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Dal Porto Sepolto al Sentimento del tempo: poetica della parola, poetica della memoria

Capitolo III Per un’epica dei vinti:

3.1 L’«ammotorato viandante»: mito e riscrittura del mito nel Passaggio d’Enea di Giorgio Capron

3.2.1 Dal Porto Sepolto al Sentimento del tempo: poetica della parola, poetica della memoria

Conclusa l’esperienza della guerra,342 registrata nel Porto sepolto (prima edizione stampata ad Udine, presso lo Stabilimento Tipografico Friulano, nel dicembre 1916, in ottanta esemplari, a cura del «Gentile / Ettore Serra»;343 poi confluito in Allegria di Naufragi (1919), ma la sistemazione definitiva

342 Allo scoppio del conflitto, Ungaretti si arruola volontario e nel novembre 1915 viene inviato come soldato semplice

di fanteria sul fronte del Carso, inquadrato nella brigata Brescia, ottava compagnia, 19° reggimento. Per il poeta senza patria, «frutto / d’innumerevoli contrasti d’innesti» (come egli stesso si definisce nella lirica Italia), la guerra rappresenta innanzi tutto la possibilità di affermare la sua appartenenza all’Italia: «Sono un estraneo. Dappertutto. Mi distruggerò al fuoco della mia desolazione? E se la guerra mi consacrasse italiano? Il medesimo entusiasmo, i medesimi rischi, il medesimo eroismo, la medesima vittoria». (Lettera a Giuseppe Prezzolini del novembre 1914, in GIUSEPPE UNGARETTI,

Lettere a Giuseppe Prezzolini 1911-1969, a c. di MARIA ANTONIETTA TERZOLI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, p. 29).

343 «La colpa fu tutta sua. A dire il vero, quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di

care lettere ricevute… – sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli con me a vivere nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico. […] Questo era l’animo del soldato che se ne andava quella mattina per le strade di

della raccolta avverrà solo nel 1931, con la pubblicazione, per Preda, de L’Allegria), negli anni Venti la poesia di Ungaretti torna a rivolgersi alla tradizione.

Non si tratta, tuttavia, di un brusco cambio di direzione rispetto all’innovativa poetica che nella raccolta precedente trovava puntuale e coerente sviluppo: come nota Daniela Baroncini, «l’esperienza del nuovo» – rappresentata proprio dalle liriche del Porto sepolto – «non viene dimenticata, ma diventa il presupposto necessario della classicità ritrovata».344 La poetica della «parola innocente» si perfeziona ora alla luce della «lenta conquista»345 della tradizione; «lo stupore contemplativo» che aveva avvinto il poeta, nel confronto con la parola «che mi si risuscitava in tutta la sua vita millenaria»346 – parola come scavo, dunque, come esito cui approda la perlustrazione (scandaglio) di una infinita profondità interiore, vero e proprio abisso, con una essenzialità ed urgenza rivelate proprio dalla guerra347 – si salda all’esigenza di restituire alla parola un «peso» e una consistenza che saranno recuperati attraverso la memoria. Alla parola franta delle liriche di guerra, isolata sulla pagina, che emerge dall’oblio del «porto sepolto» come espressione di una purezza adamitica, originaria, si affianca il tentativo di pronunciare una parola che «non comincia da se stessa», come

Versa, portando i suoi pensieri, quando fu accostato da un tenentino. Non ebbi il coraggio di non confidarmi a quel giovine ufficiale che mi domandò il nome, e gli raccontai che non avevo altro ristoro se non di cercarmi e di ritrovarmi in qualche parola, e ch’era il mio modo di progredire umanamente. Ettore Serra portò con sé il tascapane, ordinò i rimasugli di carta, mi portò, un giorno che finalmente scavalcavamo il San Michele, le bozze del mio Porto Sepolto» (GIUSEPPE UNGARETTI,

Note a L’Allegria, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a c. di CARLO OSSOLA, Milano, Mondadori, 2009, p. 755). Sulla tendenza a fornire ricostruzioni della genesi del proprio lavoro funzionali a rafforzare la mitografia del rapporto vita- opera, cfr. ANTONIO SACCONE, Ungaretti, Roma, Salerno Editrice, 2012, pp. 23-25.

344 DANIELA BARONCINI, Ungaretti e il sentimento del classico, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 7. Andrà anche osservato

con quanta cura Ungaretti cerchi, nel lungo percorso autoesegetico che accompagna la sua poesia, di “armonizzare” le sue diverse stagioni nel racconto monodico e lineare della «vita d’un uomo», delineando un itinerario poetico ed esistenziale di sviluppo coerente e sempre consequenziale che emerge fin dalla scelta di premettere ad ogni raccolta, a partire dal 1942, il programmatico titolo di Vita d’un uomo.

345 UNGARETTI,Note a Sentimento del tempo, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p.763.

346 UNGARETTI,Verso un’arte nuova classica, in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a c. di MARIO DIACONO e LUCIANO

REBAY, Milano, Mondadori, 1974, pp. 13-16: 15.

347 «La guerra improvvisamente mi rivela il linguaggio. Cioè io dovevo dire in fretta perché il tempo poteva mancare, e

nel modo più tragico… in fretta dire quello che sentivo e quindi se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche parole, e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo dire con parole che avessero avuto un’intensità straordinaria di significato. E così si è trovato il mio linguaggio: poche parole piene di significato che dessero la mia situazione di quel momento: quest’uomo solo in mezzo ad altri uomini soli, in un paese nudo, terribile, di pietra, e che sentivano, tutti questi uomini ciascuno singolarmente, la propria fragilità». (GIUSEPPE UNGARETTI, Ungaretti commenta Ungaretti, in Vita d’un uomo.

Saggi e interventi, cit., p. 820). Nonostante la volontà di presentare la propria raccolta come trascrizione diaristica

dell’esperienza bellica vissuta in trincea («Questo vecchio libro è un diario. L’autore non ha altra ambizione […] se non quella di lasciare una sua bella biografia», Nota premessa all’edizione Preda del 1931 dell’Allegria, ora in UNGARETTI,

Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., pp. 761-762), andrà tuttavia precisato, con Carlo Ossola, che «lungi dall’essere un

documento dell’immediatezza o della tragedia che la guerra fa esplodere, [L’Allegria] rimane il primo esercizio di “spiegazione” simbolica della vita» (OSSOLA,Giuseppe Ungaretti, cit., p. 235), autentico nucleo generatore e scaturigine

nota Guido Guglielmi, ma che «ha una sua provenienza»:348 si delinea quella dialettica di innocenza e memoria che accompagnerà tutta la successiva riflessione poetica e critica di Ungaretti fino ai testi della Terra Promessa e alla sua ultima stagione.349

In questo primissimo dopoguerra, tuttavia, il poeta si limita a riflettere sulla direzione da imprimere alla sua ricerca («ritrovare un ordine», sulla scorta dell’analogo recupero di forme classiche che si verifica anche nel resto d’Europa) assumendo come punto di partenza gli autori della tradizione, nel formarsi di quella che il poeta chiamerà, con una formula ossimorica particolarmente efficace, «un’arte nuova classica». Un classicismo nuovo, dunque, che scaturisce da un tempo turbato, da un’«ora impaurita» (dirà il poeta nella Fine di Crono), come unica possibile difesa della continuità (della poesia e della possibilità del fare poesia) contro lo sgretolamento del presente.

Il programmatico recupero della tradizione si realizzava, per Ungaretti, in modo conflittuale, sofferto, a partire dalla consapevolezza della perdita, del divenire inesorabile: «accettare la tradizione – scriverà il poeta nelle note di autocommento alla lirica Lucca – è stato, è ancora, per me, l’avventura più drammatica».350

È una ricerca che si muove in una direzione del tutto diversa rispetto all’analogo e parallelo “ritorno all’ordine” realizzato in quegli stessi anni dalla «Ronda». Tale diversità (di intenti e di prospettive) appare chiara qualora si confrontino due testi chiave come il Prologo in tre parti di Cardarelli, apparso

348 GUIDO GUGLIELMI, La metafisica di Ungaretti, in L’invenzione della letteratura. Modernismo e avanguardia, Napoli,

Liguori, 2001, p. 133.

349 La diade concettuale di innocenza e memoria conosce, nella riflessione critica del poeta, un lento processo di

strutturazione formale che ha il suo punto di partenza in alcuni scritti del 1926. Un primo accenno all’idea di memoria come «profondità dell’uomo» da cui provengono «le apparizioni» che «impregnano di canto» la parola è contenuto nell’articolo Barbe finte (ora in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., pp. 117-122: 120), ma è nello scritto Innocenza

e memoria, cui Ungaretti lavora a più riprese nel corso del 1926, che i due termini trovano una loro prima, ancora

provvisoria, definizione e correlazione dialettica (le tre redazioni dell’articolo, apparso anche in versione francese su «La Nouvelle Revue Française», si trovano ora in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., pp. 129-138). Andrà osservato che i due concetti conosceranno, nel loro percorso di progressiva precisazione, significative oscillazioni di significato, soprattutto in relazione al polo della memoria, che si arricchirà nel tempo anche dei contributi che provengono ad Ungaretti dalla pratica traduttiva (Góngora, Shakespeare, Blake e più tardi Racine) e dalla lunga frequentazione dei suoi

maîtres à penser: Platone, Agostino, Petrarca, Leopardi, Bergson. Incide sulla messa a punto del sistema simbolico della

memoria anche il ricordo della terra natale, l’Egitto, e soprattutto del deserto, come luogo sottratto alla dimensione temporale e in cui, tuttavia, il tempo si manifesta con violenza nel suo rovinoso scorrere. Se l’innocenza appare, più stabilmente, come una condizione edenica che restituisce all’uomo uno stato di integrità, di grazia incorrotta da recuperare, attingendo alla purezza originaria del linguaggio, la memoria vede dilatarsi progressivamente il suo ambito di pertinenza, passando da una concezione assimilabile a quella di tradizione, passato di una lingua, a quella di principio mitopoietico, generatore di poesia, sempre più sostanziato del rapporto con il tempo e la morte («abbiamo coscienza delle cose quando non sono già più», scrive Ungaretti: solo quando le cose sono passate, sono lontane nel tempo o concluse nella morte, sono «atte a risorgere nella memoria», possono essere recuperate come un possesso finalmente duraturo, incorruttibile: torneremo su questo aspetto trattando delle figure di Palinuro e Didone). Per una disamina più approfondita, si rimanda, tra i molti contributi disponibili, a ANNA DOLFI, Giuseppe Ungaretti: innocenza e memoria della poesia

moderna, in «Cuadernos de Filología italiana», 2, 1995, pp. 183-197; MARIO PETRUCCIANI, Il condizionale di Didone.

Studi su Ungaretti, Roma, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, in particolare pp. 17-51.

sul primo numero della rivista romana, e lo scritto ungarettiano Verso un’arte nuova classica, pubblicato su «Il Popolo d’Italia» il 10 marzo 1919. In questo testo Ungaretti affermava, diversamente dal «classicismo metaforico e a doppio fondo» proposto da Cardarelli, formale e restaurativo, la necessità di una reciproca integrazione tra classicità e modernità, in una dialettica complementarità di tradizione e avventura del nuovo, di recupero ed invenzione:

mi pare che l’estro oggimai si muova per misterioso incontro d’inquietudine e di nostalgie, allo stesso modo dicessi che dattorno a me il presente altro non sia che un riflesso di passato e avvenire, di abbandono e di azzardo, di rimpianti e di desiderio, di tradizioni e di scoperte, di logica e d’intuizione, di stile e di fantasia; come se il passato fosse la carne e l’avvenire l’idea, ma fossero un tutt’uno nell’immagine viva dattorno a noi.351

È il deciso e netto rifiuto di un classicismo rivolto esclusivamente al passato, inteso come semplice restaurazione, come emerge chiaramente dalle lettere inviate in questi stessi anni a Soffici:

Credo, fermamente credo, che se togli all’arte il principio dell’avventura, se tu togli, dico, all’arte la possibilità di crearti una specie di leggenda imprevedibile, se tu togli all’arte la possibilità di determinarti una nuova atmosfera, di suscitartene gli attori, di modificare o addirittura di rinnovare lo stato d’animo del lettore: se tu togli queste conseguenze vive all’arte, è meglio mettersi a fare i buffoni.352

A quest’altezza la ricerca non è ancora approdata ad un esito definitivo, a quella poetica della memoria scaturita dalla consapevolezza del valore (e del potere) della parola che verrà sviluppata solo negli anni successivi attraverso l’esperienza del Sentimento del tempo e la profonda meditazione sulla tradizione letteraria (Petrarca e Leopardi, soprattutto) condotta nelle lezioni universitarie tenute in Brasile.353 È ancora un andare “verso”, come del resto indica chiaramente l’avverbio contenuto nel titolo dell’intervento appena preso in considerazione: Ungaretti acquista consapevolezza del manifestarsi in Europa dell’esigenza di un nuovo classicismo e a quest’esigenza, anche sua, cerca di offrire una risposta che sia anche una proposta positiva e percorribile, che non si limiti al semplice riconoscimento e alla perpetuazione dello stato di crisi del soggetto. Si tratta – per usare la suggestiva

351 UNGARETTI, Verso un’arte nuova classica (1919), in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 14.

352 UNGARETTI, Lettere a Soffici 1917-1930, a c. di PAOLA MONTEFOSCHI e LEONE PICCIONI, Sansoni, Firenze, 1981, pp.

78-79. La lettera è datata 23 febbraio 1920.

353 L’esperienza brasiliana di Ungaretti occupa gli anni 1937-1942. Il poeta insegnerà all’Università di San Paolo tenendo

lezioni sui principali autori della letteratura italiana, da San Francesco a Jacopone, a Dante e Petrarca, a Manzoni, a Leopardi.

immagine cui Ungaretti ricorre quasi in chiusura del suo breve intervento – di «raccattare i frantumi dell’orologio per provare d’intenderne il congegno, per provare di rifargli segnare il tempo»,354 ma la ricomposizione si rivelerà comunque precaria, manterrà evidenti – lo si vedrà analizzando La Terra

Promessa – i segni della rottura, della disgregazione.

È già riscontrabile la percezione di aver intrapreso una via per molti aspetti innovativa e originale rispetto a certe scelte nazionali di poetica coeve, fondate su un recupero più accademico e formale (e dunque sostanzialmente sterile) della tradizione, nei confronti delle quali Ungaretti non manca di manifestare il suo fastidio e la sua irritazione: «mi sembra che il classicismo affacciatosi al nostro orizzonte sia il peggiore, il più bolso degli arrivismi e degli estetismi; quando non sia moralmente, un sentimentalismo sempliciotto e fanatico».355 L’orizzonte entro il quale egli idealmente inserisce il suo percorso è invece quello, molto più ampio e vivace, delle contemporanee esperienze europee:

Vorrei che si ponesse mente a ciò che in quegli anni l’arte ricercava: Apollinaire scrive La Jolie Rousse e sente che il momento era giunto di porre termine al dissidio tra tradizione e invenzione, tra ordine e avventura; La

Jeune Parque di Paul Valéry stupisce per la musica verbale che da miracoli

di metrica si innalza alla pura architettura; Stravinskij, incomincia a soggiogare l’impeto ricorrendo all’esempio dei grandi compositori di musica del Sei-Settecento; Picasso scopre Pompei, Raffaello e Ingres e si converte a classiche eleganze; Carrà superato il futurismo dopo essersi dedicato un attimo all’avventura metafisica di De Chirico, ormai ricerca in Giotto il carattere della sua pittura.356

Apollinaire, Valéry, Stravinskij, Picasso, Carrà: non stupisce qui l’accostamento di poeti, artisti e musicisti, a formare un’idea di arte complessa e articolata, che abbraccia forme molteplici. Ungaretti non manca poi di annoverare anche la sua esperienza nell’alveo culturale appena richiamato, contrapponendo le sue scelte a quella che gli sembrava una generale e diffusa negazione del valore della poesia in versi («Da noi non si credeva che fosse ormai più possibile scrivere in versi. Si voleva prosa, poesia in prosa»357 – e la stoccata polemica, qui, chiama direttamente in causa la «Ronda»). Completamente diversa la strada intrapresa dal poeta, che nel medesimo intervento prosegue affermando:

la memoria pareva a me indicasse come unica ancora di salvezza solo il canto, e con umiltà tornavo a rileggere Jacopone, Dante, Petrarca, Guittone, Tasso,

354 UNGARETTI,Verso un’arte nuova classica, in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 15. 355 UNGARETTI, Lettere a Soffici 1917-1930, cit., p. 78.

356 UNGARETTI, Ungaretti commenta Ungaretti, cit., p. 824. 357 Ibidem.

il Cavalcanti, il Leopardi, cercando nel loro canto un’indicazione che potesse

far rifiorire il mio. Non era il novenario, l’endecasillabo, il settenario del tale

o del tal altro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario del canto italiano; era il canto italiano nella sua costanza attraverso voci così diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolari nell’esprimere ciascuna pensieri e sentimenti. Era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra disperatamente amata.358

Nonostante le affinità esteriori che sembrano accomunare il programma rondesco e la ricerca ungarettiana, quindi, il ritorno al classico proposto da Ungaretti si realizza su una via del tutto originale e personale, un percorso che nel richiamarsi a Petrarca e Leopardi, ad esempio, cercava molto più che modelli ideali di perfezione stilistica ed eleganza formale. Prendeva forma in Ungaretti un’idea di tradizione come flusso continuo, una stratificazione diacronica da recuperare (o meglio, ritrovare e rincontrare) nel confronto continuo e fertile con le più significative esperienze europee. Bene lo aveva inteso Mario Luzi che, nel contributo offerto al Convegno Internazionale di Studi dedicato ad Ungaretti nel 1989, a proposito del “sentimento della tradizione” ungarettiano si esprimeva con queste parole:

La tradizione secondo Ungaretti non ha nulla a che vedere con il riconoscimento dell’autorità di un ordine obbligante: riconosce invece tutto il potere di rivelazione che ha la storia della parola umana e la storia laboriosa dei modi in cui essa ha superiormente parlato. Quando la sua libertà è al massimo del proprio regime riesce a generare il convincimento, abbastanza esaltante, che al di là del senso reale delle epoche la tradizione […] sia un universo che l’uomo inventa per un atto di reciprocità tra passato e presente e si avvivi in uno spazio della memoria che viene da più lontano della storia.359

Nella reciprocità di passato e presente (in cui non sarà del tutto sbagliato scorgere significativi punti di contatto con quella «simultaneità» su cui anche Eliot poneva l’accento, in Tradition and the

Individual Talent del 1919), andrà dunque individuato il punto di partenza della riflessione di

Ungaretti dopo l’esperienza dell’Allegria di Naufragi: il sentimento di una contemporaneità che lega i grandi autori («i maggiori», scrive Ungaretti) in una sequenza ininterrotta e sempre presente nella

358 Ibidem. Corsivo mio.

359 MARIO LUZI, La presenza l’attualità di Ungaretti, in CARLO BO MARIO PETRUCCIANI (a c. di),Atti del convegno

coscienza del poeta e che lo rende allo stesso tempo esegeta ed inventore di una parola «che ha vita di secoli»360 ed è continuamente ri-creata.

Tra i poli ossimorici del recupero e dell’invenzione che caratterizzano il ritorno al classico proposto dall’«uomo di pena» si innesta la riflessione sulla memoria che ci traghetta dentro l’esperienza della

Terra Promessa e che definisce e sostanzia in misura crescente il rapporto poetico tra Ungaretti e

Virgilio.

3.2.3 «Ciò che è stato, è stato per sempre». Verso lo spazio/tempo della Terra Promessa Agli inizi degli anni Trenta Ungaretti affianca all’attività poetica in senso stretto quella giornalistica e del “conferenziere”, in parte rispondendo anche a difficoltà economiche (confidate agli amici in lettere cariche di preoccupazione)361 cui la sola poesia non riusciva a far fronte. Tra il 1931 e il 1935, dunque, realizza per la «Gazzetta del Popolo» di Torino una serie di reportages di viaggio: si reca in Egitto (dove torna per la prima volta dopo aver lasciato la sua città natale nel 1912), in Corsica, nei Paesi Bassi e in diverse parti della penisola italiana (Polesine, Mezzogiorno).362

Al 1932 risale la stesura di un resoconto di viaggio realizzato nell’Italia meridionale, in Cilento. Gli otto articoli derivati da quell’esperienza furono pubblicati sulla «Gazzetta» tra il 12 aprile e il 19 luglio di quell’anno e confluiranno successivamente, rielaborati, nel volume Il povero nella città (1949; poi anche in Il deserto e dopo, 1961), con il titolo Mezzogiorno.

360 «Se ebbi allora da meditare sulla memoria, fu meno perché vi fossi avviato da tecnici progressi da conseguire che

perché vi fossi spinto a cagione della pienezza di significato che la stessa memoria aveva compito di dare alla parola, infondendole peso, estendendone e rendendone profonde le prospettive. Una parola che ha vita di secoli, che in tanta storia riflette tante cose diverse, che ci rimette a colloquio con tante persone la cui presenza carnale è sulla terra scomparsa, ma non quella del loro spirito, se in noi operano ancora le parole; - una parola che può farci sentire, per il nostro dolore o il nostro conforto, nella sua viva storia la millenaria vicenda dell’operoso e drammatico popolo al quale apparteniamo, - una tale parola […] poteva ancora suggerire a un poeta d’oggi la via migliore d’arricchirsi e moralmente e nelle sue liriche espansioni. Fu così che sentii come la mia poesia dovesse sempre più compenetrarsi di memoria quasi assumendola a suo tema sostanziale». (UNGARETTI,Indefinibile aspirazione [1947/1955], in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., pp. 741-

746: 745).

361 «Ma vie au point de vue matériel, est encore une vie au jour le jour. Il faut que chaque matin je cherche comment je

gagnerai le pain du jour après». La lettera, inviata all’amico Jean Paulhan, risale al 1933. (GIUSEPPE UNGARETTI –JEAN