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Indossando la maschera di Enea: gli Ultimi cori per la Terra Promessa

Capitolo III Per un’epica dei vinti:

3.1 L’«ammotorato viandante»: mito e riscrittura del mito nel Passaggio d’Enea di Giorgio Capron

3.2.5 Indossando la maschera di Enea: gli Ultimi cori per la Terra Promessa

Negli altri testi che compongono la Terra Promessa, Ungaretti continua la sua meditazione sui motivi che caratterizzano in modo pronunciato la sua ultima poesia430: il trascorrere del tempo, la morte, il ruolo della memoria, il significato del viaggio. Non c’è traccia esplicita dell’eroe troiano in questi testi: usando le parole di Mario Petrucciani, sembra che Ungaretti «abbia lasciato in bianco [all’interno della Terra Promessa] lo spazio ideale nel quale avrebbero dovuto incastrarsi i Cori

descrittivi di stati d’animo d’Enea»,431 progettati e mai realizzati, ad esclusione di pochi versi che confluiranno poi nelle esperienze successive, negli Ultimi cori per la Terra Promessa, dentro Il

Taccuino del Vecchio, che di quel progetto, continua Ungaretti, «potrebbero in qualche modo

rappresentare l’abbozzo».432

Come già nei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, Enea è, anche in questi testi, presenza in assenza, motore invisibile della creazione poetica, mai affrontato direttamente. E se la specificazione di Ungaretti, quel rimandare al Taccuino del vecchio come al luogo in cui finalmente poter incontrare l’eroe troiano, non sembra convincere particolarmente un interprete come Petrucciani,433 è tuttavia

tutta volontaristica, con un gusto antiquario, con una pura volontà di forma. E perciò, nel riprenderla, deve anche denunciarne l’irrimediabile dispersione.» (GUGLIELMI, Giuseppe Ungaretti e la memoria dell’Eneide, cit., p. 318). 429 Nelle Note a questo componimento Ungaretti richiama, per la chiusa, alcuni versi di Pietà, ad indicare «la vanità di

tutto, sforzi, allettamenti: di tutto ciò che dipende dalla misera terrena vicenda storica dell’uomo» (UNGARETTI,Note a cura dell’Autore e di Ariodante Marianni, cit., p. 798): «L’uomo, monotono universo, / Crede allargarsi i beni / e dalle

sue mani febbrili / Non escono senza fine che limiti.», vv. 1-4.

430 Oltre ai testi analizzati, la raccolta include: Variazioni su nulla, Segreto del poeta e Finale. Il poeta riflette

particolarmente sul tema del tempo e del suo ossessivo trascorrere: in Variazione su nulla, che segue proprio il Recitativo

di Palinuro, «il tema è la durata terrena oltre la singolarità delle persone. Null’altro se non un disincarnato orologio che,

solo, nel vuoto, prosegua a sgocciolare i minuti» (UNGARETTI, Note a La Terra Promessa, in Vita d’un uomo. Tutte le

poesie, cit., p. 798). Il «nulla» temporale, cui si riferisce il titolo, l’impercettibile, ma inesorabile fluire della sabbia in una

clessidra che improvvisamente una mano ribalta, si realizza come innesto-scontro del tempo storico sul tempo ciclico. Come nota Guglielmi, si passa «da una prospettiva cosmologica e ciclica del tempo […] a una prospettiva dialettica ed esistenziale. E buio e nulla diventano due metafore, l’una fisica e l’altra metafisica, del tempo mortale, non del tempo ciclico, ma del tempo dell’irripetibile» (GUGLIELMI, Interpretazione di Ungaretti, cit., p. 109).

431 PETRUCCIANI, Il condizionale di Didone, cit., p. 147.

432 UNGARETTI, Note a La Terra Promessa, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 777.

433 «[Tale dichiarazione] ha tutto l’aspetto di una excusatio non petita: uno scrupolo di compiutezza architettonica,

l’autodifesa per un (presunto) peccato di omissione, il tentativo di sanare in qualche modo la (presupposta) lacuna non con un intervento dall’interno della struttura, ma con un arrangiamento giustappositivo, dall’esterno. Perciò non convince completamente –e il «potrebbero» suona forse come spia della scarsa persuasione dello stesso autore – il suggerimento di considerare «in qualche modo» Il taccuino del vecchio e gli Ultimi cori per la Terra Promessa come un abbozzo dei

possibile rintracciare, nei versi delle ultime raccolte, qualche altra tessera con cui completare il mosaico che in questi paragrafi si è cercato di assemblare.

È ancora Petrucciani a dare notizia di una riproduzione anastatica, contenuta in Life of a man, edizione inglese dell’opera poetica di Ungaretti curata da Allen Mandelbaum nel 1958, di un autografo del poeta contenente 31 versi ripartiti in 5 strofe, sul modello dei Cori di Didone, con l’intestazione «dai / Cori descrittivi di stati d’animo di Enea / per la Terra Promessa».

I nuclei figurativi presenti e individuabili in quei versi sono coerentemente gli stessi attorno ai quali

La Terra Promessa era stata concepita: il viaggio, la meta, il «vivere terreno», le macerie, la morte,

le sabbie, il deserto. «Nonostante la riconoscibilità di questi tratti interpretativi – continua Petrucciani – ai versi sembra tuttavia far difetto la incisività di tratti distintivi che – come accadde invece per Palinuro nel Recitativo e per Didone nei Cori – conferiscano al personaggio una caratterizzazione vitale. Sarà questo il motivo per cui il poeta ha rinunciato al progetto documentato dall’autografo?».434

I trentun versi radunati sotto l’etichetta di Cori descrittivi di stati d’animo d’Enea, rimasti allo stato di abbozzo e parzialmente pubblicati su diverse riviste dell’epoca nel corso degli anni Cinquanta, confluiscono, tolto il riferimento ad Enea, negli Ultimi cori per la Terra Promessa del 1960 (si tratta dei cori IV, V, VI, VII, VIII; di quest’ultimo, vanno esclusi gli ultimi quattro versi, di successiva elaborazione).

I temi dell’evanescenza del tempo e dello spazio, l’ossessione della morte, il miraggio del futuro, della trama inconoscibile della vita, illuminata soltanto a lampi, a bagliori di inafferrabile chiarezza, si legano in questi Ultimi cori alla rappresentazione poetica degli eventi e delle esperienze capitali del presente435 (dal volo degli aerei a quello dei satelliti artificiali, come nei Cori XVI e XVII: ma l’occasione cronachistica, per così dire, è sempre trasfigurata in visione). Viene cioè a delinearsi l’intera «vita d’un uomo», «l’avventura di un moderno Enea»,436 per riprendere la suggestiva definizione di Paglia, che non avrà altra missione se non continuare il suo viaggio, «in questo secolo della pazienza / e di fretta angosciosa» (Coro XXIII).

434 Ivi, p. 152.

435 «Certo in tutta quella parte dei cori sovrasta quella visione di massacro cui s’è votato l’Occidente, (Russia compresa)

la visione di ciò che è sorto d’implacabile da questa nostra antica civiltà dei numeri e che ha invaso ogni punto di mondo, impaziente d’uniformarsi da un polo all’altro al nostro tragico destino. Ma forse sono pessimista. E in essi, nei cori, c’è anche il richiamo della natura. […] C’è, dicevo, il richiamo della natura, quella perenne, di contro a quella, terribile, di cui parla Heisenberg, e di cui si ha nozione dalla fisica d’oggi, per la quale i vecchi numeri sono incapaci a trovare sviluppi di misure esatte, e che procede ancora si direbbe per demenza». (Lettera ad Enzo Paci, datata 16 gennaio 1959, in GIUSEPPE UNGARETTI –ENZO PACI, Lettere a un fenomenologo, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1972).

Se si focalizza l’attenzione sui quei cori più linearmente derivati dal progetto iniziale, si vedrà come, pur all’interno di una grande varietà tematica, il motivo principale sia la sopravvenuta consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere la Terra Promessa, ora apertamente asserita dal nomade-poeta:

Verso meta si fugge: Chi la conoscerà? Non d’Itaca si sogna Smarriti in vario mare,

Ma va la mira al Sinai sopra sabbie Che novera monotone giornate.

(Ultimi cori per la Terra Promessa, IV)

Si percorre il deserto con residui

Di qualche immagine di prima in mente, Della Terra Promessa

Nient’altro un vivo sa.

(Ultimi cori per la Terra Promessa, V)

All’infinito se durasse il viaggio, Non durerebbe un attimo, e la morte È già qui, poco prima.

Un attimo interrotto,

Oltre non dura un vivere terreno: Se s’interrompe sulla cima a un Sinai, La legge a chi rimane si rinnova, Riprende a incrudelire l’illusione.

(Ultimi cori per la Terra Promessa, VI)

I Cori appena citati realizzano, epifanicamente, il viaggio della «vita d’un uomo», proiettandolo verso il conseguimento di una meta di cui si pone in dubbio sia la conoscibilità che la possibilità di raggiungimento. L’illusione e la speranza di poter approdare ad un «paese innocente» si colloca ormai in una dimensione metafisica, nella consapevolezza che il viaggio terreno non può sperimentare il conseguimento della meta: come attesta il VI Coro, «Riprende a incrudelire l’illusione».

Si noti la costruzione ambigua del verbo, nel IV coro («verso meta si fugge»): le mura di Itaca (ma ormai è già avvenuta anche la felice contaminazione con il Sinai di biblica memoria) sono una meta

sfuggente cui si tende e da cui contemporaneamente si fugge. Come nota Carlo Ossola, la contraddizione di questo verso non si risolve se non con l’ammissione che il viaggio «non conduce alla terra promessa, ma arretra sempre alla terra della promessa»:437 come scrive Ungaretti nel IV Coro, «Non d’Itaca si sogna / […] Ma va la mira al Sinai», non là dove termina e si conclude, infine, il viaggio, ma dove era iniziato. Eden e Terra Promessa vengono ora compiutamente ad identificarsi, a coincidere come consapevole frattura (definitiva e non più riscattabile) del ritorno: «il senso della frattura – annota il poeta – permane; ma non sarebbe La Terra Promessa il canto che è, il canto d’una esperienza consumata, se della frattura non mi volessi o sapessi accorgere».438 Questa consapevolezza viene portata, negli Ultimi cori, al suo massimo grado di significazione. Se già nella Terra Promessa si era potuta notare la tendenza della parola a farsi «cosa perduta», ad isolarsi, come un grido impietrato, in un nome, ora, negli Ultimi cori, essa si riduce ancora di più a resto, a residuo.

In questa prospettiva, la frammentarietà ancora più esibita della raccolta è qualcosa di più di un semplice aspetto della sua vicenda redazionale: arrivato ormai al termine del suo viaggio, il poeta sembra accorgersi «che non è il tutto se non di macerie» e «che solo puoi afferrare / Bricioli di ricordi» (Coro VII). Come la Terra Promessa (nel cui segno possiamo correttamente includere anche la stagione del Taccuino del vecchio) anche questa nuova raccolta ha significato solo nella sua incompiutezza.

Nella consapevolezza che il naufragio si è realizzato, e che non vi, in esso, alcuna allegria, il poeta assume l’ultima maschera,439 che comprende tutte le precedenti: egli è il nomade, l’esiliato, il profugo, è insieme Ulisse («l’irrefrenabile curiosità / e il volere fatale», Coro XXIII) e Mosè, errante alla ricerca della sua Terra Promessa, è Palinuro e Didone, fedeltà alla propria meta ed esperienza del decadimento, come prima era stato il soldato in trincea e l’«uomo di pena». È, infine, anche e soprattutto Enea: l’eroe che aveva cercato «l’antica madre», sua terra promessa, è ora l’eroe invecchiato costretto a tracciare il disincantato bilancio di tutta una vita, nell’incessante interrogazione sulla fine, e che, nella consapevolezza dell’illusorietà dell’approdo, pure continua a viaggiare.

Il viaggio infatti continua, perché esso sembra costituire l’unico estremo tentativo ancora possibile di rimanere in vita e autentica condizione dell’umano vivere:

Tale per nostra sorte Il viaggio che proseguo,

437 OSSOLA, Giuseppe Ungaretti, cit., p. 414.

438 Citato in OSSOLA, Giuseppe Ungaretti, cit., p. 406. E sul motivo della frattura, si tenga presente anche quanto Ungaretti

scrive nel VI Coro: «Un attimo interrotto, / Oltre non dura un vivere terreno».

439 «Poeti, poeti, ci siamo messi / Tutte le maschere; / Ma uno non è che la propria persona.» (UNGARETTI, Monologhetto,

In un battibaleno Esumando, Inventando Da capo a fondo il tempo,

Profugo come gli altri

Che furono, che sono, che saranno.

(Ultimi cori per la Terra Promessa, I)

Il ritrovarsi in vita del profugo è allora «ogni attimo sorpresa» (Coro I) in cui reinventare il tempo, recuperando la possibilità di un tempo esistenziale all’interno di un tempo inteso come ininterrotto, ossessivo fluire: «agglutinati all’oggi / I giorni del passato / E gli altri che verranno» (Coro I). Ma anche questa speranza è vana, è un’illusione: «All’infinito se durasse il viaggio, / Non durerebbe che un attimo, e la morte / È già qui, poco prima» (Coro VI). E in realtà la dimensione temporale che struttura e comprende gli Ultimi cori è ambigua, perché nel suo fluire ininterrotto, nel suo essere «sabbia» che ossessivamente scorre, il tempo sembra annullarsi, è un’eternità immobile ed opaca, viene a coincidere (nella duplice coordinata spazio-temporale, quindi) con il deserto, con il suo vuoto: «si percorre il deserto con residui / Di qualche immagine di prima in mente, / Della Terra Promessa / Nient’altro un vivo sa» (Coro V). Anche la Terra Promessa è destinata a bruciare, a farsi polvere, a lasciare – unico residuo – l’«ossame bianchissimo» del poeta.

In questo deserto, dilatato vertiginosamente, si rovescia, per paradosso, il naufragio dell’errante: il viaggio per mare non conduce al porto perduto, ma, iniziato nel deserto, al deserto infine riconduce. Si aggiunge qui un’ulteriore elemento di significazione. Nel deserto, infatti, Ungaretti identifica più volte «il primo stimolo alla poesia». Si consideri quanto il poeta afferma, nell’intervista rilasciata a Ferdinando Camon:

Ungaretti: L’immagine della desolazione mi si è fatta ossessiva sino dalle mie prime poesie. A precisarla in me, fu il deserto: da esso nascevano, nel lontano mio tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, la nozione e il sentimento dell’infinito, del primitivo del decadimento fino al nulla.

Camon: È la matrice dei motivi più duraturi.

Ungaretti: Sì, perché il deserto era il primo segno che muoveva familiarmente il mio sentimento e la mia fantasia. Circonda, si sa, insieme al mare, Alessandria d’Egitto, la mia città natale. Là, deserto e mare sono in continuo contatto e contrasto: l’uno è statico e pare immutabile, l’altro è in agitazione perpetua; il primo rappresenta, senza che uno possa avvedersene, ciò che va deteriorandosi senza posa; l’altro, senza sosta, manifesta furiosamente il rinnovamento. Sono la mia prima visione della realtà.440

Nato nel deserto, al deserto Ungaretti sembra infine, con la sua ultima stagione poetica, ritornare: la morte arriva dallo stesso luogo da cui aveva avuto origine la vita. L’impossibilità di completare il progetto della Terra Promessa con i Cori d’Enea da cui questa esplorazione era partita potrebbe allora essere ricondotta al riconoscimento che anche Enea è emblema di una transizione, non di una permanenza: egli non può essere quell’immagine di «giovinezza, ingenuità in cerca sempre di Terra Promessa»441 che il poeta aveva, in un primo tempo, progettato. Quel sogno si è infranto, rimangono solo i residui: come nota Stefano Colangelo, «l’immagine ungarettiana del deserto, già rappresentativa di un’origine perduta nella distanza storica, si associa qui all’ultimo periodo della vita: quello dei residui, dei detriti di memoria, delle esperienze logorate e rese, insieme, autentiche dall’azione di un tempo universale».442

Che ruolo attribuire, in questo paesaggio di rovine senza speranza, alla memoria? È ancora essa in grado di agire da antidoto all’azione congiunta di dimenticanza e disgregazione operata dalla morte?

Se una tua mano schiva la sventura, Con l’altra mano scopri

Che non è il tutto se non di macerie. È sopravvivere alla morte, vivere? Si oppone alla tua sorte una tua mano, Ma l’altra, vedi, subito t’accerta Che solo puoi afferrare

Bricioli di ricordi.

(Coro VII; corsivo mio)

Il poeta protende una mano, a fare da schermo alla «sventura», mentre con l’altra egli non può che accertare che «non è il tutto se non di macerie». La decomposizione della realtà agisce anche sui ricordi: essi si presentano ormai sgretolati, disorganici, residuali, sono «bricioli» non più portatori di senso, non aiutano a decifrare l’enigma del vivere. Nemmeno la memoria può contrastare il dilagare dell’oblio: essa conserva «qualche immagine di prima in mente», ma le «memori membra» (Coro X) «tenebra aggiungono al mio buio solito, / Mi fanno più non essere che notte, / Nell’urlo muto, notte». Nell’ossimoro del verso finale qui riportato, Ungaretti sembra infine sintetizzare il suo discorso sulla memoria, così come esso si presenta nella sua ultima stagione.

441 PICCIONI, Le origini della Terra Promessa, cit., p. 1307.

442 STEFANO COLANGELO, Note ai testi, in NIVA LORENZINI – STEFANO COLANGELO, Giuseppe Ungaretti, Firenze, Le

Si affermava prima che il viaggio del poeta-nomade-errante continua, nonostante la consapevolezza dell’impossibilità (e forse vanità) di raggiungere non solo la meta, ma anche un approdo stabile, durevole, se non definitivo.

Gli Ultimi Cori si chiudono con l’immagine di un «vecchio capitano» che va, «tranquillo», verso un faro illuminato: come nota Enzo Paci, «Enea è sempre pronto a ripartire e a riprendere il viaggio per la Terra Promessa. È questo il segreto: sentire la presenza della Terra Promessa non nella conquista, ma nella direzione verso la verità, della verità come telos che diventa significato ideale e, nello stesso tempo, sensibile».443 Il viaggio del poeta e dell’uomo Ungaretti prosegue, «sino alla morte in balia del viaggio», come scriveva nel 1916 in Lindoro di deserto, poesia tra le prime composte del Porto

Sepolto, rimastagli sempre particolarmente cara; nella circolarità di un itinerario che rivela la Terra Promessa e Gli ultimi cori come ideale e lineare prosieguo dell’esperienza che nel nome di Moammed

Sceab si inaugurava (storia di un altro viaggio, di un diverso esilio), il solitario nostos del poeta continua, verso l’«innanzi nascita» mai raggiunta.

Capitolo IV «Do people still sing?».

Traduzioni dell’Eneide nel Novecento

We spent an afternoon playing with “How could you translate the first three or four words?”: Arma virumque cano. Robert [Fitzgerald] was faced with that. Do you just say: I sing of arms and a man? Do people still sing? He said he might just begin with arma virumque

cano and then proceed with the English,

but in the end, without triumph or pleasure he settled for «I sing of warfare and a man at war».444

SEAMUS HEANEY,Sounding lines.

The art of translating poetry (2000)

4. 1 Classici e traduzione nel Novecento: presupposti teorici e prime considerazioni per un bilancio

Nel corso di un incontro dedicato alle molte forme della traduzione, avvenuto con Robert Hass, poeta e traduttore di Czesław Miłosz in America, Seamus Heaney riportò l’episodio che qui si è posto in epigrafe, risalente alla prima metà degli anni Ottanta e al contesto di una nuova traduzione inglese del poema epico virgiliano approntata da Robert Fitzgerald e pubblicata nel 1983.445 Come tradurre – si chiedeva il poeta americano, in seguito traduttore anche di Iliade ed Odissea – quel primo celeberrimo emistichio e come rendere conto dell’inevitabile trasformazione di un termine pregnante del lessico dell’epica come il verbo proemiale cano?

Il quesito offre lo spunto per una riflessione preliminare sulle forme e sui modi del tradurre (e del tradurre i classici, nel Novecento e oggi), a partire dal riconoscimento del carattere storicamente

444 [«Passammo un intero pomeriggio giocando con “Come si potrebbero tradurre le prime tre o quattro parole?”: arma

virumque cano. Robert si stava confrontando con questo aspetto. Si può semplicemente dire: Canto le armi e un uomo?

Le persone cantano, ancora? Disse che avrebbe potuto cominciare semplicemente con arma virumque cano, per poi procedere in inglese, ma alla fine, senza alcuna contentezza o piacere, decise per “canto la guerra e un uomo in guerra”». Traduzione mia]. (SEAMUS HEANEY, Sounding lines. The art of translating poetry, Berkeley, The Doreen B. Townsend Center for the Humanities, 2000, p. 16).

determinato di ogni traduzione, che si presenta, in questa prospettiva, come l’esito di un processo di negoziazione tra culture costantemente provvisorio, di volta in volta condizionato dalle caratteristiche politico-istituzionali oltre che socio-culturali del contesto di ricezione. Ogni traduzione, dunque, appartiene ad una storia e ad una precisa “stagione” letteraria che ne determinano con precisione proprietà, fisionomia ed obiettivi.

Da questo assunto derivano due importanti conseguenze: da una parte, il bisogno costante di nuove traduzioni,446 che restituiscono al testo un’esistenza nel presente della lingua e ridefiniscono continuamente la relazione tra l’antico e il nuovo;447 dall’altra, la possibilità di assumere le diverse versioni – soprattutto per opere come l’Eneide, caratterizzate da una lunga e prestigiosa tradizione traduttiva – come una specola privilegiata da cui guardare alle interazioni tra la storia e la letteratura, tra l’innovazione della tradizione e il consolidamento del canone. Le traduzioni, scriveva Anceschi, «ci danno il tono, la misura, il diretto significato del modo di leggere di un secolo, di un movimento letterario, di una personalità»: «una storia del gusto del tradurre – concludeva il critico – può essere uno degli spiragli più rivelatori che si aprono sulla storia di una civiltà letteraria».448

Il riconoscimento della complessità culturale del fenomeno traduttivo rappresenta oggi una solida