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2 Per evitare di porre il problema sul piano dello sviluppo regionale,

circoscrivendo la crisi ambientale attraverso attori e conflitti determinabili, il discorso dominante sulla fine della biodiversità fa anche di più. Autori come Niles Eldredge descrivono una fine della biodiversità attraverso il registro, con i termini e il senso comune dell’economia neoliberista. Direttore della Smithsonian Institution di New York e interlocutore in Italia di Telmo Pievani, in uno dei primi testi divulgativi sulla fine della biodiversità ad aver avuto grande diffusione internazionale, Eldredge riassume così il comportamento della specie umana rispetto al proprio ecosistema. Questa, in virtù di una differenza ontologica non meglio chiarita, si differenzia da tutte le altre specie animali perché: “per la prima volta nella storia dei viventi una specie, la nostra specie, Homo sapiens, è uscita dal suo ecosistema naturale”.9

La specie umana, con la pratica dell’agricoltura, avrebbe guadagnato in- dipendenza dalla capacità produttiva degli ecosistemi locali in cui 10.000 anni fa viveva in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori. Il successo eco- logico di questa caratteristica non ha indicatori migliori che l’aumento della consistenza numerica delle popolazioni umane. Diversamente da ogni altra specie, che stabilisce scambi con altri organismi in ecosistemi locali e quindi ha un habitat localmente limitato, secondo Eldredge la specie umana ha una “caratteristica ecologica esclusiva”: “siamo una specie a distribuzione glo-

bale internamente integrata”:10

ognuno di noi è infatti connesso, in senso strettamente economico, con tutte le altre popolazioni umane del pianeta. Noi importiamo ed esportiamo; in effetti, come si può vedere, gran parte del valore diretto e utilitaristico che attribuiamo all’esuberante diversità della vita dipende proprio dai nostri rapporti economici con gli uomini che vivono ai più remoti angoli del mondo.11

Questa definizione ecologica di ambiente comporta subito il problema dell’emergenza della specie umana tra le altre specie e, con questo, la ten- denza a leggere i suoi comportamenti non secondo rapporti tra culture e individui determinati, ma secondo un (bizantino) rapporto tra il particolare dell’individuo e l’universale della specie, a prescindere da ogni differenza, anche economica, tra modi di produzione e consumo, o forme di vita. L’am- biente della specie umana tende così a coincidere con l’economia globale e

9 Niles Eldredge, (2000). La vita in bilico. Il pianeta terra sull’orlo dell’estinzione, (trad.

it. G. P. Panini) Torino: Einaudi.

10 Ivi, p. 208. 11 Ivi, p. 209

si dissolve in un “clima” indeterminato e astratto.

Contro quest’universale astratto si pone Dipesh Chakrabarty, che, da par- te sua, ne fa una dialettica negativa ispirata alla prima Scuola di Francoforte. In continuità con le critiche di Adorno alla filosofia hegeliana della storia, Chakrabarty individua la possibilità di una storia universale negativa, cioè, senza sussunzione del particolare a un’unica identità globale normativa, in- dividuata invece proprio nel senso di catastrofe che scaturisce dall’esperien- za di non poter avere un’esperienza universale del mondo:

Climate change is an unintended consequence of human actions and shows, only through scientific analysis, the effects of our actions as a species. Species may indeed be the name of a placeholder for an emergent, new universal history of humans that flashes up in the moment of the danger that is climate change. But we can never understand this universal. It is not a Hegelian universal arising dialectically out of the movement of history, or a universal of capital brought forth by the present crisis. Geyer and Bright are right to reject those two varie- ties of the universal. Yet climate change poses for us a question of a human col- lectivity, an us, pointing to a figure of the universal that escapes our capacity to experience the world. It is more like a universal that arises from a shared sense of a catastrophe. It calls for a global approach to politics without the myth of a global identity, for, unlike a Hegelian universal, it cannot subsume particulari- ties. We may provisionally call it a “negative universal history.”12

La critica di Chakrabarty alle storiografie da un lato universaliste, dall’altro strettamente marxiste, sottolinea come l’universale della specie sia incomprensibile, scaturito più che altro dalla misurazione quantitativa dell’attività umana secondo parametri ambientali. Perché sia comprensibile, dev’essere riesaminato il problema di stabilire la natura del legame politico. Come si presenta una dimensione collettiva che possa dirsi umana senza essere un’identità globale posta dal mercato? Dal momento che Chakrabarty non vede soluzioni praticabili, egli approda a una storia universale negati- va, che sembra quasi un’eterna sospensione di giudizio sulla storia che si racconta, quasi un naufragio della teoria critica. L’approdo di Chakrabarty è quindi una fenomenologia della storia con un universale negativo, la cui pars

construens, che possiamo leggere tra le righe, può essere rinvenuta negli

scritti postumi di Ernesto De Martino sulla fine del mondo (2002), dedicati proprio al senso di catastrofe. La catastrofe, è per De Martino la mancanza di un’esperienza universale del mondo, e viene fuori precisamente dall’incon- tro etnografico. Una catastrofe che appartiene a ogni esperienza cosmopoli- tica, e che significa semplicemente la necessaria e costante riarticolazione dell’orizzonte comune di esperienza. Tra la posizione di De Martino e quella di Chakrabarty, la posta in gioco sembra essere la decisione tra una catastrofe che è la condizione naturale di un’esistenza cosmopolitica, fatta di piccole

12 Dipesh Chakrabarty(2009). “The climate of history. Four Theses”. In Critical Inquiry 35, p. 222.

catastrofi quotidiane, e una grande mistica negativa della storia. Se la filoso- fia della storia designata nella teoria critica prima di Adorno, poi di Chakra- barty, mostra delle difficoltà, queste sono proprio legate a una preponderanza del negativo che distruibuisce le differenze tra culture sull’asse di identità e differenza e che, volendo evitare visioni totalitarie per Adorno, globaliz- zanti per Chakrabarty, impedisce sì Grandi Narrazioni, ma anche narrazioni minori. Per cui, in cerca di narrazioni minori, regionali ed etico-politiche, si può forse praticare un esodo dal modo di fare storia della teoria critica (fran- cofortese e postcoloniale). La raccolta demartiniana di scritti postumi sulla fine del mondo afferma che il senso di catastrofe è più che altro la manife- stazione di un senso occidentale della fine, una percezione per cui l’estraneo non integrato a un sistema continuo incrina irreversibilmente l’artificio della continuità, armonica e stilizzata, dell’esperienza.