articolo di Galassi Paluzzi apparve originariamente su «Roma», n.15, 1937, pp. 190 sg.

L’assunzione del modello romano era tanto più significativa dal momento che nei confronti della Roma reale, città capitale del Regno d’Italia dal 1871, il primo fascismo mantenne un atteggiamento di malcelata diffidenza, quando non di aperto disprezzo,149 contrapponendo alla «città parassitaria» l’operosa Milano, capitale morale del paese. Contro la Roma reale, nella quale sembravano condensarsi fino al parossismo tutti i mali della borghesia liberale, si stagliava però la Roma del mito:

Eleviamo, dunque, con animo puro e sgombro da rancori il nostro pensiero a Roma, che è una delle poche città dello spirito che ci siano nel mondo, perché a Roma, tra quei sette colli così carichi di storia, si è operato uno dei più grandi prodigi spirituali che la storia ricordi; cioè si è tramutata una religione orientale, da noi non compresa, in una religione universale, che ha ripreso sotto altra forma quell'imperio che le legioni consolari di Roma avevano spinto fino all'estremo confine della terra. E noi pensiamo di fare di Roma la città del nostro spirito, una città, cioè, depurata, disinfettata da tutti gli elementi che la corrompono e la infangano; pensiamo di fare di Roma il cuore pulsante, lo spirito alacre dell'Italia imperiale che noi sogniamo.150

Mussolini ritornò in numerose occasioni sulla vitalità dell’eredità romana e sul carattere non intellettualistico, non paludato, del suo recupero. Nel 1922, in occasione della celebrazione del Natale di Roma (21 aprile), che due anni dopo avrebbe ufficialmente sostituito, non a caso, la festa socialista del Primo Maggio, Mussolini precisava che

Celebrare il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa esaltare la nostra storia e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l’avvenire. Roma e l’Italia sono infatti due termini inscindibili. […] Certo, la Roma che noi onoriamo,

149 Lo sottolinea Emilio Gentile nel suo Fascismo di pietra, cit., pp. 3-21. Gentile riporta un ricordo di Giuseppe Bottai,

che vent’anni dopo la fondazione del Partito Nazionale Fascista, avvenuta proprio a Roma, al Teatro Augusteo, il 7 novembre 1921, scriveva, ricordando quel momento fondativo: «Difficile fascismo, quello di Roma! […] di questa città, che era ad un tempo il bersaglio e la meta; era la città vituperata e la città agognata; era la città contro cui si doveva combattere e la città per cui si combatteva». (GIUSEPPE BOTTAI, Nel ventennale della marcia. Roma contro Roma, «Capitolium», XVII, 11, novembre 1942, pp. 331-334: 332). Molto prima della fondazione del partito, in un articolo del 1910, lo stesso Mussolini, allora collaboratore de «La Voce», con la virulenza che gli era propria descriveva Roma come «città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati, […] il centro e il focolare d’infezione della vita politica nazionale», una «enorme città-vampiro che succhia il miglior sangue della nazione». (BENITO MUSSOLINI, Il giornalismo della capitale, in «Lotta di Classe», XXXVII, 17 settembre 1910, ora in Opera omnia, cit., vol. III, pp. 190-191). Sull’antiromanismo di Mussolini e del primo fascismo (comune anche ad alcune componenti della sinistra repubblicana e socialista), si vedano, tra i molti lavori disponibili sull’argomento, la sintesi di JOSHUA ARTHURS, The Eternal Parasite: Anti-romanism in Italian Politics and Culture Since 1860, in «Annali d’Italianistica», XXVIII, 2010, pp. 117-136 e il già citato GENTILE, Fascismo di pietra, cit., pp. 23-31.

150 Discorso pronunciato da Mussolini a Udine il 20 settembre 1922 in occasione del convegno dei Fasci Friulani di

Combattimento e pubblicato sul «Popolo d’Italia» il 21 settembre 1922, ora in Opera omnia, cit., vol. XVIII, pp. 411- 421: 412.

non è soltanto la Roma dei monumenti e dei ruderi, la Roma delle gloriose rovine fra le quali nessun uomo civile si aggira senza provare un fremito di trepida venerazione. […] La Roma che noi onoriamo, ma soprattutto la Roma che noi vagheggiamo e prepariamo, è un’altra: non si tratta di pietre insigni, ma di anime vive: non è contemplazione nostalgica del passato, ma dura preparazione dell’avvenire. Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento; è il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito. Noi sogniamo l’Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale. Molto di quel che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo: romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio: «Civis romanus sum».151

Tra i poli opposti della continuità e della discontinuità si snoda il rapporto del fascismo con la romanità.152 Continuità rispetto ad una storia di cui, lo si è già sottolineato, ci si sente eredi diretti in linea genetica e discontinuità rispetto ad un passato prossimo che quell’eredità ha tradito e svilito e rispetto al quale il regime si impegnò costantemente e fin da subito ad affermare la propria radicale alterità. La dialettica appena richiamata non si sottraeva, soprattutto per le punte più avanzate ed estremiste del movimento mussoliniano, ad una contraddizione di fondo: nel presentarsi come rivoluzionario, come ferma e drastica rottura rispetto ai governi liberali precedenti, il fascismo ambiva a rappresentare un nuovo inizio per l’Italia, «un cominciamento assoluto».153 Richiamarsi al passato,154 seppure ad un passato illustre, significava per alcuni ridimensionare e condizionare pesantemente questa aspirazione palingenetica. Con la stabilizzazione seguita alla prima fase irregolare dello squadrismo, Mussolini esercitò gradualmente un controllo sempre maggiore sulle frange più irrequiete del suo movimento e mise a tacere dissidenze e contraddizioni.155 Il parallelo

151 MUSSOLINI, Opera omnia, cit., vol. XVIII, pp. 160-161.

152 Cfr. ROGER GRIFFIN, Modernism and Fascism: The Sense of a Beginning under Mussolini and Hitler, London,

Palgrave Macmillan, 2007.

153 CARLO SCORZA, Brevi note sul Fascismo, sui capi, sui gregari, Firenze, Bemporad, 1930, p. 207.

154 Pier Giorgio Zunino sottolinea come, nel fascismo, «l’immagine del passato non finì mai per schiacciare la dimensione

del presente e tanto meno si configurò come un richiamo intensamente nostalgico. Il senso del passato del fascismo non aveva nessun punto di contatto con le nostalgie reazionarie che avevano dato sostanza, per fare un esempio, alla predicazione di Maurras in Francia. […] La rimemorazione del passato servì come strumento di legittimazione e di identificazione, […] nel fascismo più che desiderio di passato c’era la necessità del passato». (PIER GIORGIO ZUNINO,

L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 69).

155 Questo passaggio verrà esplicitamente menzionato all’interno della voce Fascismo contenuta nell’Enciclopedia

Treccani: «[…] quell’esaltazione fascista di Roma antica e dei valori spirituali da essa rappresentati, che poi diventa uno dei motivi centrali del fascismo e che segna il suo pieno distacco dal fascismo degl'iniziatori, quasi sospeso fra cielo e

terra e senza terreno storico sotto i piedi» (MARPICATI,VOLPE,MUSSOLINI, Fascismo, cit., p. 858; corsivo mio). La dialettica tra passato e presente, ricondotta nell’alveo di un confronto che non poneva insidie ideologiche, di pericolosa contrapposizione interna, rimase tuttavia attiva e vitale nel fascismo fino agli anni Trenta; ancora nel 1928, Salvatore Gatto, giornalista, poi vicesegretario del PNF, esortava, dalle colonne del «Raduno», settimanale «di battaglia dei Sindacati autori e scrittori, artisti e musicisti», ad una ricreazione primigenia dell’Italia, contro il pericolo che ci si limitasse ad una esaltazione del suo passato: «Non possiamo e non dobbiamo imbastardire la nostra anima e la nostra

con Roma (e soprattutto, a partire dagli anni Trenta, con la Roma imperiale) non avrà più bisogno di alcuna giustificazione e il «passato che s’infutura»156, per usare un’espressione di Cesare Maria De Vecchi, diventerà un topos costante della propaganda del regime.

2.2 «L’antico, il nuovo, l’eterno vate»: il Bimillenario virgiliano (1930)

Nel 1924 la Società italiana per la diffusione e l’incoraggiamento degli studi classici annunciava con un proclama in latino sulla sua rivista, «Atene e Roma», che avrebbe partecipato con un proprio «programma di commemorazione virgiliana» alle celebrazioni previste per il bimillenario della nascita del poeta, festeggiato sei anni più tardi, nel 1930.157 L’insolito anticipo con cui la Società fiorentina rendeva nota la sua adesione è segno del grande fermento che intorno alla figura di Virgilio andava producendosi in quegli anni e diretta conseguenza dell’enfasi che il regime aveva posto nell’esaltazione della romanità a proprio mito fondativo.

La ricorrenza mobilitava infatti non solo le istituzioni e gli enti più direttamente coinvolti nella promozione della cultura classica, ma anche lo stesso regime, per il quale il Bimillenario virgiliano rappresentava un’imperdibile vetrina a livello internazionale e un’occasione preziosa di consolidamento del proprio prestigio sul fronte interno, in un momento peraltro già contraddistinto da un alto livello di stabilità e di consenso, all’indomani della stipula dei Patti Lateranensi (1929) e